LETTERA DAL CARCERE |
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N.d.R. 1 (differenti condizioni di ricezione e giudizi di valore) E’ con una qualche riluttanza se adesso qui si inserisce qualche lunga citazione da sopportare - ma se si gioca a carte scoperte bisogna pure che si mostrino tutte fin dall’inizio. La prima riguarda il pensiero dell’architetto Gottfried Semper, che già a metà ottocento vedeva le fasi di dissoluzione delle epoche come “massimamente importanti per la teoria dell’arte”.
In queste parole è innegabile riscontrare una qualche sintonia con una visione delle cose che appartengono alla tradizione del nostro pensiero critico; e intendo non solo richiamare la nota frase dei Lineamenti di Marx: “D’altra parte, se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi”, ma anche il procedere dalle forme più sviluppate, attuali, per comprendere quelle precedenti. Una sintonia che non ci sorprenderebbe se andassimo a vedere la biografia del Semper [2] per constatare che, a 46 anni, e già professore di architettura all’Accademia di Dresda, aveva partecipato attivamente all’insurrezione della città nel 1849 e quindi costretto all’emigrazione in Svizzera, Inghilterra e Austria. Non vogliamo dire che il clima rivoluzionario in cui era immerso aveva contribuito a scuotere anche i tradizionali paradigmi del suo lavoro, ma, insomma, è del tutto probabile che abbia dato una mano per svolgerli con più decisione oltre i limiti canonici, in una direzione che possiamo dire antiformista. I momenti rivoluzionari sono anche portatori di nuove prospettive conoscitive.…
Interessante. E a seguire c’è anche dell’altro:
Ed ora, infine, riannodiamo il bandolo.
[1] . Gotfried Semper, Der Stil, in den technischen und tektonischen Künsten oder Praktische Aestetik, Frankfurt 1860. E’ l’inizio del prologo al trattato, giustamente citato da Wolfgang Herrmann in Gottfried Semper, Architettura e teoria (1981), Electa-Mondadori, Milano 1990, p. 238. – Nella lettera ad Engels da Londra del 31.08.1851, Marx nomina l’architetto sassone Semper indicandolo tra i componenti appena eletti del Comitato profughi “della democrazia”. [2] . Gottfried Semper (Amburgo 1803 – Roma 1879) è stato un architetto tedesco. Si orientò ai modelli storici dell'architettura del passato, soprattutto scegliendo le forme dell'architettura classica, disdegnando invece le soluzioni dell'architettura neogotica che pure andavano affermandosi in quell'epoca. Partecipò ai moti rivoluzionari prendendo parte a uno degli ultimi eventi del biennio rivoluzionario, ovvero la rivolta repubblicana scoppiata proprio a Dresda nel maggio del 1849, progettando le barricate da opporre alle truppe del duca di Sassonia e combattendovi assieme ad altri illustri personaggi della cultura tedesca, come, ad esempio, Richard Wagner. Sicché fu in seguito costretto a lasciare la città per riparare dapprima in Svizzera e poi a Londra e Vienna. È sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. - Tra i suoi più famosi lavori, si ricordano l'Opera di Dresda, il Politecnico federale di Zurigo e gli interventi di risistemazione della Ringstraße a Vienna compreso un nuovo piano per il Burgtheater della capitale austriaca. Semper è considerato uno dei grandi promotori dell'evoluzione architettonica del XX sec. Più che i suoi edifici, che nel XIX sec. servirono da modello per un'intera generazione di suoi allievi al Politecnico, furono soprattutto i suoi scritti a esercitare un'influenza duratura. Di importanza fondamentale fu la sua opera principale Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica (1860-63, in due volumi), cui si riferirono diversi architetti del Novecento e che ispirò direttamente il movimento olandese De Stijl (o Neoplasticismo 1917: Theo van Doesburg, Piet Mondrian, Georges Vantongerloo, architetti G. T. Rietveld, J. J. Oud, C. van Eesteren). [3] . Le due citazioni precedenti sono tratte da Kurt W. Forster, Aby Warburg cartografo delle passioni, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2002, pag. 36 e oltre. [4] . Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Introduzione alla raccolta Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 15 seg. N.d.R. 2 In un museo nazionale d’arte percepiamo del tutto naturale che un crocifisso ligneo medievale, una pala d’altare del quattrocento o un quadro cubista, si trovino tutte in uno spazio del tutto indifferente alle funzioni d’uso per cui questi oggetti sono stati prodotti; raccolti qui in quanto hanno tutti o alcuni dei parametri invarianti con il paradigma dell’opera d’arte tradizionalmente intesa (materiali, processi ideativi e produttivi, abilità del produttore ed eccellenza delle risoluzioni ecc.) ed ora hanno, tutti indifferentemente, un’unica funzione: la contemplazione visiva in vista di ricavarne un piacere estetico nel guardare queste opere sublimi.
L’azione automatica di una sorta di simmetria incarnata (bilaterale) autorizza o favorisce molte operazioni di riconoscimento dell’oggetto che avviene sulla base dell’esperienza. Il ritratto di una donna lo riconosciamo per simmetrie ad una donna reale, il dipinto di un paesaggio per simmetrie al panorama circostante ecc.; e l’insieme di certi oggetti lo riconosciamo come arte per simmetrie con l’insieme degli oggetti raccolti in un museo o in volumi di storia dell’arte. L’infatuato dei valori eterni reclama sempre una autorizzazione superiore da parte delle cose. Ma quando l’oggetto è fuori dalla portata di tali simmetrie e autorizzazioni istituzionali (vuoi perché ha smesso di stabilire simmetrie con le forme esterne del mondo immediato e con quelle dell’arte tradizionale, o perché ad un certo momento prende a stabilirle solo con sé stesso e il suo proprio sistema di prodursi e riprodursi, cioè con i suoi propri “codici” linguistici, semantici, o per altre ragioni), ecco che allora uno può perdere la bussola [7] da indurlo a chiedere: chi o cosa autorizza un orinatoio in porcellana o una ruota di bicicletta di presentarsi negli spazi dei musei d’arte invece che nelle vetrine di negozi di articoli sanitari o sportivi, che gli competono? … Bella domanda davvero…! [5] . Vittorio Gallese e Michele Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina editore, Milano 2015, p. 16. [6] . Andrea Pinotti, Memorie del neutro, Mimesis, Milano 2001, pp. 15-16; in Lo schermo empatico, cit. p. 30. [7] . Se uno si trova esattamente sopra al punto centrale del polo magnetico l’ago della sua bussola, forzato ad orientarsi verticalmente, punterebbe verso il basso, o , cercando di conservare un eventuale momento angolare, potrebbe mettersi a ruotare senza sosta su sè stesso. N.d.R. 3
Di seguito, vari brani da Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Bari 1997, pagine. 60, 66, 70, 71, 73. - [...] Come ha rilevato una volta Erwin Panofsky (che pubblicò nel 1945 una grande monografia su Albrecht Dürer) la rigorosa descrizione della realtà naturale che è presente nell’opera dei grandi pittori e incisori dal tardo Quattrocento al Seicento ha, per le scienze descrittive, la stessa importanza che ha (per l’astronomia e le scienze della vita) l’invenzione del telescopio e del microscopio. Le illustrazioni dei libri di botanica, anatomia, zoologia non sono semplici integrazioni al testo. La insufficienza delle descrizioni verbali dipendeva anche dalla assenza di un linguaggio tecnico (che viene raggiunto dalla botanica solo nel corso dell’Ottocento). La collaborazione degli artisti ebbe comunque, nelle scienze descrittive, effetti rivoluzionari.[8]- [...] Nella sua tesi sulle «illustrazioni» e sui «limiti della somiglianza al vero», Ernst Gombrich ha certamente ragione: una rappresentazione già esistente «eserciterà sempre il suo ascendente sull’artista anche quando questi vuole fissare il vero» e «non si può creare dal nulla un’immagine visiva». E tuttavia, com’egli stesso ha sottolineato e come risulta da un confronto fra le immagini di un leone e di un porcospino tracciate dall’architetto gotico Villard de Honnecourt e quella di un coniglio dipinto ad acquarello da Dürer, nel periodo di tempo compreso fra il Trecento e il Cinquecento è accaduto qualcosa di decisivo. Lo «stile» ha perso la sua rigidità, ha «imparato ad adeguarsi con sufficiente scioltezza» ai soggetti che cadono sotto lo sguardo (Gombrich, 1965). Questo mutamento ha avuto, anche sugli sviluppi del sapere scientifico, effetti non secondari. - [...] La realtà dell’universo era stata ampliata dall’uso di uno strumento meccanico che era in grado di aiutare e perfezionare e raffinare i sensi dell’uomo. Le osservazioni astronomiche di Galilei non segnavano soltanto la fine di una visione del mondo. Sembrarono anche ai contemporanei l’atto di nascita di un nuovo concetto di esperienza e di verità. La «certezza data dagli occhi» aveva spezzato il cerchio senza fine delle dispute. - [...] Non c’è, nella storia del microscopio e dei suoi rapporti con la scienza, nessuna data drammatica, paragonabile a quella del 1609 per il cannocchiale. Quest’ultimo, come è stato più volte notato, esercita la sua azione all’interno di una scienza già consolidata, che ha un’antica e salda tradizione. Il microscopio sta invece, in qualche modo, agli inizi di un lungo processo che conduce al costituirsi di nuove scienze. - [...] Dobbiamo tornare per un momento al tema dell’importanza delle illustrazioni. Perché proprio le bellissime incisioni del grande architetto Christopher Wren, che compaiono nella Micrographia di Hooke (1665), collocano quest’opera (esattamente com’era accaduto un secolo prima con quella di Vesalio) su un piano diverso da quelle dei suoi contemporanei. E fra i contemporanei c’era Marcello Malpighi, che è certamente assai piu biologo di Hooke, e che nel 1661 aveva pubblicato il De pulmonibus. Le grandi possibilità offerte alla scienza dalle illustrazioni erano chiare da quasi un secolo e mezzo, ma la prima generazione dei microscopisti era rimasta quasi insensibile a questo tema. Le 32 splendide tavole della Micrographia (ancora utilizzate in manuali dell’Ottocento) rivelarono cosa poteva essere fatto su questo terreno (Hall, 1976: 13). N.d.R. 4 (simulazione incarnata ed esperienza estetica) – [...] Secondo questa prospettiva, l’oggetto acquista così un significato pieno e un senso in virtù della propria relazione dinamica con il soggetto/agente fruitore della relazione. Questa relazione dinamica è sicuramente molteplice, come molteplici sono i modi con cui possiamo interagire col mondo muovendoci in esso, per esempio muovendoci attorno a un oggetto, o esplorandolo muovendo gli occhi. La percezione di un oggetto, grazie alla simulazione incarnata, può essere considerata come una forma preliminare di azione che, indipendentemente da una fattuale interazione con l’oggetto, lo presenta come qualcosa e a portata di mano (zu-Händen, secondo la definizione di Heidegger [9]) e gli conferisce presenza. Ciò suggerisce che la simulazione incarnata modella costitutivamente il contenuto della percezione visiva dell’oggetto, caratterizzando l’oggetto percepito nei termini degli atti motori che esso evoca, anche in assenza di qualsiasi effettivo movimento. […] - Mediante la simulazione [incarnata], la parte non vista dell’azione può essere ricostruita e quindi il suo scopo può essere determinato, ma non si tratta di un’inferenza logica, bensì forse di un’inferenza motoria. […] - La nostra apertura al mondo e l’intenzionalità dei nostri processi mentali, cioè il loro essere riguardo qualcosa, sono costituite e rese possibili da una primitiva intenzionalità motoria. Il sistema motorio,essendo depositario delle nostre potenzialità di relazione pragmatica col mondo, ci predispone alla relazione con esso. [10] – [...] Secondo Hans Gumbrecht l’esperienza estetica si sostanzia in una componente di significato e in una presenza [11]. La presenza riflette il coinvolgimento corporeo del fruitore attraverso un rapporto multimodale sinestesico con l’oggetto artistico-culturale, la cui percezione visiva, per esempio viene qualificata come “visione aptica”. Gumbrecht sostiene che possiamo analizzare ogni cultura storica dal duplice versante del significato e della presenza, poiché entrambe queste configurazioni possono essere ritrovate in percentuali variabili in ogni oggetto culturale. Quando a predominare è la presenza, gli oggetti del mondo acquistano un senso non grazie a un’interpretazione, ma grazie alla loro intrinseca inerenza pragmatica sensori-motoria. […] l’individuo non si relaziona al mondo esterno in modo oggettivo, secondo una prospettiva in terza persona, ma si inscrive letteralmente in questo stesso mondo in quanto il suo corpo ne costituisce parte integrante e, almeno in parte, ne costituisce l’origine. Se è vero che è impossibile separare l’esperienza delle immagini dalla nostra quotidiana esperienza motoria, affettiva, tattile ed enterocettiva della realtà, pensiamo che i nuovi dispositivi digitali, a prescindere dai contenuti mostrati, offrano nuovi sbocchi alla mediazione sensori-motoria dell’immagine grazie alle loro peculiari tipologie di interazione. […] La modernizzazione tecnologica dell’età post-moderna, paradossalmente, riporta così il corpo al centro del rapporto instaurabile con la realtà; una realtà sempre più mediata dalla rappresentazione visiva digitale interattiva. La crescente autonomia del mondo materiale digitale colonizza sempre di più il nostro immaginario, esternalizzando al contempo le nostre memorie. […] - Vogliamo qui solo segnalare che le nuove mediazioni digitali stanno già cambiando correlativamente sia le forme di espressione artistica che la loro ricezione. Nella nuova “era aptica”, il contenuto narrativo delle immagini non è più il principale veicolo della loro fruizione. […] - … la svolta digitale sposta l’asse della presenza dal contenuto al contenitore, che diventa il vero polo attrattivo nonché oggetto del desiderio dell’utilizzatore (il temine “spettatore” appare inadeguato in questo contesto), soddisfatto delle sue continue attività manipolatore e di contatto e dagli effetti che producono sulle immagini che scorrono sotto la superficie dello schermo…. Toccando la superficie dello schermo con la superficie delle dita stabiliamo un duplice contatto con le immagini. Le modifichiamo toccandole e reciprocamente ne siamo toccati…[12] – [...] Nella seconda metà del XIX secolo vari studiosi tedeschi, scrivendo sulle arti visive, hanno esposto le loro opinioni sul coinvolgimento corporeo dello spettatore in risposta a opere di pittura, scultura e architettura. Sebbene già a partire dal Settecento scrittori come Du Bos (e altri, fra cui Hume, Burke, Adam Smith e Herder) abbiano commentato l'imitazione interiore delle emozioni e delle azioni altrui, l'importanza dell'empatia per l'estetica è stata sottolineata per la prima volta da Robert Vischer nel 1873. Con il termine Einfühlung (letteralmente, "sentire dentro") Vischer designava le reazioni fisiche prodotte dall'osservazione dei dipinti, notando come forme particolari suscitassero particolari reazioni emotive, a seconda della loro conformità al disegno e alla funzione dei muscoli corporei. Elaborando le idee di Vischer, Wölfflin propose le sue opinioni sul modo in cui l'osservazione di particolari forme architettoniche stimolava le reazioni fisiche degli osservatori. Dal 1893 Aby Warburg scrisse delle Pathosformeln, per mezzo delle quali le forme esteriori del movimento in un'opera rivelavano le emozioni interiori del personaggio interessato. Quasi nello stesso periodo, Bernard Berenson delineava le sue teorie su come l'osservazione del movimento rappresentato nelle opere d'arte rinascimentali potenziasse la consapevolezza di analoghe potenzialità muscolari nel proprio corpo. Inoltre, il suo concetto di "valori tattili" prefigurava aspetti dell'attuale teoria empatica. Anche Theodor Lipps nella stessa epoca andava elaborando le sue concezioni sul nesso fra godimento estetico, da una parte, e coinvolgimento fisico con lo spazio, dall'altra, nell'architettura e in altre arti. Tutti questi studiosi credevano che l'emozione del coinvolgimento fisico nelle opere d'arte non soltanto provocasse un sentimento di imitazione del movimento visto o implicito nell'opera d'arte, ma potenziasse anche le reazioni emotive dello spettatore nei suoi confronti. Nell’opera di Merleau-Ponty speciale rilievo era dato alle conseguenze estetiche della sensazione di coinvolgimento fisico suscitata da dipinti e sculture. L'autore suggeriva anche le possibilità di immedesimazione corporea con le azioni implicite dell'artista, come nel caso dei dipinti di Cézanne. David Rosane ha dedicato particolare attenzione alla sensazione di coinvolgimento empatico con i movimenti delle mani impliciti nei disegni degli artisti, da Leonardo a Tiepolo, fino a Piranesi. Sebbene queste teorie siano spesso tenute in considerazione, l'assunto fenomenologico non ha trovato molto seguito nel campo della storia dell'arte. La storia e la critica d'arte del Novecento hanno perlopiù trascurato le reazioni emotive, privilegiando un approccio totalmente cognitivo e distaccato d'estetica, essendo le emozioni in gran parte legate al contesto e difficili da classificare. Arte e illusione (1960) di Ernst Gombrich era uno studio dedicato alla "psicologia della rappresentazione pittorica. Tuttavia non vi era nulla in esso che prendesse in considerazione le risposte emotive ed empatiche all'arte. A quella data le emozioni erano state completamente espunte dall'ambito dell'estetica.[13] [9] . Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano 2005. 10] . Vittorio Gallese e Michele Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina editore, Milano 2015, p. 56, 59 e 64. [11] . H. U. Gumbrecht (2004), Production of Presence: What meaning cannot convey, Stanford University Press, Stanford. [12] . Gallese, Guerra, cit., p. 264 e seg. [13] . David Freedberg e Vittorio Gallese, Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica (2007), in Teorie dell’immagine, op. cit., p. 56 334-338. |
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N.d.R. 5
(la fotografia e lo studio della storia dell’arte) [14] - [...] E nel 1865, quasi vent'anni prima che scienziati di fama mondiale come Robert Koch sostenessero che "le immagini fotografiche di un oggetto microscopico sono, date alcune condizioni, persino più importanti dell'oggetto stesso", Hermann Grimm, che sarebbe diventato il primo professore ordinario di storia dell'arte nel 1873 presso l'università di Berlino, sostenne la necessità di una raccolta di fotografie di opere d'arte, affermando che questi archivi avrebbero potuto avere "un'importanza maggiore persino delle più grandi collezioni di [opere d'arte] originali". Grimm dice qui con chiarezza ciò che Erwin Panofsky più tardi avrebbe definito, in tono ironico, il "rifiuto degli originali","' identificando in questo modo il conflitto che sta alla base della storia dell'arte, ossia il fatto che essa si fonda ampiamente sullo studio diretto dell'opera d'arte originale, ma che l'interroga anche attraverso le lenti di una conoscenza basata sull'uso della fotografia. Wilhelm Lubke, probabilmente il più famoso storico dell'arte del XIX secolo, non credeva nemmeno che sussistesse un conflitto fra queste due sfere. Nel 1870 egli considerò la fotografia in grado di riprodurre il respiro dell'originalità artistica come un sedimento immediatamente percepibile, lasciato dalla "piena animazione". Anton Springer, il primo professore ordinario di storia dell'arte in Germania, prese le difese della fotografia in termini di storia dei media: come la stampa aveva messo fine soltanto all'attività degli amanuensi meno capaci, e come gli amanuensi avevano costretto la stampa a diventare una forma d'arte, così le arti grafiche manuali non sarebbero state spazzate via dalla nascita della fotografia; al contrario, la fotografia avrebbe rafforzato le loro qualità artistiche. Infine, Jakob Burckhardt parlò addirittura della fotografia come un prezioso deposito di aura. Il pericolo che le grandi opere d'arte sparissero e che perdessero il loro potere sarebbe stato scongiurato proprio dalla fotografia. Questi pionieri dell'insegnamento della storia dell'arte nelle università diedero voce alla fede ottocentesca nella oggettività assistita dalla tecnica, ma, allo stesso tempo, riconobbero alla fotografia di essere qualcosa di più di una semplice duplicazione di un oggetto, Piuttosto essi diedero il via allo studio della riproduzione tecnologica analizzandone l'autonomia. Dalla critica della riproduzione fotografica delle sculture da parte di Wolfflin del 1897 si può tracciare un collegamento diretto con il brillante saggio di Panofsky del 1930 sull'originale e la copia. Questi, dopo aver iniziato il suo scritto confessando che le copie degli originali non sono né giuste né sbagliate, ma devono essere giudicate all'interno del loro ambito stilistico, giunge alla conclusione che l'occhio deve affinare le proprie capacità di stabilire delle differenze soprattutto nel momento in cui gli originali e le riproduzioni sembrano all'apparenza identici. Ma anche la proiezione di diapositive, che si afferma a partire dal 1900 come uno standard nell'insegnamento universitario della storia dell'arte, non è solo usata come uno strumento didattico, ma valutata anche nella sua funzione euristica. - Per Grimm la proiezione multipla di diapositive comportava lo stesso approccio analitico del microscopio. Egli considerava la proiezione di diapositive più importante del solo sguardo grazie al suo più alto standard di rappresentazione dell'originalità dell'artista. Quanto Grimm si sia basato sulle diapositive per istituire la storia dell'arte come Bildwissenschaft, può esser dimostrato da quanto poco egli si occupasse dei libri. Quando nel 1901 Wolfflin gli succedette nella cattedra di storia dell'arte all'università di Berlino, trovò soltanto 1300 pubblicazioni, ma ben 15.000 diapositive. - Usando queste diapositive, Wolfflin fu in grado di dimostrare e allo stesso tempo di riflettere sui suoi concetti bipolari fondamentali della storia dell'arte (Kunstgeschichtliche Grundbegnffe) grazie al suo uso magico della doppia proiezione. Sviluppando le proprie categorie a partire da esempi tratti dall'arte "alta", Wolfflin considerava le diapositive utili per la comprensione della cultura visuale di intere epoche nel senso più ampio del termine. Egli non usò mai il termine Bildgeschichte, ma definì la storia dell'arte come lo "sviluppo del vedere moderno", che è di fatto un modo di concepire la disciplina in maniera più ampia e profonda. Grimm, Lubke, Springer, Burckhardt, Wolfflin e Panofsky si trovarono d'accordo nell'includere le fotografie e le diapositive all'interno dello spazio di giudizio sugli originali e considerarono le proiezioni come strumenti del più grande valore per la ricerca. Grazie all'uso di un'enorme quantità di riproduzioni e di diapositive tutti loro cercarono di evidenziare e di rafforzare l'aura propria delle riproduzioni e allo stesso tempo aumentarono il numero di oggetti da studiare, sviluppando in parallelo nuovi strumenti per la storia dell'arte che fossero in accordo con i metodi statistici. Includendo nella storia dell'arte anche le tecniche di riproduzione, essi la trasformarono profondamente in direzione di una Bildwissenschaft. [14] . Da Horst Bredekamp, La storia dell’arte come Bildwissenschaft (relazione alle conferenze del 2002, di Berlino al Getty "Frames of viewing" e presso il Clark Art Institute) riportata in Teorie dell’immagine, Op. cit. pag. 140 e seg. N.d.R. 6 - [...] Con il rapido ritmo della tecnica, cui corrisponde una decadenza altrettanto rapida della tradizione, viene alla luce molto più velocemente di prima, anzi già per l’epoca immediatamente successiva, l’apporto dell’inconscio collettivo, il volto arcaico di un’epoca. Da qui lo sguardo surrealistico sulla storia. (la fotografia . Gisele Freund) - [...] Il manifesto delle tendenze realistiche era Le Réalisme, una rivista il cui primo numero apparve nel 1856. La teoria di quei primi realisti è inseparabile dall'estetica positivista. Le loro richieste potrebbero derivare dall'apparizione dell'apparato fotografico. “Puoi solo dipingere ciò che vedi”, hanno proclamato. Essi censurano l'immaginazione come qualcosa di non oggettivo, come una tendenza soggetta alla falsificazione. Di conseguenza, l'atteggiamento nei confronti della natura deve essere assolutamente impersonale al punto che l'artista deve essere in grado di dipingere lo stesso quadro dieci volte di seguito, senza esitazione e senza che le copie successive differiscono dalla copia precedente. L'ammirazione che l'artista professa per la natura non ha limiti. Per loro Courbet [20] è il maestro che dipinge oggetti con forme e colori come presentati dalla realtà. L'opera d'arte deve mostrare un contenuto oggettivo, ottenuto direttamente dalla natura in cui è immerso.[21] “Tanto difficile riesce all’uomo lasciare il posto e fare agire la macchina in sua vece” [23]. [15] . Walter Benjamin, Sul concetto di storia, ed. Einaudi, Torino 1997, pag. 82. [16] . Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ed. Einaudi, Torino 1966, pag. 22. [17] . Ibidem, pag. 24. [18] . Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 73 e seg. [19] . Ibidem, pag. 77. [20] . “Courbet, pittore critico, analitico, sintetico e umanitario, è una espressione della nostra epoca. La sua opera coincide con la filosofia positiva di Auguste Comte, la metafisica positiva di Vacherot, il diritto umano immanente dell’io…” - cit. da Pierre-Joseph Proudhon, Du principe de l’art et de sa destination sociale, Paris 1865, p. 287. [21] . Gisele Freund, La fotografía como documento social, editorial Gustavo Gil SL, Barcelona 2006, pag. 68 seg. [22] . Ibidem, pag. 71 seg. [23] . Cfr. W. Benjamin, I passages di Parigi, ed. Einaudi, Torino 2002, pag. 619. N.d.R. 7 Il cinema muto non ha modificato sensibilmente le condizioni tradizionali; il film muto era sostenuto da ideogrammi sonori, vaghi, forniti da un accompagnamento musicale che faceva salvo il gioco tra l'immagine imposta e l'individuo. Le condizioni hanno subito una profonda modificazione al livello del cinema sonoro e della televisione che mobilitano contemporaneamente la visione del movimento e l'audizione, che comportano, cioè, la partecipazione passiva di tutto il campo percettivo. Il margine di interpretazione individuale si trova cosi eccessivamente ridotto perché il simbolo e il suo contenuto si confondono in un realismo che tende alla perfezione e perché, d'altra parte, la situazione reale in tal modo ricreata lascia lo spettatore al di fuori di qualsiasi possibilità d'intervento attivo. Ci troviamo perciò davanti a una situazione diversa tanto da quella di un Neanderthaliano, perché la situazione è completamente subita, quanto da quella di un lettore, perché è completamente vissuta, nella visione quanto nell'audizione. Sotto questo duplice aspetto le tecniche audio-visive si presentano davvero come uno stato nuovo della evoluzione umana, uno stato, per di più, che interessa direttamente quanto l'uomo ha di più particolare: il pensiero ragionato. Dal punto di vista sociale, l'audio-visivo corrisponde a una indiscutibile conquista in quanto consente una informazione precisa e agisce sulla massa informata mediante sistemi che immobilizzano tutti i suoi mezzi di interpretazione. In questo il linguaggio segue l'evoluzione generale del superorganismo collettivo e corrisponde al condizionamento sempre più perfetto delle cellule individuali. Sul piano individuale è possibile pensare a un vero e proprio ritorno alle fasi precedenti la figurazione? È chiaro che la scrittura costituisce un adattamento straordinariamente efficace del comportamento audiovisivo, che è il modo di percezione fondamentale nell'uomo, ma è anche una notevole deviazione. La situazione che tende a instaurarsi rappresenterebbe quindi un perfezionamento in quanto economizzerebbe lo sforzo di «immaginazione» (in senso etimologico). Ma l'immaginazione è la capacità fondamentale dell'intelligenza e una società in cui s'indebolisse la capacità di forgiare simboli perderebbe nello stesso tempo la sua capacità di agire. Ne risulta, nel mondo attuale, un certo squilibrio individuale o, più esattamente, la tendenza verso lo stesso fenomeno che distingue l'artigianato: la perdita dell'esercizio dell'immaginazione nelle concatenazioni operazionali vitali. Il linguaggio audio-visivo tende a concentrare la completa elaborazione delle immagini nei cervelli di una minoranza di specialisti che portano agli individui un materiale totalmente figurato. Il creatore di immagini, pittore, poeta o narratore tecnico, ha sempre costituito, anche nel Paleolitico, una eccezione sociale, ma la sua opera restava incompiuta in quanto sollecitava l’interpretazione personale, a qualsiasi livello si trovasse il fruitore dell'immagine. Oggi sta per realizzarsi la separazione, quanto mai vantaggiosa sul piano collettivo, tra una ristretta élite, organo della digestione intellettuale, e le masse, organi di assimilazione pura e semplice. Tale evoluzione non interessa unicamente il campo audio-visivo che è solo il punto d'arrivo di un processo generale che riguarda il campo grafico nel suo complesso. La fotografia non ha, inizialmente, apportato modifiche nella percezione intellettuale delle immagini; come ogni innovazione si è appoggiata su qualcosa di preesistente: le prime automobili erano dei phaeton senza cavalli e le prime fotografie ritratti e movimenti senza colori. Il processo di «predigestione» si concretizza solo dopo la diffusione del cinema che modifica totalmente la concezione della fotografia e del disegno in senso propriamente pittografico. L'istantanea a soggetto sportivo e il fumetto corrispondono, come pure il «digest», alla separazione verificatasi nel corpo sociale tra creatore e consumatore di immagini.[24] – [...] Il sistema economico, che si conclude col capitalismo dei cereali e con la metallurgia, si conclude nello stesso tempo con le scienze e la scrittura. Mentre all'interno della città le tecniche caratterizzano l'avvio verso il mondo attuale, e spazio e tempo si organizzano in una rete geometrica che imprigiona d'un sol tratto ilcielo e la terra, il pensiero razionalizzante prende il sopravvento sul pensiero mitico, linearizza i simboli e li piega via via a seguire lo svolgimento del linguaggio verbale fino al punto in cui la fonetizzazione grafica giunge all'alfabeto. Dall'inizio della storia scritta, come nelle fasi precedenti, il moto di riflesso tra linguaggio e tecnica è totale e ad esso è legato tutto il nostro sviluppo. L'espressione del pensiero attraverso il linguaggio trova uno strumento dalle possibilità indefinite a partire dall'uso degli alfabeti che subordinano completamente la parte grafica a quella fonetica, ma tutte le forme precedenti rimangono vive in misura diversa, e vedremo in seguito che tutta una parte del pensiero si scosta dal linguaggio linearizzato per riafferrare quanto sfugge a una notazione rigorosa. Il movimento tra i due poli della figurazione, tra quello auditivo e quello visuale, subisce una modificazione importante nel passaggio alla scrittura fonetica, ma mantiene intatta la capacità individuale di visualizzare ciò che è verbale e ciò che è grafico. La fase attuale è contraddistinta tanto dall'integrazione audio-visiva che inaugura una espressione in cui la interpretazione individuale perde in gran parte le sue possibilità, quanto dalla separazione sociale delle funzioni di creazione dei simboli e di ricezione delle immagini. Qui di nuovo appare con chiarezza lo scambio tra tecnica e linguaggio. L'utensile abbandona precocemente la mano dell'uomo per dare origine alla macchina: nell'ultima fase, grazie allo sviluppo delle tecniche, parola e visione subiscono un processo identico. Il linguaggio, che aveva abbandonato l'uomo quando operava con la mano e dava vita all'arte e alla scrittura, segna la sua separazione definitiva affidando alla cera, alla pellicola, al nastro magnetico le funzioni proprie della fonazione e della visione. [25] |
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Carcere di Soletude, luned' 29 aprile 2019
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