LETTERA DAL CARCERE |
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Carissimi,
da qualche giorno avevo intenzione di inviarvi un libricino che mi sono procurato solo recentemente… Così !… tanto per l'occasione di un saluto. Quando poi stamattina mi sono imbattuto casualmente in una vecchia pagina del Manifesto che a suo tempo lo aveva recensito, mi sono deciso a spedirvelo senz’altro. Ciò che mi ha lasciato perplesso è la connessione che l’autore fa tra "operaismo" e "ozio". Non sono affatto preparato su questi due argomenti, ma (per istinto di partito) non credo che l'operaismo abbia mai o possa mai arrivare a proclamare e a far proclamare quanto ha detto Lafargue: "Ma perché pervenga alla coscienza della sua forza, è necessario che il proletariato schiacci sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’Ozio, mille volte più sacri e più nobili degli asfittici Diritti dell’Uomo, escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare più di tre ore al giorno, a non far niente e a far bisboccia per il resto della giornata e della notte…". ...Sbaglio forse? Da che nascerebbe allora questa arbitraria connes-sione se non dall’assimilazione dell'ozio con lo sciopero?... il quale però si svolge tutto sul tavolato della contrattazione del tempo e del prezzo del lavoro vivo, non certo sul terreno rivoluzionario della negazione del lavoro stesso – oramai da lasciar fare alle macchine ed avere l’intera giornata e la notte come tempo di vita… Tuttavia, nel breve libretto allegato io vi ho trovato molti riscontri ai quali ero pervenuto convintamente da parecchio tempo prendendo alle spalle il lavoro di Duchamp: cioè senza guardarlo in faccia e armato appena – lasciatemelo dire – di qualche nozione marxista. Se avrete la voglia di leggerlo credo che anche voi vi troverete diverse cosucce che potrebbero interessarvi o, quanto meno, divertirvi. Un saluto. 16 febbraio 2019 Caro compagno, siamo appena andati a vedere la mostra dei dadaisti e surrealisti ad Alba, un bel lavoro e per di più gratis. Ovviamente Duchamp era assai presente, anche se con poche opere. Del resto con la poca voglia di lavorare che si ritrovava, la sua produzione artistica lasciava a desiderare. Mica per niente aveva avuto due trovate geniali: 1) considerare opere d'arte oggetti "già fatti" e 2) andare a venderli agli americani, gli unici che avevano i soldi per comprare pisciatoi o ruote di bicicletta usati ma riciclati come opera sublime (non sberleffiamo Duchamp ma gli americani). Il terzo punto sarebbe interessante ma ci vorrebbe un po' di pazienza per scriverlo: 3) senza fare quasi niente, ha rivoluzionato il mondo dell'arte o quella cosa lì, chiamala come vuoi. Quanto al giornalista del Manifesto, ci perdonerai se incominciamo col prenderlo un po' in giro. Uno che scrive la frase qui sotto non va preso sul serio. Prova ad analizzarla incominciando dal primo soggetto (il rifiuto del lavoro) che rimanda a qualcos'altro da sé stesso, rimanda cioè alla politica-partito o alla politica-stato (doppia forma). Continua poi con il delirio della riconversione della soggettività e dell'abitare il tempo in modo nuovo: " Il rifiuto del lavoro operaio nella prospettiva comunista, rimanda sempre a qualcos'altro da sé stesso, alla politica nella sua doppia forma del partito e dello Stato. Duchamp ci invita a soffermarci sul rifiuto, sul nonmovimento, sulla smobilitazione e a sviluppare e sperimentare tutto ciò che l'azione oziosa crea come possibilità per operare una riconversione della soggettività, inventando delle nuove tecniche d’esistenza e dei nuovi modi di abitare il tempo." Per quanto riguarda l'operaismo e l'ozio non ci risulta che il matrimonio sia mai stato consumato. Può darsi che Romolo Gobbi che faceva un po' il poeta abbia detto qualcosa, ma gli altri ti raccomando; ce lo conferma uno che è stato con i Quaderni Rossi: Panzieri, Tronti, Rieser, Asor Rosa, Cacciari, Negri e compagnia bella non erano abbastanza spiritosi per parlare di ozio. Non diciamo che non abbiano scritto qualche parola sull'argomento, ma erano dei tetri figuri terzinternazionalisti o comunque imbottiti della versione ufficiale della rivoluzione. Quando gli operai, nel '62, hanno riscaldato un po' l'atmosfera battagliando in Piazza Statuto, i signorini operaisti hanno voltato le spalle: per loro i "teppisti con le magliette a strisce" non erano operai veri, erano sottoproletari senza "coscienza di classe". Meglio tornare a Duchamp. Il poveretto credeva davvero di aver distrutto l'arte con il ready made: oggetti fabbricati a milioni potevano mai essere opere sublimi? No, ma potevano essere venduti sul mercato con la firma di affermati artisti sublimi. Picasso con la sua sella da bicicletta sormontata da un manubrio poté mettere la firma sul suo "toro". Andava così contro il principio dada-surrealista dell'oggetto non-arte, inutile e senza nome; andava contro al ready made perché il “toro” non veniva dalla produzione ma dalle mani dell'artista che lo interpretava; andava contro la banalità della rappresentazione perché sotto al toro non poteva scrivere "ceci n'est pas une pipe". Per la cronaca: Picasso firmava anche assegni quando andava la ristorante con la galassia che gli orbitava intorno, tanto era sicuro che non sarebbero mai stati incassati perché sul mercato valeva più la sua firma di una pantagruelica abbuffata. Grazie per averci scritto. Un abbraccio da tutti. |
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Carcere di Soletude, martedì 12 febbraio 2019
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