LETTERA DAL CARCERE |
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Cari torinesi.
Dalla mia prima lettura adolescenziale dell’edizione Einaudi del 1962 del Manifesto il demone del comunismo mi ha afferrato per non abbandonarmi più; è cioè accaduto qualcosa che trascendeva ogni mia volontà. In seguito, e ancor prima del famigerato ’68, ero già a conoscenza della letteratura della sinistra (per qualche anno sono stato anche preso nelle difficoltose attività romane di una sezione di Programma Comunista) e dunque fin d’allora lontano – e spero immunizzato per sempre – dalle influenze del luogocomunismo degli anni successivi. Se ora mi ritrovo accanto a voi è perché credo che quel demone adolescenziale mi accompagnerà fino alla fine, e così voglio essere il più possibile educato e gentile con lui, come lui lo è stato con me. Pertanto ritengo di dovervi assicurare che io non ho neppure letto quanto ha scritto il giornalista del Manifesto; non frequento volentieri questa o altra simile pubblicistica, ma l’ho segnalato solo perché ho trovato “sorprendente” averlo ripescato casualmente da internet proprio nello stesso giorno in cui pensavo di inviarvi quel testo recensito nell’articolo. Se poi il giornalista finisce di fare quello che fanno tutti i “pensatori” della sua fatta, vale a dire: un (presunto) passo avanti per farne poi subito due o più passi indietro, ciò non è affatto “sorprendente” – come non lo è il fatto che parla di Duchamp ma pensa a se stesso, alla propria soggettività politica nella doppia forma del suo partito nel suo Stato, nell’illusione di poter abitare diversamente una vita senza dover prima sbarazzarsi della vecchia... Ma come non è credibile il pubblicista nel parlare di Duchamp, così neanche Duchamp è credibile nel parlare di se stesso. Sentenza nota ad ogni buon pellerossa cinematografico, ma anche a noi che abbiamo sempre saputo che l’uomo bianco o colorato parla con lingua biforcuta. Fin dai primi anni settanta il mio interesse per l’arte figurativa si è andato sempre più intrecciando con la dottrina comunista, nella quale dovevano di sicuro trovarsi dei passaggi anche per la comprensione dell’arte, e a volte ho “creduto” di poterveli scorgere concretamente. Forse, da pasticcione appassionato, mi sono accanito oltremodo in quest’idea fino al punto di ritenere il comunismo come una necessità dell’arte stessa giunta nell’epoca del capitalismo. D’altronde, se così non fosse, e se già non si trovassero anche nell’arte attuale delle anticipazioni dell’arte futura, ogni possibilità per l’arte di continuare ad esistere (certo con altre modalità e forme) gli sarebbe negata. E’ facile riconoscere qui la parafrasi del brano dei Grundrisse di Marx, e comprendere perché, dopo averlo ritrovato nella pagina iniziale del vostro sito, non potevo evitare di seguirne il filo e di mettermi in contatto con voi. Anche trasferendoci per il momento nel campo dell’arte, noi che ci siamo sopra, vediamo sì il piano del prato ma sappiamo cosa al disotto prepara il lavorio di quella talpa, cara a tutti noi, che magari non sa bene dove andare, e proprio per questo lo indebolisce con cieca dedizione preparando senza soste il terreno al collasso. Stando dunque al di sopra di questo prato assieme ad alcuni immaginari interlocutori, e fingendo di aver avuto la loro rassicurazione che non se ne avrebbero avuto a male se provavo a formulare qualche domanda un po’ impertinente, ho chiesto loro se, ad esempio, la rivoluzione dell’Ottobre era da ritenersi un fallimento del programma comunista, dato che non ha realizzato la società comunista; e, ancora un esempio, se il movimento Occupy Wall Street non era da considerare un’esperienza sociale da accantonare dato che non ha modificato affatto il rapporto tra l’1 e il 99%. Naturalmente tutti e due questi grossolani quesiti hanno ricevuto, dai miei fantasticati interlocutori, le risposte che si meritavano e che potete facilmente immaginare. Fatte le dovute distinzioni e tornando a Duchamp e al programma dada-surrealista dell’oggetto non-arte ecc., io non so se il “povero” Duchamp con il suo ready-made aveva in programma di distruggere l’arte piuttosto che le sue istituzioni, e che il semplice fatto che alla fine non è riuscito nei suoi propositi (dato che invece si vende come opera d’arte) starebbe proprio a invalidare tutto quel programma – che certo non gli apparteneva in esclusiva ma scaturiva in un determinato momento storico e in ogni parte d’Europa per coinvolgere molti artisti... e anche Picasso. Che poi quest’ultimo non si sia concentrato su un tale programma più di quel tanto che gli bastava per fare un passo avanti nella pittura, non vuol dire che non ne abbiano giovato sia lui che la pittura e l’arte stessa (mi si consenta: un passo avanti del tipo riformista o progressista, per quanto abbagliante e necessario). Noi sappiamo delle rivoluzioni delle forme di produzioni e di quelle scientifiche, delle crisi economiche e di quelle dei pardigmi cognitivi… anche l’arte risente di questi scossoni generali e risponde come può e come sa, così come le forze storiche sociali hanno registrato e risposto – nel 1848 e per sempre – con il loro proprio programma rivoluzionario. Non fraintendetemi, Duchamp è tutt’altro che un Marx e nemmeno un qualsiasi altro oscuro militante rivoluzionario, ma questi ultimi due li direste dei poveri illusi che they were wrong (si sbagliavano) se non hanno distrutto il capitalismo?... Derideremo forse un assalto al cielo come quello dei comunardi?... Trascureremo forse di mettere nel bilancio dell’Ottobre la mancata scesa in campo delle forze di riserva del proletariato tedesco già in armi?... Osserveremo ex abrupto i movimenti di intere masse sociali, così come immediatamente appaiono nell’attuale marasma, per darne lo stesso giudizio di parecchi altri compagnucci poco attenti agli sviluppi reali delle forze e ai mutamenti delle loro forme sociali?... Non lo credo assolutamente, e le risposte sono state già fornite in anticipo e disponibili da tempo. Ma era tanto per dire che come su certe cose non ci facciamo abbagliare facilmente, così nell’osservare una determinata porzione della realtà storica e sociale (l’arte ad esempio) per darne una valutazione corretta, dovremmo applicare al suo specifico aspetto frattale anche i medesimi criteri con i quali abbiamo osservato porzioni più estese. Come sempre, per noi non si tratta di trovarsi uno schieramento cui appartenere o, in questo caso, fare il tifo per un artista contro un altro, ma di cercare di comprendere il funzionamento della partita stessa, le forze in campo e la posta in gioco. Dopo di che ognuno è libero di fare le sue scelte dato che, se la verifica del budino è quando lo si mangia, il giudizio sulla soddisfazione di gustarne uno specifico è affidato alle personali papille del gustatore e alle diverse intensità del piacere singolare e personalissimo ricevuto dal mangiarne uno piuttosto che un altro. Aver prestato attenzione alla mia mail esprimendo velate provocationes riguardo all’oggetto ha fornito, al pasticcione che sono, la gradita occasione che gli ci voleva per cercare di capire da che parte prendere il ready-made per cavarne fuori qualcosa che possa tornarci di qualche utilità. Così, a partire dal pretesto di questo stesso scambio di messaggi, noialtri qui in carcere abbiamo deciso di raccogliere delle idee sul ready-made – magari in previsione di una nuova riunione sull’arte, da affidare purtroppo a quell’altro loquace pasticcione che siamo costretti ad incaricare per la relazione presso di voi. Sono dunque io ringraziarvi, e ad estendere la mia gratitudine anche a ogni compagno: tutti quantomeno salutari per il nostro modo di affrontare anche questioni molto particolari. Sperando di avere presto il piacere di incontrare qualcuno di voi, intanto vi saluto. Vostro. |
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Carcere di Soletude, venerdì 22 febbraio 2019
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