01 - Quando la pittura
giunge ai limiti della non-percettibilità, raggiunta è la
soglia della opposizione tra figura e sfondo. Consumata è la genealogia
della figura, il suo procedere da compattezza a dispersione.
02 - La pittura (astratta)(concreta)
respinto il feticismo della rappresentazione non poteva risolvere e liberarsi
dal feticismo stesso. Necessario sarebbe stato prima dissolvere le condizioni
materiali sulle quali ancora poggia il feticismo. Piuttosto ha dato
l'abbrivio ad un processo di spostamento che allora fonda il quadro in sé
come feticcio, e lo spostamento successivo doveva necessariamente porre
l'artista come feticcio. Puntualmente. (cfr. 26)
03 - I "poli opposizionali"
di figura e sfondo (nella fase precedente ancora interni al quadro, tesi
nella determinazione della figura in quanto "appariscenza") sono andati progressivamente
spostandosi, prima verso l' esterno della figura, poi oltre il quadro medesimo,
quasi come sotto l'effetto di una forza centrifuga; mossi, si potrebbe sospettare,
come da una intima necessità di approssimarsi sempre più ad
una tangibilità inequivocabile e irriducibile, verso una realtà
definita e, al limite, fondamento stesso della pur inequivocabile realtà
d'essere della pittura. (cfr.21)
04 - L'opposizione
tra figura e sfondo, unica reciproca garanzia alla loro integrità
di "segno", prende a vacillare e annuncia il precipitarsi dell'una nell'altro,
o viceversa. Ma non preannuncia ancora un risolversi, bensì un coincidere
di tutte le figure e della morfologia medesima.
Allora un confondersi della
genealogia [e del rango ].
Ovvio come l'incesto divenga
anche una categoria linguistica, un precetto dell'immaginario moderno. Così
la trasgressione e lo scarto, mostrati quali segreti propri della creatività
efficace (efficiente), divenute un cruccio per il soggetto, istituiscono
il più esteso e fortunato luogo comune, tanto realizzativo che prassiologico
e soprattutto critico. [app.- coazione e impulso mimetico, imitativo...]
05 - Spostatasi l'asse
dal prodotto al procedimento, la pittura si raccoglie nell'area del "dipingendo";
ma può riuscire a cogliersi per la prima volta integralmente come
concetto solo quando si sofferma e intrattiene sul bordo del "non-dipingendo".
Quando, e là dove affermazione e negazione gli si svelano quale unità
dialettica della sua esistenza pratica. Quando e là dove tutto è
rimesso in gioco. (cfr. 18)
06 - (OMISSIS)
07 - L'approssimarsi
della pittura verso l'area della non-pittura espunge progressivamente dal
quadro le tracce dell'attività pittorica (cancellazione delle orme
- le code di paglia servono a questo?) fino alla negazione dell'attività
tutta, quando poi, entrata in quest'area, vi precipita nel baricentro (vittoria
della legge di gravità o delle leggi dell'ospitalità?).
Dopo questo viaggio e precipitare
non vi è però annichilimento dell'artista, ritorno alla coscienza
ingenua; il viaggio essendo stato intrapreso nel nome stesso della pittura
e dei suoi modi di simbolizzare, e simbolizzarsi. Qui si attua [attuerebbe]
quell'emancipazione della pittura dalla sensibilità retinica
(Duchamp) che sarebbe [è] realizzazione del pensiero greco antico
nella sua tendenza ad elevarsi dal visibile all'intelligibile?
Nella contingenza della pittura,
cioè immediatamente o in pratica, la compattezza di ogni figura, la
sua stessa esistenza e sussistenza in quanto tale (restare figura) è
qui pericolosamente minacciata: la soglia tra le due aree essendo una cuspide
(punto) o una cresta (linea); quindi il precipitare incipiente da uno stato
della pittura nel suo opposto (anche cambiamento delle particolarità
dell'arte nella generalità dell'estetica).
08 - Essendo lo sfondo
la più dispersa delle figure è la figura stessa della dispersione.
In ciò è dunque l'ultima e la prima figura della pittura.
In questa affermazione si
potrebbe individuare una contraddizione in termini, se non fosse che nel
linguaggio il primato della materia si manifesta come primato del significante.
(cfr. 21)
09 - La pittura emancipatasi,
lungo il cammino certamente non lineare delle anamnesi, da ogni figura intestina
(forme della rimozione) e finanche dal colore, è fortemente propensa
a risolversi interamente nella "mera superficie". Che non è ancora
un dissolversi -sebbene ne abbia l'aria; invece in questa forma, trovando
la figura della propria ansia, finalmente s'acquieta e su sé stessa
riposa e conta.
Che poi questa particolarissima
figura sia stata determinata dal "disperdersi" (analitico) ovvero dal "dispiegarsi"
(simbolico) delle figure (iconografia - iconologia) precedentemente egemoni,
introdurrebbe un'ulteriore questione.
In termini operativi si deve
dunque pensare ad un approntare la superficie del quadro e tenerla (tenersi)
in una sospesa fissità? La "mera superficie" non è da ravvisare
tanto come un'opera o una famiglia di opere di pittura, quanto come la forma
paradigmatica che assume la pittura in una sua determinata fase storica
e sotto particolari condizioni.
10 - La "mera superficie"
posta come compiuta pittura può apparirci a tutta prima, rispetto
alle forme storiche che la precedono, come una manifestazione del tutto semplice
e inadeguata, come primordiale, antica e da sempre presente nella pittura
in ogni sua epoca perché condizione tecnica elementare, di partenza,
quindi sottintesa, allora taciuta. E tuttavia, considerata in questa semplicità,
dal punto di vista del sistema della pittura, "superficie" è una
categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice
astrazione. Questi rapporti potrebbero comprendersi nelle loro linee generali
a condizione di seguire l'intreccio dello sviluppo particolare della pittura
con lo sviluppo della produzione materiale in genere.
(cfr.34.a)
11 - Omissis (teoria
della centrifuga)
12 - Dopo il primitivo
separarsi delle attività lavorative (sviluppo storico della divisione
sociale del lavoro) è la volta delle singole attività ad essere
sottoposte ad ulteriori accelerazioni e scissioni interne (sviluppo tecnologico
e organizzazione industriale del lavoro) che arrivano ad investire le singole
fasi di un medesimo processo produttivo, e, ancora, di un medesimo momento
produttivo.
- Omissis -
La pittura sottoposta anche
lei alla forza crescente della nostra ideale "centrifuga" sociale-economica,
si ritrova alla fine come "superficie" interamente decantata dalle figure
pesanti che ne impedivano il palesamento.
13 - Benché
la "superficie" sia stata da sempre la conditio sine qua non della
pittura, prima di assumere valore autonomo che solo poteva ottenere dall'opera
emancipatrice dell'analisi naturale (materiale) delle separazioni
(cfr.Imprinting, pag.75) e delle leggi di sviluppo
(anche individuali) dei codici tutti e dei "modi" di codificare, essa rimaneva
sussunta quale precondizione del tutto naturale in un paradigma di pittura
che compattava delle molteplicità linguistiche che, a loro volta,
solamente lungo il medesimo processo di scissione ci si sono svelate con
le loro particolarità e possibilità autonome di sviluppo (endogenesi).
Lungo questo processo di separazione si è svolto quel cammino storico
che faceva corrispondere ogni separazione discreta con l'individuazione di
altrettante e corrispondenti categorie estetiche che, allontanandosi tra
di loro e sviluppando in questa separatezza la loro medesima separazione
, sono andate di volta in volta determinando e fondando movimenti poetici
e stili individuali come attualizzazioni di derive particolari, ma sempre
ricostituendo l'unità indenne dell'opera.
(cfr.27)
14 - La "superficie"
segna dunque un certo limite alle continue separazioni e agli spostamenti
che proprio a partire dall'epoca capitalistica sono andate vieppiù
moltiplicandosi e, data la celerità, sommandosi in una situazione
che vede la compresenza di molti stili.
Come una certa fisica fissa
nell'atomo il proprio limite, una certa pittura fissa nella "superficie"
il momentaneo limite della pittura. Oltre il cielo della "superficie" estendendosi
il cosmo e le costellazioni dell'altra faccia, del retro: il cosmo dei significati
(cfr."l'occhio
verticale").
15 - Cio' che si presenta
come presupposto immediato della pittura, dal quale questa sempre necessariamente
riparte, sembra ritrovarsi allora anche come risultato ad un certo definito
grado del proprio sviluppo. Ma dopo tutto questo la pittura ritrova solamente
la forma della superficie, in realtà avendo raggiunto un risultato
del tutto nuovo.
Alla originaria negazione
della superficie (dello sfondo) tramite la pittura (la figura) -prima negazione-
è seguita le negazione della pittura (della figura) tramite la superficie
(lo sfondo) -seconda negazione-. La doppia negazione ritrova il primo termine,
ma stavolta non più come precondizione immediata e naturale, ma come
affermazione [raggiunta] della pittura senz'altro.
Qui è stavolta una
dialettica intesa non impropriamente come mediazione e conciliazione, bensì,
propriamente, quale combattimento e risoluzione di un termine contro l'altro.
16 - Ferma restando
la triade "figura" - "sfondo" - "pittura": - se prima della soglia o cuspide
nella quale attualmente l'abbiamo posta, la pittura poggiava sul rapporto
antinomico tra figura e sfondo (tra compattezza e dispersione, tra informazione
e silenzio), ma in quanto pittura rimaneva una vaga astrazione -quando non
rozzamente allegorica rappresentazione-, una volta soppressa l'antinomia
tra i primi due termini è inevitabilmente il terzo termine della triade
a giovarne, trovando nella forma di questa soppressione (la "mera superficie")
il corpo per incarnarsi e divenire visibile. La "pittura" da questo momento
non è più solamente un'astrazione concettuale ma inizia a
possedere una propria morfologia stretta, sensibile.
E se è vero che esistono
solo "significanti", nello "sfondo" risolventesi in figura, cioè nella
"mera superficie", è da ravvisare il significante dell'unico altro
termine rimasto tra quelli messi in gioco nella triade: la "mera superficie"
è allora la forma (figura) della pittura.
17 - Nella "mera superficie"
tutti i termini della pittura si trovano serrati per reclamare a questa loro
nuova forma ogni teleologia.
Pericolosamente allora si
profila l'avvento della banalità tautologica.
- La tautologia mi ricorda
tanto il catechismo, per il quale Dio è la definizione di Dio, quanto
l'infingardaggine dei genitori che rispondono ai figli trasformando una loro
interrogazione in una propria affermazione. In entrambe i casi questi modi
avevano un solo merito: di rivelare senza dubbio alcuno l'inconsistenza del
pallone teologico nonché l'alito cattivo del Parroco; e la malagrazia,
a volte malevolenza dei genitori. Io non mi sento di assolvere questi sadici
torturatori dell'infanzia e dell'intelligenza curiosa neppure in nome della
logica formale. Ma questa è un'altra storia -
18 - Le figure (iconografie,
iconologie) che genealogicamente precedono la "mera superficie" continuano
a sussistere e persistere nel sistema della pittura non tanto come memoria
e sapienza storica del soggetto quanto, stavolta, perché necessitanti
condizioni a garanzia dell'evidenza figurale di questa pittura; vale a dire
come "differenziali" che consentono, oltre che di riconoscere, anche di
posizionare la "mera superficie" all'interno del sistema della pittura,
di riconoscerla come una variabile discreta dell'opera d'arte ad un certo
grado della sua propria genealogia (cfr.24).
19 - Se il soggetto,
il pittore cioè, nell'assecondare la genealogia delle "figure", nello
svolgere la loro vocazione dispersiva, nell'aiutare la loro voracità
spaziale non riesce a cogliere come lampante che la dissoluzione conseguente
di tutte le vecchie antinomie pittoriche si capovolge in una compattezza
per la quale le compattezze figurali che la precedono si svelano poggianti
solamente su ingenuità referenzialiste...se questo capovolgimento
non coglie non può neppure trovare nella "mera superficie" (e nelle
sue particolari determinazioni) lo sviluppo e la soluzione integrale (sebbene
momentanea) delle morfologie della pittura né può goderne.
Quindi, giusto come anticipato,
non sarà ancora un risolversi della pittura e del soggetto (della
pittura nel soggetto e del soggetto nella pittura), piuttosto uno smarrimento
e una disperazione per entrambe, quando muniti di una bussola esclusivamente
logica, cioè poveramente e disagevolmente logica.
(cfr.29)
20 - La superficie
venuta alla luce dal disperdersi delle particolarità contingenti
della figura, lungi dall'essere il trionfo univoco della dispersione è
al contempo il trionfo della compattezza. La "mera superficie" essendo la
figura nella sua generalità, o l'eccellente figura senza mancare d'essere
l'eccellente disperdersi della figura. É quindi la forma della sua
stessa definizione?
Così la pittura appare
come in uno stato di santità che gli fa dire: per carità,
non affliggetemi con l'iconografia!
21 - Proprio qui e
quando la pittura sembra perdere ogni consistenza è da cogliere invece,
forse per la prima volta, la sua massima consistenza. Perdute per strada
le proprie particolarità inessenziali, i pregiudizi naturalistici,
l'attrezzatura difensiva del decorativismo, la pittura ammette solo sé
stessa, si mostra ostile e deride i tentativi di legittimarla dal di fuori.
Contrariamente al luogo comune
che attribuisce suggestioni spiritualistiche o metafisiche a teorie artistiche
fondate su istanze autonome, è proprio quando la pittura e l'arte
in genere non riconoscono altri contenuti che i propri, cancellata è
ogni trascendenza, affermata di contro è l'immanenza, la propria [insopprimibile]
sostanza sensibile con le proprie intime ragioni. E quanto caratterizza
il pensiero materialista è appunto l'essere della materia al di fuori
dell'esistere.
E del fatto che attraverso
concezioni spiritualistiche molti artisti siano giunti ad esprimere [Kandinskij,
Mondrian], nonostante e contro loro stessi, questo materialismo nella pratica
delle loro opere, non se ne può trarre altro insegnamento oltre quello
che tali fatti ci propongono ulteriori problemi di interpretazione e di indagine
sui rapporti e le derive tra teorie e prassi, tra "necessità" dei codici
e "risorse" del soggetto.
Quello che la tentazione idealista
vorrebbe far passare come prova vivente del cammino dell'idea di pittura
verso l'autocoscienza che si fa forma, o la forma autocosciente, allora ci
si svela all'inverso come un cammino dell'idea verso l'essenza materiale della
pittura, un andare (o riandare) della coscienza verso la base materiale sulla
quale trova fondamento; e l'essenza materiale di ogni cosa è la materia
senz'altro.
22 - Giacché
non esiste la materia in astratto, ma sempre abbiamo a che fare con le sue
particolari determinazioni, è del tutto ovvio che tale astrazione
ci si presenti in pittura in una forma determinata. Così nella "mera
superficie" l'astratto concetto di "materia" risulterebbe del tutto concreto
e coincidente con l'astratto concetto di "pittura".
23 - (Economia) -
La pittura nella sua specie di "mera superficie" è la pittura nella
sua forma eccellente. E' la pittura per eccellenza essendo della pittura
l'equivalente generale, il sostitutivo simbolico di tutte le particolarità
figurali; vale a dire il valore di scambio proprio al sistema della pittura
tutta.
Infatti in questa sua forma
solo ora gli è consentito mediare ogni possibilità particolare
della pittura, e finanche rimettere in gioco la sua propria storia, la serie
delle sue determinazioni e soluzioni storiche (la "mera superficie" come
supporto). In questo senso essa non è solamente il luogo (lo spazio)
della pittura, ma ne è anche il tempo. In tutto questo ci si conferma
come materia medesima della pittura; quasi cioè nel senso che se prima
togliendo alla pittura lo "sfondo" (lo spazio) rimaneva pur sempre la "figura"
(il tempo), ora togliendo la "mera superficie" (la materia) si toglie anche
lo spazio e il tempo, quindi la pittura medesima.
24 - Ma ecco che la
"mera superficie", questo segno pericolosamente irrilevante all'occhio e
ai sensi, può mantenere la sua integrità e posizione all'interno
del sistema della pittura e dell'arte a condizione di individuare il proprio
termine differenziale. E di contro al suo essere forma materiata di una categoria
astratta quale "la pittura" non può esservi che un'altrettanta categoria
astratta quale "la non pittura", cioè tutto il resto. La reciproca
evocazione è necessaria ad entrambe, i due termini avendo i bordi
in comune.
Dopo che la "mera superficie"
ha eliminata l'antinomia figura/sfondo ecco apparire e fondarsi una nuova
coppia antinomica: pittura/non pittura.
E di nuovo si preannuncia
anche per questa diade il destino della prima: precipitare e confondersi,
sovrapporsi e scontrarsi dei due nuovi termini pittura/non pittura.
(cfr.26)
25 - Il destino delle
figura del quadro, così come lo abbiamo visto agire all'inizio di
queste note, si ripropone all'interno del quadro e della figura stessa, cioè
della "mera superficie" (perché adesso abbiamo a che fare solo con
questa forma della pittura, vale a dire con la forma della pittura stessa).
Gli spostamenti che prima riguardavano la figura e lo sfondo, le pulsioni
feticizzanti l'oggetto e il soggetto, il piacere della messa a punto del
prodotto e/o del procedimento ecc., adesso investono i termini di pittura
e non pittura, di prassi e silenzio dell'arte.
26 - Lo sfondo ha
fatto vacillare la figura per prenderne il posto quale prima figura della
pittura nella forma di "mera superficie"; la non pittura fa vacillare la
pittura, e l'insidia per scalzarla dall'ultimo suo posto e dissolverla nella
vaghezza del proprio primato sui fenomeni retinici.
E già per mantenere
la "mera superficie" (e i suoi analogon) nell'ambito dell'opera d'arte, necessitano
asserti mistici autodelucidanti (declaratorie di stampo notarile, deposizioni
testimoniali ecc.) e sistemi di segni delucidanti (materiali tradizionali,
firma, didascalizzazioni, spazi per l'arte, riviste specializzate, collezionismo,
mercato ecc.).
Ovvio come in questa situazione
solo le stimmate, la tonsura o similie, prendano a distinguere l'artista
dal pubblico [come la pittura dalla non pittura, l'arte dalla natura].
Ma i segni della genialità,
come tutti i segni, sono suscettibili di falsificazione -altrimenti, si dice,
non sarebbero segni. Allora ecco che la genialità può venire
simulata dal successo -sempre perseguibile, ma non attraverso certi dettami-,
ossia dal talento dell'astuzia efficacemente linguistica, cioè efficientemente
economica. Così, che il cerchio si chiuda o no, l'attuale continuo
parlare di simulacri e imposture è del tutto scontato quando non risulta
altro. (cfr.30)
27 - Il conseguimento
dell'autonomia della "pittura" tanto desiderato si capovolge nel contrario,
nella dipendenza [della pittura] da apparati di difesa e controllo. Comprensibile
allora il desiderio di tornare sui propri passi verso pratiche storicamente
riconosciute e riconoscibili anche dal senso comune. In fondo a qualcuno
piace calda [transavanguardia].
Per il momento è sufficiente
annotarsi che le opere possono anche avere "massa" e "peso" linguistico differente,
ma rimangono sempre delle unità. Vale a dire che, ad esempio, Leonardo
come Yves Klein hanno trattato delle unità non segmentabili prima
e durante un'esecuzione che avviene in una medesima unità di tempo
non scomponibile. Nel senso che, (volendo svolgere metaforicamente l'esperimento
galileiano) se noi, trascurando la resistenza dell'aria, rilasciassimo
allo stesso istante in caduta libera la "Vergine delle rocce" di Leonardo
e un monocromo di Klein, cadrebbero entrambi con la stessa accelerazione
verso il centro dell'occhio, cioè lo raggiungerebbero contemporaneamente
nella loro integrale unitarietà. E questa non vuole essere una considerazione
concettuale che riguarda una supposta natura mistica dell'opera d'arte (qualità,
quantità) ma una considerazione del tutto pratica che costruisce
anche storicamente il modo reale con il quale da sempre si fronteggiano
l'opera e l'artista. Le segmentazioni dell'opera e dei tempi e momenti esecutivi
della pittura (disegno, colore, spazio, ecc.) sono operazioni successive
che competono problemi di attribuzione; nascono da esigenze descrittive e
opposizionali di sistematizzazione di queste unità, ma che non rispecchiano
neppure l'andamento dei momenti procedurali e processuali di modi di codificare
congruenti a determinate fasi storiche, che tutti hanno in comune un medesimo
seppur determinato e irreversibile "sentimento unitario" che non può
svolgersi nella coesione e saturazione del proprio oggetto senza prima pervadere
e regolare un paradigma percettivo comune a tutta un'epoca, superata la quale
un modo di codificare smarrisce con il proprio "sentimento" ogni occasione
di attualizzarsi [in forme che non siano parodistiche, farsesche].
(E' auspicabile e possibile una "Storia della percezione"?).
Allora è del tutto
inutile l'affannarsi attorno a dei modelli pittorici già sistematizzati,
quando non si può più ottenerne altro che l'imitazione di una
massa ma non la massa senz'altro, un erudito aggregato di segni ma non la
viva unità del segno.
28 - Il coronamento
delle morfologie e genealogie della pittura ha i caratteri di una forma
assoluta, quasi esclusivamente mentale; priva di qualità particolare
essa tende ad assumere un valore puramente differenziale quale segno della
cognizione stessa di pittura. E' la pittura come categoria resa tangibile
epperò ancora incapace di risolvere l'impasse tautologico, di superare
i suoi propri limiti e rompere l'incanto consolatorio, la tranquillità
nella quale il pensiero rigoroso la appaga dopo tanto raffinato, storico
accecamento.
29 - Ma il valore
della "mera superficie" in quanto determinazione attuale della pittura, non
è solo e non può essere solamente quello di segnare il grado
di analiticità raggiunto dalla pittura medesima o il grado di coscienziosità
dell'artista, ma è quello di introdurre e rendere egemoni in arte
questioni che investono le strutture della contemporaneità. Quanto
a tutta prima poteva apparire come un mordersi la coda segna invece l'inizio
di una fase del tutto originale, l'assegnazione di un compito non ancora
eseguito, la sua incipienza e premere.
E' il contenzioso di un dilemma.
E con chiarezza potrebbe presentarsi tale se oltre a trovare la forma del
contendere trovasse anche, fuori di sé, operanti quei presupposti
materiali per la sua soluzione. Allora è il contenzioso di un dilemma
in una forma ancora enigmatica. (cfr.33)
30 - La "mera superficie"
è la pittura che senza preavviso vuole passare ad altro, e inizia
a porre il soggetto nella sua integrità, quindi anche socialmente.
Con ciò viene portato
a compimento anche un "genere" particolare: l'auto/ritratto.
(cfr.2, 37.b)
31 - La "pittura"
per poter carpire la sua propria sostanza concettuale è stata costretta
ad aggirare le sue comodità, a rischiare la propria sicurezza e finanche
tangibilità. E allora, proprio come Orfeo Euridice, solo un momento
prima di perderla può coglierla di sorpresa con un coup d'œil.
La pittura e il suo contrario
per accertarsi di sé stesse tramite l'altro, scoperta l'illusione
dell'antinomia, gemendo s'arrestano in posizione tragica (la mera superficie
come ospite). - Proprietà gorgonica della lampanza sullo sguardo diretto:
Euridice essendo lo stesso Orfeo, le reciproche ombre altere. (Per la posizione
patetica della superficie tenere presente la nozione di supporto).
32 - Sebbene la pittura
tenti continuamente il varco che la facesse uscire dal cerchio stringente
della metafora, rimane pur sempre il problema della sua specificità.
La sua riduzione concettuale ambisce di nuovo alla particolarità
della materia, a propri differenziati tratti e somatismi. La mera superficie
inizia così a separarsi nei due rami del "supporto" e dell’ospite",
avviata e accompagnata in questo divaricarsi da posizioni patetiche e/o tragiche.
"Posizioni" perché
ancora non si svolge "azione", per la quale necessita un punto d'appoggio
che trovasi sempre altrove dagli oggetti da sollevare, smuovere o avviare
a movimento. Allora è il successo (cfr.26)
la "leva" che col passo dei tempi porta in trionfo l'opera d'arte; avendo
trovato il punto d'appoggio nel chiodo d'appensione, ossia nel retro, là
dove giusto risiedono i significati (cfr 14)
.
Senza l'ossessione ad essere
calzanti, anche stavolta si profila una conferma materialista attraverso
una forma "bassa", seppure più salutare e splendente, che ci porta
ad adottare la considerazione per la quale se la pittura ha senso mentre
la si fa, il quadro ha senso quando lo si vende.
Ma dov'è l'altrove
di tutto questo?
33 - Ora e qui l'aporia
fondamentale dell'arte e dell'artista non potrà più essere
legata solamente alle sfere dell'estetica e dell'arte, bensì determinata
dall'adesione a paradigmi più estesi e implicanti di ordine sociale
e gnoseologico, ossia, praticamente, politico.
|
LA SUPERFICIE IN PITTURA
2
Un locus communis
ovvero: riprendendo a riordinare i brani nel 1993
|
34 - Non è
difficile condividere l'opinione di uno scrittore tedesco per il quale non
vi è niente di più noioso e arido che le fantasticherie sopra
un locus communis; ma forse non vi è neppure nulla di più
proficuo: per definizione in un tal luogo si può incontrare proprio
di tutto. E cosa c'è di più comune della "superficie" in pittura?
Allora, per raccogliere i
fili di un discorso più volte abbandonato e più volte ripreso,
ma anche per ritonificare il muscolo, rileggo alcuni brani dell'Azzardo
Omologetico del '75 (in
Imprinting del settembre 1976), ricordando che
quello scritto è stato il risultato di una ritrascrizione di getto
di molti brani dei "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia
politica" di Karl Marx, nella versione pubblicata dalla Nuova Italia nel
1971.
34.a -
[29] Il denaro (/segno / superficie /) può
esistere ed è storicamente esistito prima che esistesse il capitale,
le banche, il lavoro salariato ecc. (/la semiotica, la linguistica, la logica
formale ecc / ; / l'arte, i musei, l'artista ecc. /). In questo senso si
può quindi dire che la categoria più semplice può esprimere
i rapporti predominanti in un insieme meno sviluppato oppure i rapporti subordinati
in un insieme più sviluppato; rapporti che storicamente esistevano
già prima che l'insieme si sviluppasse nella direzione che è
espressa in una categoria più concreta. In questo senso il cammino
del pensiero astratto, che sale dal più semplice al complesso, corrisponde
al processo storico reale…(pag.79, primo capoverso).
34.b -
[30] Quindi benché la categoria più
semplice (denaro / parola, / ecc.), possa essere esistita storicamente prima
di quella più concreta , essa può appartenere nel suo pieno
sviluppo intensivo ed estensivo solo ad una forma sociale complessa, mentre
la categoria più concreta era già pienamente sviluppata in
una forma sociale meno evoluta.
Il lavoro (/ la parola
/ la linea ecc./) sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione
del lavoro (/ della parola / della linea /) nella sua generalità -
come lavoro (/ parola / linea ecc./) in generale - è molto antica.
E tuttavia considerato in questa semplicità dal punto di vista economico
(/ linguistico / artistico ecc. /), "lavoro" (/ "parola" / "linea" /) è
una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa
semplice astrazione…(pag. 79, secondo capoverso).
34.c -
[181]Nella particolare opera di pittura, finché
essa è il segno di valori estetici determinati, l'arte è posta
soltanto come forma ideale, non ancora realizzata; finché possiede
un determinato valore pittorico l'opera particolare rappresenta un lato
del tutto isolato dell'estetica medesima della pittura. Nella mera superficie
invece il valore è realizzato, e la sua sostanza è la pittura
stessa, sia nella sua astrazione dal proprio particolare modo di esistere,
sia nella sua totalità. Il "valore" di bidimensionalità costituisce
la sostanza della pittura (essendo determinazione generale della pittura),
e la bidimensionalità è la ricchezza della pittura. La mera
superficie è perciò, d'altra parte, anche la forma materializzata
del "valore" della pittura rispetto a tutte le sostanza particolari di cui
essa consiste. Se perciò da un lato nella superficie, finché
viene considerata per sé stessa, forma e contenuto della pittura
sono identici, dall'altro essa, in antitesi a tutte le altre pitture, è
rispetto a loro forma generale della pittura, laddove la totalità
di queste particolarità costituisce la sua sostanza. Se la mera superficie
per la prima determinazione è la pittura stessa, per l'altra essa
è il rappresentante materiale universale della medesima. Nella superficie
stessa questa totalità esiste come compendio ideale delle pitture
(cfr. 35.b?)
. La ricchezza della pittura (valore di scambio tanto come totalità
che come astrazione), a differenza di tutte le altre pitture, esiste dunque
come tale soltanto individualizzato, nella bidimensione, nella stesura, come
un singolo segno tangibile. La mera superficie è perciò il
dio tra le pitture.
(come di quella parte dove
basta sostituire denaro a superficie, merce a pittura, per capire quali
siano le vere muse dell'arte contemporanea; esse si pongono al contempo
come ispiratrici e oggetti reali di ogni produzione - cfr.- la "mera superficie"
nella pittura contemporanea come "ospite' e come "supporto"; il serpente
che si morde la coda: ipotesi delle implicazioni ideologiche di un modo
di dire - paradigmi interiorizzati)…(pag.
81) .
Da tutto ciò si perviene
facilmente a due considerazioni:
1 - che raggiungere una categoria
semplice e banale come la "superficie", potrebbe essere il risultato di un
lungo e complesso processo di sviluppo;
2 - che ora possiamo anche
proseguire oltre.
|
35.a - Lo specchio
offerto dai Titani a Dioniso per distrarlo dalla propria unità corporea,
è stato la trappola per il Dio; la fascinazione della molteplicità
variopinta delle raffigurazioni del mondo ve lo inchiodano per consegnarlo
alla sofferenza dello smembramento e alla pena della morte.
Ora la Pittura riposa (smembrata
- cfr.03) in un sepolcro (imbiancato)
sulla cui superficie tombale le ombre della vacuità paiono scrivere
in epitaffio la sua ultima preghiera:
“Per carità,
non affliggetemi con l’iconografia!”
[cfr.20]
35.b - L’artista
raggiunge la Pittura nel luogo segnato dalla soglia fluida che la separa
dalla sua stessa negazione [cfr.34]
e se la trova di fronte come “mera superficie”.
Se la tragedia consiste nel
dare forma all’informe, allora è in questa zona che si attua
il tragico come incontro con l’indefinito [cfr.31
e 35.g].
Ma Orfeo non può stare
più di tre giorni negli Inferi (neppure Malevic vi è riuscito)
e cerca la via (orfica?) per fare risalire la Pittura nuovamente verso la
luce e (ritrovare) le sue proprie apparenze figurali.
35.c - Tuttavia Orfeo
non ha saputo morire lui stesso per seguire realmente l’oggetto del
suo amore nella caverna senza luce.
L’unica sua preoccupazione
è stata quella di andarselo a riprendere, ma per uscirne poi ben
vivo – e pasciuto magari anche da un estremo motivo pittorico (
tableau vivent - happening? cfr.26
).
L’esortazione a non
soffermarsi in questo luogo di morte è accompagnata dalla interdizione
di non voltarsi indietro per non guardare alle risoluzioni del (tempo) passato.
Erano quasi giunti fuori dall’ombra
dell’Ade, quando la prima luce dell’aurora illuminò appena
il suo pallido amore; e Orfeo si volta (movimento patetico) e lo perde
per sempre. Si voleva solo accertare con i propri occhi che a seguirlo
nella risalita era pur sempre la Pittura, ma questa non gli perdona la debolezza
della consolatio [cfr.37.d]
.
35.d - In altre versioni
si salvano entrambi guardandosi sotto bagliori non solari, bensì
sotto quelli aurei di una lampada tascabile come la moneta.
[cfr.23, 35.e, 39.f.10]
Se Orfeo non ha saputo morire
per il suo amore, allora non può neppure vivere per esso.
Per questo verrà infine
anche lui straziato e dilaniato dalle donne trace; fatto a pezzi e venduto
al mercato [cfr. 39.f.7]
.
Soltanto la sua testa, inchiodata
alla Lira - appunto -, galleggerà sulle acque dell’Ebro per
approdare infine nell’isola di Lesbo, dove si darà da fare
come oracolo (l’arte come idea dell’arte? – dal minimalismo
al concettualismo?).
Morta l’arte rimane
l’artista, sopravvissuto come Orfeo ad Euridice.
Allora, dissolta la qualità
visibile delle cose, rimangono i loro ultimi lamenti; rimangono le loro qualità
sonore; rimangono soltanto i giochi di parole (di Narciso rimane Eco, di
Duchamp rimane Rrose).
35.e - L’ambito
della Pittura diviene, breviter, l’abiezione del pittore che la configura
come ambizione della Pittura a recuperare l’origine stessa dei suoi
oramai sbiaditi ricordi per abitare confortevolmente le impronte fossili
dei propri passi trascorsi.
Allora il movimento patetico
del voltarsi risolve la “mera superficie” come “Supporto”.
[cfr.38.d]
Il “supporto”
è dunque la forma di un momento e di un memento nel quale la “mera
superficie” si coglie e si offre per l’intero del tempo e dello
spazio nella tensione della sua propria storia naturale: ossia della storia
dell’arte. Ovvero: è la forma stessa della propria Enciclopedia
attraverso la quale pretende di ripristinare anche le scene madri dei propri
cominciamenti. [cfr.38.g]
35.f - Sulla inaccessibile
montagna, sottratto allo sguardo acuto del suo popolo eppure vicino al Dio,
Abramo non porta a compimento il sacrificio espiatorio dell’empietà
dei simulacri, ma arrischia il trompe-Dieu.
Così, la sostituzione
della vittima prediletta dal Padre con un provvidenziale caprone sfigato,
comporta la dannazione alla metafora che spalanca l’accesso alla caverna
interiore delle apparenze figurali e delle rappresentazioni cerimoniali.
Spostata la simulazione dall’Idolo
all’Azione, tanto si scarica il primo termine di possibilità
raffigurale quanto se ne carica il secondo. In tal modo da una parte si
perviene alla Unità irrappresentabile, mentre sull’altra, l’incetta
delle figure sottratte al primo termine non trovano più spazio, e
allora si danno i turni di riposo scandendo un gioco di sostituzioni che
istituisce la spirale incessante della metafora, la fatica dell’iconologia.
35.g - Poiché
Giasone è in cerca di altre nozze [cfr.46?]
, nello spazio segreto della casa –sottratta all’occhio dello
sposo infedele- Medea uccide i suoi figli diletti e li semina ai quattro
angoli della tragica dimora familiare; vuole eliminare la speranza stessa
di ricostituire la coppia mendace. [cfr. 38.f]
Già con l’offerta
della tunica alla figlia di Creonte, Medea riconosce la nuova sposa di Giasone
come simile e come ostile, ossia: come "ospite". Ma questa mariée
si spinge ad indossare quel segno d’omaggio, senza avvedersi che
nella medesima modalità dell'offerta era dispiegata l’intera
iconografia di una Deposizione capovolta; dove si vedeva un Sudario sostenuto
e celebrato da corpi già destinati al macello.
La messa in uso di un simbolo
lo scioglie dalle riserve metaforiche per scatenarlo, realiter, contro
chi ha preteso prenderlo in parola: e il conflitto è sempre mortale.
Allora la tunica inviata da
Medea si svela, quando indossata, come un sudario assoluto che infine trionfa
sulle figure segnate a morte: figli o spose che siano spariranno senza un
gemito sotto la bianca veste dell’estrema Ospitalità.
35.h - Se Abramo è
il padre delle metafore , è Medea che chiude in cerchio la spirale
viziosa delle metafore eseguendo col crudo sangue la saldatura metonimica,
e concedendo l’ozio. [cfr. 38.l, 39.c]
Ma ancora verrà un
altro Padre che sacrificherà il suo proprio unico Figlio prediletto
per aprire un nuovo ciclo di devozioni e dannazioni metaforiche, se ancora
non si potrà dire pane al pane e vino al vino.
35.i - Lo svuotamento
del quadro, come un buco bianco, ha fatto collassare la realtà all’esterno;
qui tutto è più leggero della luce, e nessuna cosa vi precipita
o entra.
La “mera superficie”
è (anche) l’iconografia del Nulla, che mostrandosi afferma,
conferma, conforta e rafforza l’essere della materia fuori dalla rappresentazione.
Tenere la posizione tragica
vuol dire mantenersi nel punto di riposo delle perplessità; indifferenti
alle soluzioni: finalmente irresoluti.
Qui la Pittura comprende che
è il vuoto a creare l’uso [cfr.38.h]
, la condizione per riprendere a muoversi, pur senza andare, pur senza
restare. [cfr.28, 39.f-1]
35.l - Per altro,
o similmente, la Pittura può apparire in quanto tale quando ha smarrito
ogni utilità, così come l’utensile “appare”
quando perde il suo uso.
Allora l’immagine è
una Spoglia e il Guasto è la sua condizione. Ecco perché soltanto
dopo la morte dell’arte può finalmente mostrarsi l’immagine
dell’arte stessa. [cfr. 39.f.4]
E ancora: perché dopo
la perdita del valore d’uso (sociale) vi è una messa in valore
di scambio.
Nel mercato, come corpo del
valore di scambio, l’opera d’arte trova il suo attuale valore
d’uso, l’unico che ormai gli è rimasto, l’unico
ancora concesso. Ecco diventare importante la quota d’asta: bisogna
pur adottare un qualche criterio per distinguere un’opera dall’altra.
[cfr. 37.b]
35.m - Nella “mera
superficie” si specchia l’Ananke della Pittura.
Solo dopo aver celebrato tutti
i misteri della Superficie, dopo aver congiunto il Tempo della memoria con
la Necessità dell’attuale, la Pittura può avviare le
nuove cerimonie degli immutabili (poiché ogni smembramento
è premessa e promessa di una rinascita nell’unità) alle
quali adesso può essere iniziato non più il singolo eccellente,
ma ogni e tutti i singoli – con buona pace dei misteri del Privilegio.
[cfr.33]
TENTATIVI DI RICOSTRUZIONE PER LA GENEALOGIA DELLA MERA SUPERFICIE
Introdursi nella tua storia
è da eroe impaurito
se ha col tallone nudo toccato
qualche lembo del territorio.
Stéphane Mallarmé, “Altre poesie e sonetti”
36.a - La pittura diventa
possibile a partire dalla limitazione della totalità esteriore, “
non lasciando sussistere questa tale e quale” (Hegel); vale a
dire a partire dalla limitazione delle tre dimensioni alla superficie piana
– senza però negligere la profondità spaziale che, invece,
proprio per tale riduzione si problematizza (il fondo oro delle immagini medioevali
la trasforma in icona, la prospettiva rinascimentale la trasforma in simbolo,
l’impressionismo la trasforma in un quesito sul colore, ecc.).
In questa prima mossa di
reductio che segna l’atto di nascita della pittura , è
già contenuta tutta la partita che essa intende giocare con la totalità
esteriore – forse vi è anche l’esito finale (determinismo),
se non gli svolgimenti ed esiti puntuali (meccanicismo).
Allora la pittura non può
voler dire e consistere nell’estendere e perfezionare i modi della
raffigurazione o il linguaggio stesso della pittura; e neppure nel renderla
più rigorosa – quasi fosse l’espiazione di quella colpevole
originaria reductio da riscattare integrandola con una operosità
delle contraffazioni ottiche.
Piuttosto dobbiamo dire che
la pittura consiste proprio nel perfezionare un’assenza.
36.b –
Resa possibile a partire da una limitazione, la pittura può sussistere
soltanto rinnovando ogni volta tale fondante limitazione, e anche procedere,
in questo limitare della totalità esteriore, attraverso la reductio
delle qualità visive del mondo e delle cose. Verso dove procede?
Ossia: qual è il limite di tali continue limitazioni, l’intero
suo proprio limite?
Se conveniamo con Hugo che
"la forma è il fondo che torna alla superficie", quando forma e fondo
–in un abbraccio mortale- si identificano per sparire alla vista,
solo la superficie rimane a preservare la certezza della pittura; solo la
superficie è il termine che non si confonde e rimane immutabile a
sé stesso nella mischia che conduce la figura e lo sfondo verso l’invisibile.
Se il limite della pittura
è l’invisibile, allora pitturare vuol dire avvicinarsi ogni
volta all’invisibile –e questo procedere sembra confermato dall’abbrivio
che proprio in tal senso ha preso uno dei rami più conseguenti della
pittura moderna (dal monocromo all’achrome). Ma anche: se il limite
della pittura è l’invisibile, la superficie è la forma
tangibile di tale limite –la figura testimoniale, ossia storica, del
procedere della pittura verso questa (dis)soluzione ancora e purtuttavia sempre
pittorica. [cfr. 20, 35,a]
36.c -
Passaggi al limite - Nel calcolo matematico il passaggio al
limite, con cui data una funzione se ne ottiene un’altra, si dice
“derivazione”. Per la tangente ad una curva piana qualsiasi,
il valore della derivata in un punto dato è il limite cui tende il
rapporto fra l’incremento della funzione di una retta secante e l’incremento
della variabile indipendente – quando quest’ultimo incremento
tende a zero, senza tuttavia raggiungere mai il valore nullo. È inteso
che si parla sempre di casi in cui il limite in questione esiste effettivamente;
se questo limite non esistesse dovremmo dire che nel punto dato la funzione
non ha derivata.
Se ora noi – con un azzardo analogico e modellizzante – prendessimo
la Pittura come fosse la funzione continua di una retta secante una curva
piana (della totalità esteriore?), e assumiamo uno dei due punti
di intersezione come punto limite dato per collocarvi la “mera superficie”
quale limite proprio della Pittura, possiamo dire che questo sia un limite
effettivo della Pittura?
Come “conditio sine
qua non” della Pittura [cfr.13]
la “mera superficie” si presenta realiter quale condizione
minima e sussistente fin dal momento originario della pittura; è
quindi un punto di partenza che permane. Inoltre, i monocromi di molti pittori
contemporanei hanno offerto alla “mera superficie” una occasione
pratica per assumere una esistenza effettiva nella storia della pittura;
è quindi anche un punto di arrivo. In definitiva abbiamo a che fare
con un elemento irriducibile e irrinunciabile all’esistenza primaria
della pittura stessa, ossia, giusto, col suo punto limite.
Superare questo limite, come
per la tangente significherebbe tornare ad essere secante di un settore
della curva opposto, per la Pittura significherebbe tornare ad insistere
nella raffigurazione in un settore della totalità esteriore opposto
al precedente; il cambiamento di stato che si provocherebbe nell’oltrepassare
il punto dato di tangenza dimostra che il limite esiste anche storicamente
(e concettualmente e praticamente) e che dunque la funzione ipotizzata può
avere una derivata.
Prima di procedere oltre,
resterebbe da dimostrare la validità di un tale modello, seppure
d’azzardo?
Rileggo 36.a: "la Pittura
diventa possibile a partire dalla limitazione della totalità esteriore".
Se ora esprimo tale totalità con una curva piana, una retta che la
intersecasse in due punti qualsiasi opererebbe immediatamente una limitazione
– ad esempio rispetto all’intero settore concavo racchiuso dalla
curva, o ad es. rispetto a tutti i punti della curva medesima, ecc.
Ora abbiamo quanto ci occorre
per poter dire che nel calcolo funzionale del pittore (nella sua prâksis
) la “mera superficie” si pone come punto limite e perno
attorno al quale la pittura prende a ruotare (mossa dagli incrementi tendenti
al valore nullo della variabile indipendente, ossia verso l’invisibile),
e col passo di differenziati infinitesimali pittorici, che gli fanno percorrere
tutti i punti della curva, si dispone infine in guisa di tangente alla curva
stessa, con la quale avrà in comune quell’unico punto, avendo
abbandonato ogni altro punto della curva (o della funzione) totalità-esteriore.
Dinamizzato in tal modo quello
“a partire dalle limitazioni”, siamo arrivati a rappresentarci
anche la estrema reductio della Pittura, oramai del tutto affidata alla
tangenza, e quasi raccolta interamente nella “mera superficie”,
nella quale la Pittura vorrebbe trovar riposo, ma che, per definizione,
mai potrà raggiungere. E questa è la sua condanna per aver
avuto dei riguardi solo verso sé stessa.
E` del tutto ovvio che, procedendo
nel modo descritto, la Pittura ha dovuto rinunciare sempre di più
alla rappresentazione della realtà; e anche il pittore si ritrae dal
mondo, dalla comprensione dei rapporti materiali, fino a trovarsi solo con
una pittura esangue quanto lui. Allora questo movimento è stato anche
il movimento di tale ritirarsi (e “ritrarsi”) fino a ridursi ad
un rapporto esclusivo con la Pittura. Nell’incapacità di comprenderla,
la realtà esteriore si è ridotta ad una sensazione individuale.
Entrambi, il pittore e la pittura, sono ancora aggrappati al mondo per questo
punto limite, ma pencolano pericolosamente verso la non-pittura, e intanto
ripetono a sé stessi – senza convinzione: dopotutto si può
anche morire. [cfr. 14, 35.b, 39.f-9]
Un merletto si abolisce
nel dubbio del Gioco supremo
a non svelare atto blasfemo
ma assenza eterna di letto.
Stéphane Mallarmé, “Altre poesie e sonetti”
37.a – Non potendo essere
raggiunta integralmente e in quanto tale, la “mera superficie”
forse non può essere altro che una definizione; epperò una
definizione del tutto concreta e necessaria. [cfr.
20]
Una Pittura priva di un suo
proprio punto limite non sarebbe potuta andare; sarebbe rimasta attonita
davanti alla molteplicità fluente delle qualità visibili del
mondo (come Dioniso davanti lo specchio - cfr.35.a); sarebbe rimasta confusa
dall’inizio, così come rimane confusa alla fine; ma intanto
ha fatto il suo determinato corso (come un glorioso Achille che ce la mette
tutta per prendere la tartaruga – e ci riuscirebbe infine se applicasse
il calcolo integrale; cfr. 40.0:
dunque la “critica”?).
Gli incrementi infinitesimali
attraversati per il passaggio al limite, sono stati i passi discreti della
sua propria storia; ne hanno scandito il ritmo impresso dal cammino dei rapporti
materiali (rapporti che la Pittura tanto più nega quanto più
se la sottomettono) , fino, anche, al capovolgimento del passaggio al limite
– che allora è un guado .
Superato questo limite la
Pittura inizia a ritrovare la non limitatezza della totalità esteriore;
ma adesso intende lasciarla sussistere tale e quale per darsi da fare con
le cose del mondo e invischiarsi con le sue faccende.
[cfr. 29, 33]
37.b – Per avvicinarsi
sempre più a sé stessa e raccogliersi, infine, nel suo proprio
limite, la Pittura ha dovuto ridurre progressivamente il mondo esterno per
consegnarlo alla pura sensazione.
Ancora poco e il mondo si
dissolverà nell’immaginazione
E, sorto dalla curva e dal
balzo, il Pittore viene convocato quale limite estremo consentito della funzione
sociale. [cfr.33]
Allora, giusto, quel ritirarsi
dal mondo diviene un “ritrarsi”, poiché è sempre
qui che la Pittura prende a coincidere con il Pittore; e da adesso in poi
le sorti di entrambi saranno indissolubilmente legate in un intreccio inestricabile
(e il pittore sarà condannato all’autoritratto).
La volontà di rappresentazione
della pittura ora trova solo oggetti che gli appartengono, e da adesso in
poi le sue teorie non conosceranno e riconosceranno altro che sé
stessa e i suoi propri oggetti.
Ma se la pittura si è
dimenticata del mondo il mondo non ha fatto altrettanto, e la lascia in
balia delle strutture che hanno preso a dominarlo. Ora Pittura e Pittore
trovano il "mercato" che se li sottomette materialmente.
E adesso si possono stilare
anche le norme di fabbricazione e le modalità d’uso per la
Pittura; mentre la sua funzione è verificabile dall’esito dell’azzardo
supremo che tenta la trasformazione dell’opera in moneta sonante –
con la qual cosa la pittura riprende anche a parlare.
[cfr. 26, 35.d]
37.c – Come
la derivata della secante è la tangente, così la derivata della
Pittura è l’Estetica (della pittura).
Quando la “funzione”
pittura (di primo grado) passa per il suo limite, segnato dalla “mera
superficie”, è con questo segno che ora la Pittura si concede
al mondo, vi si espone ed abbandona.
Ed è certo che se qualcuno
vuole ancora trarre godimento da questo suo ultimo mostrarsi, deve provvedersi
di un contegno estetico (e di un congegno ottico-cerebrale), e da questo
attingere ogni allettamento.
Per altro l’Estetica
non è molto più vecchia della superficie in pittura; ne ha solo
anticipato il destino prima di vederne la forma risolutiva. E l’Estetica
stessa ha potuto trovare uno svolgimento adeguato solo a partire dalla
morte dell’arte; cioè, come ogni altra scienza, ha dovuto attendere
che l’oggetto della sua analisi fosse sufficientemente sviluppato
da risultare trafitto e immobile sul tavolo da dissezione.
37.d –
La Pittura, dopo aver ricongiunto il momento in cui è stata possibile
con il momento in cui è ancora appena possibile, non può che
svolgersi e trovare il momento ulteriore in cui non è più
possibile. È solo la convocazione del Pittore, tenuto in pugno dal
Mercato, che la trae dall’impaccio offrendogli nuove possibilità?
[cfr. 35.d].
|
LA SUPERFICIE IN PITTURA
4
La mera superficie come ospite o come supporto
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Angosce del passato necessarie
aggrappate come con artigli
al sepolcro di sconfessione.
Stéphane Mallarmé, “Altre poesie e sonetti”
38.a -
Il limite dell'invisibile segnato dalla "mera superficie", è il cuore
svuotato della pittura; che geme di essere raggiunto pur proclamando il
NOLI ME TANGERE. Perché fin lì la pittura si attua, ma proprio
lì la pittura prende fine.
Praticando
la disciplina dell'avvicinamento al limite, la pittura vi giunge estenuata;
ma quando ormai è del tutto prossima all'invisibile e si scorge come
pittura definitiva, il pittore annusa il pericolo del congedo e - in un
estremo riguardo verso sé stessi- si fanno - pittore e pittura- irriducibili.
[cfr.15,21,28]
È in questo
intorno più prossimo al silenzio della Pittura che la pittura può
ancora continuare ad apparire, evitando di venire ingoiata dalla vertigine
perpendicolare che esce dal piano, verso il mondo della totalità
esteriore e della non-pittura. [cfr. 01, 24]
Frequentare questa
soglia incerta consente al pittore di acquisire quella familiarità
che gli permette di imporre il silenzio al silenzio della pittura.
[cfr.20,35.a]
38.b -
Sul limitare del congedo la "mera superficie" in quanto tale rimarrebbe
una semplice definizione, se non fosse che, nella immobilità dello
stallo tra la perplessità tragica e la perplessità patetica,
il Pittore, sciogliendosi dalla malinconia dei numeri, non la afferrasse
per la coda nella sua duplice forma epifanica dell'”ospite” e
del “supporto”, che a loro volta manifestano una propria duplice
natura con la quale adesso possono inscenare le nuove sensibilità
della pittura.
38.c –
(ospite) - Per la "mera superficie" come “ospite”
si possono indicare tutte quelle opere nelle quali predomina la calma dello
stimolo retinico; ed è come un richiamo al riposo - proprio per l'invarianza
della superficie pittorica - che si spinge fino ai limiti della impercettibilità
degli accadimenti pittorici sul piano. [cfr. 01]
Qui è la
pittura che accenna al nulla.
Qui è la
pittura che accenna al vuoto nel quale ancora risuona appena il NOLI ME
VIDERE del suo stesso limite.
Qui l'”ospite”
si deve spoliare per mantenere sotto seduzione il visitatore.
[cfr.35.g]
38.d –
(supporto) - Per la "mera superficie" come “supporto” si
possono indicare quasi tutte quelle opere nelle quali - ora, dopo il passaggio
al limite - predomina una sia pur limitata varietà di stimoli retinici,
esaltati proprio dalla estrema discrezione.
Spesso nel “supporto”
vengono evocate, ed invocate, le iconografie e iconologie, pur anche elementari,
attraverso le quali la raffigurazione presto si aprirà un varco per
ingombrare lo sguardo - non solo la vista. [cfr.
35.e]
Allora segna l'imbocco
di una via di ibridazioni anche letterarie, che magari possono apportare
contributi originali benché difficilmente apprezzabili senza le pasticciature
dell'erudizione.
La sua direzione
è determinata da una declinazione del passato; successiva, succedanea,
anche ulteriore, comunque reattiva e spesso retroattiva rispetto al luogo
di morte, disparizione e dunque di ricominciamento dell'arte della pittura
- ed è propriamente da intendere come l'avvio della risalita di Orfeo
oltre un punto (limite) che pur si era lasciato alle spalle; ma ora, dopo
aver visto il volto del definitivo, ritorna sopra i propri passi, ma coi
bruscoli del sepolcro dentro gli occhi. [cfr. 35.c,
36.c]
38.e -
L'”ospite” è sempre in perenne attesa.
[cfr. 35.l]
È continuamente
visitato, abbandonato e tradito dalle incursioni delle figure che non gli
concedono nulla, e mai gli si concedono; e questo ne forgia il cinismo del
quale abbisogna. [cfr. 39.b]
Il “supporto”
reclama ed espone le incrostazioni, le tracce, il sussistere e il permanere
dei segni tangibili delle visitazioni e dei passaggi dell'angelo. In questo
suo mostrare le impronte e le peste il “supporto” potrebbe anche
apparire come una fase superiore dell'”ospite”, ossia come un
“ospite” finalmente appagato e soddisfatto, ripagato dell'attesa.
Se non fosse che troppo facilmente queste visite si trasformano in "motivo",
e così svelandolo nell'ingordigia sconveniente del miserabile dominato
da sensi di gratitudine nei confronti della (storia della) pittura. Allora
il “supporto” troppo spesso mantiene un "ospite” che dopo
tre giorni (è confermato anche dai Vangeli) inizia a puzzare come
un pesce marcio. [cfr. 35.b, 35.e, 39.a]
38.f -
Dunque: la “mera superficie” vuole eliminare la speranza stessa
di ricostituire la Pittura. [cfr.35.g]
38.g -
Come “supporto” la “mera superficie” compie la riduzione
dei piaceri: allora rimangono solo i desideri. Da qui la spinta verso il
ripristino delle "scene madri' [cfr.35.e] della pittura, con le quali vuole
darsi da fare per presentarsi come un testo su cui imbandire un desco privato,
prêt-à-porter, apparecchiato per
le mosche sarcofaghe che presto sciameranno dal (nel) motivo
[cfr.39.a]; perché il compimento della riduzione
dei piaceri lascia un solo unico piacere, continuamente raggiunto e continuamente
dismesso, ossia venduto, eventualmente (stile?).
38.h -
Come “ospite” la “mera superficie” compie la riduzione
dei desideri stessi; dunque rimangono solo i piaceri. Da qui la sua propensione
verso il soddisfacimento immediato, il godimento e la quiete; e con
ciò la capacità di portare sempre con sé la possibilità
della pittura, non più per lasciarla deposta nell'opera, ma ne rimane
sempre gravida senza mancare d'essere (e rimanere) la vagina pulita, non
raschiata, della Pittura.
Con il passaggio
al limite il pittore giunge al cospetto della pittura. Ma chi si pone a
fronte della “mera superficie” non può servirsi d'essa
- poiché si trova di fronte ad una negazione; allora può solo
servirla (appunto come "supporto” o “ospite”).
Le opere e i giorni
della pittura tendono a risolversi tutti nel pittore, nel quale si innervano
e somatizzano senza lacerazioni per farne un corpo stellato.
Il “supporto”
ha la presunzione del testo, dove per l'”ospite” il testo si
costituisce nel contesto dell'accogliente.
Nell'”ospite”
la riduzione dei desideri ha lasciato un solo, unico desiderio, sempre teso,
perennemente eretto verso il mondo.
L'”ospite”
muove dalla rinunzia e dall'indigenza per comporre un unico testo; e ancora
una volta, quando non si ha nulla da perdere si ha un mondo da guadagnare.
E la pittura come “ospite” persegue una strategia disperata
per rimanere comunque seduta alla destra (del mondo) della Pittura.
(Ritorno alla realta' fisica) - Come nella raffigurazione in generale
gli oggetti perdono il loro valore d'uso, così nella raffigurazione
della pittura (quale doppia negazione d'uso) si volatilizza l'uso stesso
della pittura; in tal modo si arriva ad una riconferma - però in una
forma superiore- del valore d'uso degli oggetti del mondo. Ossia: l'annullamento
della stessa nominazione pittorica (raffigurazione) sposta l'attenzione
e l'uso dal segno alla realtà, che diviene possente.
Dunque: la “mera
superficie” come “ospite” è giusto lì, come
un presidio, per salvaguardare la realtà e la pittura, e ancora:
la realtà della pittura.
38.i -
La “mera superficie”, in quanto forma baluginante della pittura
che ha raggiunto il suo proprio limite, la rende sfuggente anche alle descrizioni;
e uno ci si deve arrampicare come su di uno specchio.
[cfr.39.f-6]
38.l -
La pittura ora attinge dal fondo come da un pozzo senza pareti. E tu dici:
eccola! senza vedere il pozzo, senza vedere la bellezza estrema del suo
ozio che si ristora ai bordi. Al suo diritto all'ozio tu concedi solo
di cambiare fianco: dalle battaglie di Paolo Uccello alla sfida a scacchi
di Duchamp - che sorride senza baffi perché ti sa debole all'astinenza
dell'immagine.
39.a -
È sufficiente applicare al “supporto” la mossa patetica
(che comunque reclama e invoca, essendogli congeniale) per ritrovare la
pittura come lavoro e come motivo operoso (motivo, anche nel senso di cercarsi
una motivazione fuori dalla pittura medesima. [cfr.
35.c, 37.d]
Col motivo la
pittura, dopo essersi avvicinata alla “mera superficie”, inverte
la marcia; ossia procede non per un'altra nuova via ma persiste nella medesima,
ritorna sui suoi passi e confonde le peste (nel modello del passaggio al
limite, la tangente prosegue come secante percorrendo il settore della curva
opposto al precedente.
Si può
sempre tornare indietro senza rinnegare nulla; ma uno dopo il sacrificio
[cfr.35.f, 35.g]
ritrova soltanto i rituali; e non sono per nulla indifferenti né
i modi con i quali sono stati svolti i passaggi al limite, né quelli
con i quali si tenta la risalita; su queste differenze riposano adesso le
particolarità espressive della pittura. [cfr.03]
39.b -
Parimenti, è sufficiente applicare all'”ospite” la sua
più conseguente mossa cinica [cfr.38.e]
, per ritrovare la pittura come inoperosità irrinunciabile della
pittura; ossia la risoluzione dell'opera come "schermo" (senza motivo).
39.c -
Mentre la perplessità patetica, posta di-fronte al NOLI ME
VIDERE della pittura, conduce la “mera superficie” a risolversi
in “supporto” e la spinge fino al motivo (che troppo facilmente
si abbandona e sottomette alla voglia del ripristino delle scene madri della
pittura - cfr.04, 35.e), la
perplessità tragica imprime alla “mera
superficie” una propensione che, passando attraverso l'”ospite”
si risolve nello “schermo ” - il quale è il paradigma
sgomento più prossimo al rivelarsi della pittura; il suo corpo di
attualizzazione pittorica più conseguente che, accettando la sfida
del NOLI ME VIDERE se ne rimane immobile e pago: imperturbabile (la pittura
acquisisce una partitura dell'indeterminatezza e diviene spettacolo - giusto
allora che l'opera diventi anche “schermo”, se la società
è divenuta quella dello spettacolo).
39.d -
La “mera superficie” è (ha raggiunto) il punto irrinunciabile
della pittura; e il passo cinico dello “schermo” getta la pittura
in balia del Mondo. [cfr.05]
È però
lo “schermo” che, avendo travalicato l'uso stesso della pittura,
mette in uso il mondo, che lo ripaga della sua rinuncia gettando su tutta
la pittura una luce che ne rivela l'intera linea genealogica.
39.e -
La “mera superficie” può esprimersi solo con un passato
o con un futuro, mai con un presente, che è inabissato sulla soglia,
ficcato nella “mera superficie” come un fulcro o una cerniera
immobile attorno cui la pittura continua a oscillare. Il “supporto”
(passato) e l'”ospite” (futuro) sono le visibili oscillazioni
pendolari che scandiscono la sparizione della Pittura.
39.f –
(scoli da leggere senza batter
ciglio)
.1 – La
morte dell’arte è una sua propria estrema possibilità.
Questa morte che non ha voluto essere un “decesso”, rende ancora
possibile qualcosa da fare; è produttrice di un vuoto che consente
il movimento, che dà aria, respiro.
.2 – La
figura si lascia vedere solo nascondendone altre. Invece: guardare ed essere
nella cosa stessa, guardare lo sguardo vuoto della Pittura, non le rappresentazioni
delle cose e della Pittura stessa come cosa. La trasparenza dissolve la
figura e non nasconde più nulla, perché non vi è più
nulla da nascondere, ossia più nulla da vedere.
.3 – Dopo
la morte dell’arte non si può più venire distolti dalle
immagini, distratti da esse, ma rivolti nella cosa e intimi con essa –
rivolti nella Pittura e intimi con essa – senza impazienza, non più
indaffarati - specialmente poi se la cosa di cui si tratta è, per
l’appunto, un cadavere. (il van Gogh di Artaud?)
.4 – La
“mera superficie” ha offerto alla Pittura non soltanto la possibilità
di morire, ma anche la bara per accoglierla. E alla Pittura non è
bastato morire, ha voluto che la “mera superficie” rimanesse
quale cauzione a poter morire.
.5 – Dopo
la morte dell’arte, della Pittura, si possono trovare soltanto i rituali
delle condoglianze; ma per le condoglianze spesso non si trovano mai le
parole adatte.
.6 – Solo
la morte dell’arte poteva trasformare l’arte in una merce; separarne
l’anima dal corpo. Come l’umanità operosa è stata
separata in “lavoro morto” e “lavoro vivo”, ossia
in Capitale e Lavoro salariato. [cfr. 35.d]
.7 – Alla
fine tutti sono disposti a concederti la libertà di (religione, opinione,
espressione, ecc.), non certo la libertà dalla (religione, opinione,
espressione, ecc.); si consente la libertà di pittura, non la libertà
dalla pittura (Duchamp, forse, si è concesso la libertà dalla
pittura…o si è preso delle liberà con la pittura?).
.8 – Dopo
la morte dell’arte, il suicidio dell’artista, intimo con tale
morte, affermerebbe pur sempre il presente, e la vita; sarebbe la richiesta
di un senso che non si ritiene esaudito. Una vera morte invece è
quando non si desidera nessun desiderio, neppure quello di poter morire;
contrariamente non sarebbe una vera morte, soltanto un appagamento. E la
“mera superficie” è la rinuncia alla speranza stessa
di avere ancora desideri. [cfr. 35.c e 35.g]
.9 – Rimanere
quieti, non darsi da fare neppure con il suicidio.
Dopotutto possiamo
dire che uno può aver dimenticato i modi e le procedure della pittura;
può anche non riconoscere più i luoghi nei quali la pittura
è solita apparire; e magari aver dimenticato lo scopo e le ragioni
stesse della pittura. Però uno può anche parlare di tutte
queste dimenticanze e rimanere pur sempre nel cuore trafitto della Pittura.
.10 - Questo 9
è il mio caso? Sembrerebbe, alla luce di [32], dove: “il quadro
ha senso quando lo si vende”.
Considera Tiziano,
che si vantava di non aver mai neppure iniziato un quadro che non fosse
già pagato, e di non averne mai dipinto alcuno semplicemente per
proprio diletto (quindi mai vanamente, ossia con vanitas?).
Interessante è
anche il caso di Gerhard Richter, i cui monocromi del ’75 sono il
risultato di un periodo nel quale non sapeva più cosa dipingere.
Considera ancora [32], dove: “la pittura ha senso quando la si fa”;
nel caso di G.R. si manifesterebbe un carattere coattivo della pittura
- o è la pittura a subire il carattere coattivo del pittore? Agisce
una coazione a produrre in assenza di ogni altro bisogno che non sia il
bisogno stesso di produrre – che poi è un produrre la pittura
in quanto pittura; ossia un produrre, dunque, nella e sulla, e a partire
dalla Vanitas .
A cosa far risalire
e su cosa poggiare materialmente tale coazione se non, in ultima istanza,
al modo capitalistico di produrre nella limitatezza e nell’isolamento?
.11 – Che
“la messa in vendita dell’opera d’arte è messa
a morte dell’estetica precapitalistica”
1e che “il mercato dell’estetica
presuppone l’estetica del mercato”
2 , comporta che: lo sguardo non sia
più sottomesso alla sensibilità retinica ma, emancipato dalla
pesantezza della piramide come lo è l’occhio divino stampato
sul dollaro, acquista delle nuove prerogative per illuminare con una
sua propria luce tutti gli oggetti del mondo
3. [cfr. 35.d,
7 e 27]
39.g -
[Condizioni per il ritorno alla realta' fisica]
[cfr.
38.h]
1- Cfr. “Abaco delle esortazioni (critiche)
” in Aut.Trib 17139 n.1, Roma 1978;
2- Cfr.Aut.Trib n.1, cit ;
3- La ragione viene sconfitta dall’azzardo
e Duchamp ripone gli scacchi per giocare in Borsa.
|
LA SUPERFICIE IN PITTURA
5
Le apparizioni della superficie
|
40.0
– A questo punto (e non lo faccio per
voi, credetemi) consentite di pormi una domanda: di cosa diamine si sta
parlando?
Concretamente,
intendo.
Concretamente!
Ecco una parolina difficile da soddisfare quando, una domenica grigia a
Combray, assaporando un sorso di tè misto alle briciole di madalenine
abbandonate da Seraut e Cezanne, da Braque e Mondrian (e magari pure da
Duchamp), un piacere “isolato” da ogni causa mi aveva invaso.
"Certo
ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine,
il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me…Toccherà
mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo…? Non so.
Adesso non sento più nulla, s’è fermato, è ridisceso
forse; chissà se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare,
chinarmi su di lui dieci volte"
1.
Ed io mi
chino su quell’emanazione sottile delle mie sensibilità, ad annusare
la fragranza indicibile di un amalgama lasciato sul fondo dal bianco di
Malevitch 2
, dal rosso di Rodcenko 3
, dal buio di Reinhardt
4.
E quel sentore
mi raggiunge come un richiamo ospitale della pittura stessa; senza tuttavia
farmi provare ancora l’acutezza olfattiva e lucida della “mera
superficie”, che è il limite calcolato della pittura –
e forse per questo mai raggiungibile dalle prassi di “derivazione”,
ma solo dal calcolo “integrale” della sua stessa critica.
[cfr. 14 e 37.a]
E di nuovo
mi chino su quel fremito di tiglio che adesso convoglia anche i pungenti
odori ascellari di Newman
5 e Rothko
6e Pollock
7, addirittura, e altri ancora, mentre
tutti sudavano ad applicarsi alla fatica evocativa dal fondo della mezzanotte,
dove l'immagine è mantenuta appallottolata come un ombelico al centro
della superficie pittorica.
Ma tutti
quanti costoro, senza cedere allo spavento e al rischio, tengono ancora serrata
in pugno la spinta patetica verso la raffigurazione. Allentate un poco la
presa e
"come
in quel gioco in cui i giapponesi si divertono a immergere in una scodella
di porcellana dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena
immersi si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano,
diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, cosi'
ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swan, e le ninfee
della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa
e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma
e solidit à , è sorto, città e giardini,
dalla mia tazza di tè"
8
Così
anche la superficie - magari confortata da una tazza di
tè con pasticcini
9 - si riprende dallo sgomento di una
Pittura che aveva proclamato il NOLI ME VIDERE.
Ma oramai
come si può saltare il passaggio per questo punto dei ricominciamenti
senza subire l’abbraccio patetico degli “ismi” di ritorno?
Però
adesso "è tempo che mi fermi, la virtù della bevanda sembra
diminuire" 10
.
NOTE AL BRANO 40.0
1 - Marcel Proust, "La strada di Swann", pag. 51, Giulio
Einaudi editore,Torino 1963. - 2 - Kasimir
Malevic - dal “Quadrato nero su fondo bianco” al "Quadrato bianco
su fondo bianco", Museum of Modern Art, New York. -
3 - Aleksandr Rodcenko: "era
una piccola tela quasi quadrata tinta integralmente con un unico colore rosso";
cosi', in un testo del 1923 Nikolaj Tarabubukin ricordava questa opera di
Rodcenko. Cinque artisti costruttivisti (Rodchenko e Stepanova, Aleksandra
Ekster, Liubov Popova, e Aleksandr Vesnin) parteciparono ognuno con cinque
lavori alla mostra "5x5=25", allestita a Mosca nel 1921. In quella
occasione Rodchenko espose le opere "Linea", "Cellula", e tre monocromi datati
1921: "puro color rosso" (Chistyi krasnyi tsvet), "puro color giallo" (Chistyi
zheltyi tsvet) e "puro color blu" (Chistyi sinii tsvet). In olio su tela,
ogni pannello cm. 62.5 x 52.5. - 4 -
Ad Reinhardt, "Abstrac Painting", 1960-66,
olio su tela, cm.60x60, Guggenheim Museum. -
5 - Barnett Newman, "The Name II", 1950
- Magna and oil on canvas, 2.642x2.400 m(104 x94 1/2 in.) National Gall. of
Art, Washington DC. - 6 -Mark
Rothko, "1968",
acrylic on paper mounted on hardboard panel, National Gallery of Art, Washington
DC. - 7 - J ackson
Pollock, "Number 1", 1950, National Gall. Washington DC. -
8 - Marcel Proust, "La strada di Swann", Op.cit., pag. 52. -
9 -Giorgio Morandi - 1964, l'ultimo quadro; olio su tela, cm.
25,5x30,5, Museo Morandi, Bologna. - 10 - Marcel
Proust, "La strada di Swann", Op.cit. pag.
|
|
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41.0 - Da un punto di vista espositivo vi è una strada più
chiara di quella (impressionista?) di Swan, che conduce la pittura (giunta
al punto limite della mera superficie) a risolversi come "schermo".
È quella che tira dritta, ed evitando la mossa verso l'identificazione
(cfr.16)
, raggiunge lo "schermo" direttamente dal movimento di "separazione"
(cfr.13)
.
Vi si perviene attraverso un procedere empirico, che prende le mosse appena
dopo che la figura e lo sfondo si sono separate una dall'altra, per diventare
un fantasma la prima e, appunto, uno "schermo" il secondo. Fantasma e schermo
che uno verso l'altro e uno contro l'altro si cercano - e in questo manifestano
la loro ostilità che li rende propriamente "ospiti".
Lo "schermo" raggiunto dal movimento di separazione, privato del rigore
del passaggio chiasmatico identificativo, consente ora anche l'esercizio delle
mosse patetiche per la fissazione della figura; dunque rende questo tipo
di "schermo" sempre suscettibile di una sua riconversione in "supporto";
e ancora permette di spingerlo nelle braccia del "motivo" per precipitarlo
nuovamente nella rappresentazione.
Alla luce di questo, è del tutto ovvio come non sia indifferente
in pittura raggiungere le varie attualizzazioni della "mera superficie" percorrendo
strade diverse, che però tutte prevedono e impongono il passaggio
per il limite.
I vari modi e modalità di risolvere il passaggio sono le variabili
determinanti che consentono, persino allo "schermo", di manifestare il silenzio
della pittura in modo altrettanto determinato.
Come il rumore fossile del Big-Bang si mantiene nell'universo, il rumore
delle separazioni avvenute nella pittura si mantiene impastato nel fondo
della "mera superficie".
È il particolarissimo modo di ritenzione dell'artista di questo
silenzio della pittura che consente a tale silenzio di manifestarsi come
sonoro silenzio dell'opera determinata.
Lacerazioni: - Il suono del flauto nelle cerimonie sufi è l'espressione
simbolica di una malinconia, di una nostalgia di quando era ancora una canna
confusa tra le altre nel canneto: prima della separazione, prima dell'elezione,
prima della sua particolarità….allora l'espressione individuale
è quella di un dolore, l'individualismo una patologia.
41.1 - Può anche avvenire che esercitando una mossa cinica sul
"motivo" o sul "supporto", si possa pervenire ugualmente allo "schermo".
Vedi ad esempio la "tabula rasa" del Caravaggio descritto da Longhi:
"…La sua (del Caravaggio) deferenza al vero poté anzi
dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse "l'occhio della camera"
a guardare per lui e a suggerirgli tutto…e ciò che più
lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile
la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare
il pavimento inclinato, l'ombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che
cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura
diretta della realtà, non è difficile intendere. Ne conseguiva
la tabula rasa del costume pittorico del tempo che…aveva elaborato
una partizione del rappresentabile".
E ancora:
"Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora
il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il
commensale dal tavolo, vi rimangono ancora lo strumento di bellezza 'indecifrata',
o il 'pospasto' non consumato: la caraffa smezzata, l'anguria e il melone
affettati, la mela intatta e la pera mèzza, le mosche che saltano sulla
propria ombra". (Roberto Longhi, "Caravaggio", Editori Riuniti, Roma)
Dunque già in Caravaggio la superficie aveva avviato un movimento
proprio: lo specchio aveva iniziato a muoversi indipendentemente da ogni
figura che lo fissava, verso una propria emancipazione che emanciperà
infine lo sguardo stesso da tutti gli oggetti del mondo, non escluso quello
rivolto alla pittura medesima.
Allo sguardo in quanto tale sono indifferenti gli oggetti …….
Resterebbe magari da chiarire come si è concretamente svolto e portato
a compimento - nel periodo industriale e capitalistico - quel movimento
iniziato dallo specchio caravaggesco; ossia, quali sono stati i procedimenti
materiali messi in gioco per completare le separazioni e renderle del tutto
concrete e possibili - benché infine, come paradigmi interiorizzati,
attivano quelle procedure pittoriche che sopprimono il dato certo per negligere
e cancellare i nessi che legano la sensibilità estetica di un'epoca
alla vita materiale, immediata e storica.
41.2 - Benché la pittura non abbia paura della vastità,
non può spingersi oltre lo "schermo", limite del proprio limite, pupilla
e sguardo vuoto sul territorio della non-pittura.
Lo "schermo" tiene la pittura per i capelli: sospesa sopra il baratro nel
quale si smarrirebbe tra tutti gli oggetti del mondo.
Con lo "schermo" la discesa di Orfeo si è spinta troppo avanti,
e l'unico piacere di cui ancora può godere è lo starsene proprio
lì, sul ciglio, a riguardare nell'invisibile la terra fertile della
Pittura che si è lasciata alle spalle.
La forza di andare di Mosè era riposta tutta nell'interdizione ad
entrare in Canaan; la gloria del suo destino è tutta nel deserto.
- Lo stare di Orfeo ospite tranquillo di Euridice - poiché finalmente
adesso sa che ogni ritorno è pericolosamente esposto alla lagna delle
ripetizioni.
Lo "schermo" dunque è la forma più compiuta e raggiunta della
genealogia della "mera superficie".
Ma un passo è ancora possibile; purché abbia il carattere
di un passo in avanti, oltre la soglia della "mera superficie", oltre il sacrificio,
ora che la Pittura non può che attingere fuori da sé stessa
la propria estrema esigenza. Così quello che avviene dopo può
accadere solo fuori dalla "mera superficie", fuori dal quadro e anche dallo
"schermo": ché già è la pittura che si dispone ad essere
preda del mondo .
Allora si compie il triplo salto mortale; e la solita scommessa è
di cadere in piedi, finalmente nel mondo della realtà fisica e sofferente.
Come dire, infine?
per la Pittura è stato fatto tutto il possibile a partire dalla
limitazione della totalità esteriore. (cfr.36.a)
SCOLI SULLO SCHERMO
41.a - (Annunciazione) - La pittura ha potuto raggiungere questa
sua particolare (cruciale e miliare) soluzione soltanto carpendola al di
fuori del suo corpo ormai stremato e quieto.
L'annunciazione doveva provenire da un messo angelico inviato da un altro
luogo; la soluzione rivelata da una nuova e ancora innocente rappresentabilità
che era riuscita a sincronizzare le diverse categorie condivise con la Pittura:
la luce e il colore, l'immagine e la superficie e lo spazio, tutte impastate
con il tempo, e nell'istante offerte all'occhio e allo sguardo.
Così la pittura sorprende, nello sfarfallio cinematografico, la
possibilità di un proprio rinnovato palpito.
(una mossa patetica che proviene da situazioni precedenti e progressive)
41.b - L'esperienza cinematografica è propriamente esperienza
di incessanti congiunzioni e separazioni (clivaggi?) delle immagini con
il piano di proiezione (cfr.38)
; dalle sue modalità circostanziali la Pittura trae ispirazione,
conforto sperimentale e legittimità procedurale per i sui passaggi
che la stanno conducendo verso il limite tendente alla "mera superficie".
(E qui forse risiedono i paradigmi dei paraenigmi di "questo" testo)
41.c - (Riproduzioni) Si raccolgono sempre più prove in favore
del sentimento del selvaggio (ma anche di Poe e di Wilde) che l'immagine
tolga l'anima alle cose riprodotte.
Ora la velocizzazione di questa riproduzione può risucchiare via
l'intera anima del mondo reale per lasciarlo vuoto come una lapide piatta.
L'obiettivo fotografico, cinematografico, elettronico, risucchia come in
un vortice di Maelstrom persino lo spazio tra le cose, gli toglie l'aria,
il respiro; toglie il vuoto e le toglie dal vuoto per rinchiuderle nella
compattezza fotogrammetrica e farne ciò che ne vuole.
E l'obiettivo applicato alla Pittura la prosciuga dall'immagine, dalla
figura, per lasciare il quadro sotto un vuoto pneumatico che - come per
la presenza di un gas illuminante - lo rischiara di un'ultima, estenuata
ed estenuante, aura da opera d'arte.
Allora: come la riproduzione meccanica del mondo reale, togliendo il vuoto,
rende visibile la struttura dell'oggetto, ma così facendo lo priva
di ogni uso, così la riproduzione meccanica della Pittura togliendo
il pieno ne rende concreta la struttura e ne consente l'uso.
(cfr.35.g, 37.e)
41.d - (Cine) - Nella riproduzione filmica il fascio luminoso che parte
dalla postazione del proiettore svela, come in un diagramma delucidante,
la meccanica stessa del fenomeno che si realizza e mentre si realizza, e
mantiene separati (distanti) e del tutto concreti gli elementi in gioco (il
testo della pellicola, l'apparecchiatura di proiezione, lo schermo nel buio
della sala).
Nella sala cinematografica l'interposizione - sempre possibile - dello
spettatore con il fascio luminoso, rivela immediatamente la concretezza
dello spettatore stesso, la sua materialità e fisicità, la
sua esistenza e sussistenza in uno spazio diverso da quello filmico e tuttavia
incidente sulla realtà della riproduzione cinematografica: basta alzare
una mano per accertarsi che si è appunto lì con la propria
opaca fisicità, e scombinare con la propria importuna ombra il travisamento
luminescente dello schermo!
(TV) - Nella riproduzione televisiva la fonte del segnale coincide con
lo schermo che si fa lui stesso luminoso. Il coincidere di quanto era distinto
(nella sala dell'esperienza filmica) in un unico punto che è testo,
apparecchiatura e schermo, inverte e confonde l'ordine cinematografico per
proiettare ora il fascio luminoso (privo però di immagini) sulla
realtà circonvicina e imprimersi nella vita quotidiana. E questo
è il suo lavoro: trasformare la realtà fisica in immagine
(laddove il film e/o la fotografia trasformano l'immagine in una ulteriore
realtà fisica, ovvero non modificano la materia che trattano). Qui
il testo che scorre nello schermo tv prende adesso a illuminare la realtà
di chi ne sta facendo esperienza per sottomettersela quale cosa propria,
segnata: a questo è valso il capovolgimento della lanterna magica.
L'apparecchio televisivo illumina lo spettatore di fronte per abbacinarlo,
proiettandone l'ombra alle spalle, fuori dalla portata del suo sguardo diretto.
Ora l'ombra, la prova della propria tangibilità corporale, dell'atto
gratuito dell'interferenza e del proprio marchio fugace sullo schermo cinematografico,
è fuori dal suo controllo. Le immagini televisive non vengono mai
disturbate e possono proclamare il loro primato sulla materia mentre il corpo
del riguardante si fa evanescente e virtuale, indifferente. L'attività
luminosa del video si estende nella circostante quotidianità, sulle
opere e i giorni, per divenire attività numinosa.
(Il segnale del cinema proviene dalle spalle, da dietro, come lavoro trascorso,
come passato; quello televisivo proviene dal davanti, ossia dall'adesso
- è lo stato attuale delle cose; ed essendo sempre in presa diretta,
ha un presa diretta sull'esperienza e la comprensibilità del quotidiano,
allora del futuro - sorge da diversi passai avanti rispetto al riguardante,
e lo compromette)
41.e - La proiezione cinematografica può essere còlta
come un modello elementare e metaforico dell'esperienza e della produzione
estetica (nella esemplificazione evolutiva della Pittura)
I termini di questa metafora sarebbero il proiettore, lo schermo, il fascio
di luce (come rapporto che lega il produttore di luce al suo proprio opaco
oggetto attualizzato); lo schermo è il campo di attualizzazione con
il quale si opera n sezionamento del rapporto (del fascio di luce proiettato)
e dal quale ne consegue una immagine proiettata piana.
L'apparecchiatura cinematografica, quale apparato biologico del pittore
(nel quale la memoria-conoscenza è il film, ossia il privato, e il
provato) non è nulla senza lo schermo che ne converte l'egoismo.
Ripartizione trinaria:
Macchina motoria lucente - schermo immobile opaco - fascio luminoso fantasmatico
dell'apparato.
È lo schermo sul quale avviene la sezione e proiezione del fascio
luminoso, che consente di trasformare ogni potenzialità dell'intero
apparato nell'attualità delle sensibilità visive.
Lo schermo è l'umano (il sociale) e come tale può anche prendere
a circolare liberamente tra gli uomini come una offerta, e come un'offerta
aprirsi: egli è il figlio da sacrificare per attenuare o redimere
una colpa originaria (il conflitto tra individuo e società - limitazioni
- flauto sufi - ribellione al padre - l'immagine rinnova il atto delle sostituzioni,
dei capri espiatori, di Abramo e dei suoi figli).
Lo schermo è fisicità di contro al film, emblema del pensiero
e del pensabile, che però solo tramite lo schermo può farsi
pensiero pensato, sottratto al buio nell'istante di frenata della velocità
della luce.
41.f - È dunque attraverso l'esperienza cinematografica che
la pittura prende atto che si può consumare realmente un divorzio
definitivo tra la superficie e l'immagine.
Per condurre a compimento tale separazione (clivaggio, sfaldatura) occorreva
prima dimostrare la possibilità sperimentale e cogliere l'immagine,
il fondo e la superficie come cose separabili; soltanto in seguito queste
possono iniziare ad allontanarsi l'uno dall'altro per inseguire il proprio
destino.
Così, trovata infine (concretamente) la mera superficie come "schermo"
(ospite) questa si pone adesso come l'ultima e la prima risorsa della pittura.
Da adesso in poi anche l'immagine avrà una propria vita, incistata
nel fascio luminoso solo l'incidete e il caso ce la potrà rivelare.
(così sembra trovare anche forma concreta, storica e tecnologica,
la definizione data da L.B. Alberti alla pittura come intersezione della
piramide visiva)
INTERLUDIO
42.0 - Mi rendo conto di aver parlato della pittura come se fosse sottratta
all'azione degli uomini, degli artisti; quasi procedesse attraverso autonome
azioni, intraprese nonostante il pittore; come posta con un propria vita
all'interno del sistema dell'arte nel quale va cercando un propria dove collocarsi
come un feticcio assoluto. Non si creda che si voglia minimizzare o annullare
il ruolo dell'artista con un'azione di materialismo grossolano che affiderebbe
tutto a delle forze sociali, ossia culturali, che procedono o procederebbero
attraverso passaggi obbligati quanto deterministici. D'altronde soltanto
se prende a camminare con le proprie gambe l'opera raggiunge l'arte. Ma l'opera
può camminare soltanto se è compitamente svolta; e per compiutamente
svolgersi deve anche liberarsi dalle illusioni dell'autore, che vorrebbe
tenerla presso di sé sistemata in casa.
*
Magari l'opera invece gli si ribella, proprio come in Pinocchio, per andarsene
per il mondo - anche se poi finisce nel ventre buio della balena: sempre
meglio che nel ventre peloso del collezionista.
*- "La critica fondata sul culto della personalità è fragile…Personalmente,
credo che nell’opera d'arte ci sia qualcosa di più obiettivo,
che può essere oggetto di scienza. La storia è fatta di avvenimenti
e non di intenzioni; la storia dell'arte è storia delle opere e non
degli uomini". [Pierre Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento
al Cubismo (1951), Giulio Einaudi Editore, Torino 1957, pag. 115].
42.1 - Nella serie delle reciproche emancipazioni dell'opera, e allora
dell'artista (poiché l'opera liberandosi dell'artista libera l'artista
dall'arte, il pittore dalla pittura, per riconsegnarlo all'uomo generico,
ossia per porlo nuovamente in un momento germinale, sciogliendolo dalla
dannazione dello stile)…Nella serie delle reciproche emancipazioni,
dicevo, anche il Testo ("questo" testo) si emancipa dalla critica e dall'oggetto
del quale inizialmente ha preso a trattare, per farsi una propria vita in
quanto testo, in quanto scrittura. (cfr.41.b)
Allora la critica d'arte (la critica della pittura) diventa l'arte della
critica (la pittura della critica), diventa ermenautica.
E magari così la Pittura, come Pinocchio nel ventre buio della balena,
trova pure il lumicino di una nuova categoria estetica generale, lo spiraglio
per una diversa sensibilità che la faccia ritornare in superficie.
Come lo schermo si è svincolato dall'apparecchiatura cinematografica,
anche il parlare dello schermo in questo suo scivolare via, scivola esso
stesso via dallo schermo: e come potrebbe altrimenti, trattando di una superficie
ormai senza appigli?
Se col primo spostamento lo schermo si conosce in quanto schermo (come
un Narciso cieco), la critica dello schermo (come ospite) trova la "mera
superficie" in quanto tale (momento germinale del tutto materiale della
pittura).
E poiché un Narciso cieco non è altri che un Tiresia veggente,
la "mera superficie" - raggiunta dalla critica attraverso tale specifico
percorso - è la condizione tragica dalla quale ripartire, o nella
quale restare (dipende dal pittore), che però ormai necessita di una
nuova definizione della pittura (certamente per una determinata pittura
- bisognerebbe infatti portare avanti e sviluppare l'analisi su altre linee
della pittura contemporanea) con la quale si ritrova l'arte - la pittura
- ma non è più quella di prima: neppure Raffaello si ritrova
Raffaello dopo Malevic.
|
LA SUPERFICIE IN PITTURA
7
La superficie come ospite, ovvero lo schermo
|
43.0 -
Se le opere dei pittori indicati in 40.0 si dispongono
variamente attorno al punto limite della "mera superficie" per rendercela
visibile sotto le specie di "ospite" o di "supporto" (ma se non è
chiaro telefonatemi pure a casa, o scrivetemi), resta ancora da dimostrare
che quanto accennato sulla "schermo" abbia trovato realiter una sua
specifica forma pittorica, tale che tutto questo ragionare non cada fuori
delle concrete pratiche artistiche?
Allora diciamo
subito che è merito di alcune opere di Fabio Mauri averci infine offerto
la possibilità di rendere tangibile la categoria dello "schermo"
in pittura; ma anche - a riprova dei passaggi bronzei previsti da questo
specifico cammino - di avere svolto poi, del tutto conseguenzialmente, le
prove ulteriori che lo "schermo" si riserva e implica.
Adesso possiamo
dare a Fabio quello che è di Fabio e allo schermo quello che è
dello "schermo", raccogliendo diversi appunti scritti attorno al 1975 -
una parte dei quali è stata nel frattempo pubblicata nella citata
monografia di Mauri del 1994.Nella versione che segue i brani pubblicati
in quella redazione, sono segnalati con la sigla fm. seguita
da un numero, racchiusa tra parentesi quadre; es. [fm.21], dove il numero
rappresenta l'ordine dei brani nella pubblicazione citata.
43 - Quando
ciò che lo schermo rinvia è indovinato come puramente casuale,
si introduce un dato che prende a far vacillare ogni certezza che non sia
lo schermo stesso, e con ciò lo si fonda come unica realtà
oggettiva, immutabile, nel tempo essendo sempre uguale a sé stesso;
posta l'antinomia la negazione di un termine non può che confermare
l'altro. [fm17]
44 - Data
l'immagine filmica e lo schermo, l'esplorazione combinatoria delle loro
possibilità casuali non può che giungere presto all'unico
altro caso che rimane: quando lo schermo si sottrae al flusso numinoso delle
immagini e lascia che il fascio luminoso sospinga l'immagine verso l'infinito
e la consunzione. [fm16]
Questo sottrarsi
sancisce un divorzio che si è reso possibile soltanto se fin dall'inizio
lo schermo e l'immagine sono due entità autonome. Solo quando il
divorzio si fa definitivo lo schermo inizia a giocare un proprio ruolo esclusivo,
pur senza ostentare la sua preminenza; e i nuovi incontri con le immagini
cadranno sotto le leggi ostili dell'ospitalità. (rimane da chiedersi
cosa fa l'immagine quando non incontra lo schermo?)
45 -
La rappresentabilità della fantasmagoria vorticosa delle immagini
si rende possibile solo per mezzo di un candido schermo, che nella immacolatezza
del suo porsi tutte le immagini inferisce e provoca [fm14]; non certo come
il futurismo, che prende sul serio l'illusione di rappresentare appena, con
una convenzione grafica, la dinamica della impressioni retiniche
(ved.scoli Fut.)
46 - Lo
schermo, sciolti i legami con l'apparecchiatura, non è più
un piano di proiezione cinematografica. Il compito che si rivela non è
più quello - che in un primo tempo lo aveva abbacinato - di rappresentare
il fenomeno del cinema nelle sue determinazioni particolari e altamente
accidentali, ma quello di porsi come categoria spaziale del pensiero fuori
da ogni tempo. Di imporsi quale condizione essenziale per attualizzare il
pensato e il pensabile. E' un'opacità del tempo che solo può
dare forma alla memoria, rivelarla ai sensi, sia pure nella confessa incapacità
di prolungarne l'attimo, il momento involontario, decisivo a volte, se non
tramite la riconversione cleptomane della fotografia che inverte il movimento
dissolutore, l'andamento inarrestabile del flusso dei segni.
[fm18]
Lo schermo diviene
la base materiale sulla quale l'immagine e la luce trovano, finalmente,
riposo: il loro determinato riposo.
47 - Andandosene
liberamente tra gli uomini, lo schermo è una provocazione in atto:
cioè, reclama ogni e qualche risposta; ed è un atto
di provocazione: cioè, rifiuta ogni risposta.
Egli è
categorico nella sua estrema illimitata disponibilità e indisponibilità.
È talmente sottile che ha escogitato un metodo sicuro per porsi al
riparo e prevenire le indagini sul suo conto. Pone delle domande alle quali
egli solo può rispondere; ma risponde con enigmi per sottrarsi così
ad ogni inchiesta che sa perniciosa alla sua salute - offre gli enigmi per
indaffarare gli uomini, mentre il suo pensiero intossica la stanza.
Non scende a patti
con altri segni. Ma paradossalmente - e forse neppure tanto - questo suo
porsi contro i segni è la sua condizione per sottomettersi illimitatamente
a tutti i segni illimitati.
La sua voglia
nascosta (e tanto ha il pudore di mostrarla che a sé stesso persino
la nasconde) è d'essere posseduto interamente e perpetuamente da
tutti i segni e da tutti i capricci ideologici senza concedersi interamente
a qualcuno.
La sua ambizione,
che lo divora, è la polisemia.
Le sue prestazioni
vanno sotto il segno della sregolatezza: egli non può possedere nessuna
regola, è però dominato dalla legge dell'ospitalità
- ma non la possiede: ne è posseduto (cfr.
35.e) .
O forse può
possedere solo la regola dell'azzardo; la stessa del giocatore - per il
quale non vi è regola rispondente, e per questo, sempre con rinnovato
ardore, pretende farsene - per il quale ogni atto è sempre svincolato
dai precedenti e dai futuri. (la regola dell'azzurdo)
E se tutti questo
sono i preliminari per la morte, lo sono pure per una esistenza liberata
dall'esistenza, sottratta al caso e sottomessa alla necessità dell'istante
- e l'istante sconfigge il caso, poiché non consente (concede) opzioni
(sostituzioni), ma solo altri istanti che non lo riguardano già più.
Lo schermo, invero,
è anche una minaccia: è sempre pronto a rendere tangibile
ai sensi il nostro pensiero - è la cattiva coscienza (di chi si sa
corruttibile).
Desiderando concedersi
a tutti, lo schermo non può che privarsi di ogni prerogativa selettiva;
non predilige nessuno e non condanna nessuno - neppure lui osa scagliare
la prima pietra: geme di essere posseduto.
Così la
sua depravazione sostanziale rende necessaria la sua castità virginale
- da qui la sua forma enigmatica.
48 - Sia
lo schermo che l'ospite hanno un doppio senso.
L'ospite è
colui che accoglie (che riceve - concavo) ed è al tempo stesso colui
che viene accolto (che si offre - convesso). L'ospite è lo straniero
amico e l'amico ostile.
Anche lo schermo
designa tanto un piano di proiezione (che riceve - concavo) una realtà
antistante, ma indica anche un piano opaco per una realtà retrostante,
sottratta all'occhio (convessità scivolosa allo sguardo). È
al tempo stesso un rivelatore di immagini e un offuscatore di immagini,
un impedimento alla visione profonda (cfr. scolo
39.f.3) .
Così nelle
loro medesime parole si esprimono le unità specchianti, gli antagonisti
si conciliano mentre i concilianti si antagonizzano.
49 - Lo
schermo è l'ospite, e l'ospite è il visitatore: è lo
schermo.
(La mera superficie
come ospite, ossia lo schermo)
L'ospite è
sicuro della propria esistenza e consistenza: egli si sa. Ma sapendosi in
quanto ospite si sa incernierato come la porta di Duchamp (che chiudendosi
apre e aprendosi chiude) sul proprio asse di simmetria; egli si racchiude
tutto lì, in questo luogo della consapevolezza che è una valvola
cardiaca dell'andare e del venire, dei flussi palpitanti del suo segreto
cuore (cfr. 39.e)
.
L'ospite è
tale solo se il visitatore l'attualizza penetrando nella sua aura ospitale;
altrimenti non è più tale, ma neppure il visitatore sarà
visitatore, ossia: l'ospite non è più l'ospite.
L'ospite non sarà
ospite se il visitatore non sarà visitatore.
Reciprocità
- il celibe si fa pretendente si sé stesso. Sebbene analiticamente
(nei ruoli) si presentano uno all'altro come due unità contrapposte
e distinte (dunque: op-stili) la loro esistenza è complementare una
all'altra, l'una dall'altra dipendente, l'una dall'altra e l'una nell'altra
risolventesi e dissolventesi.
Impassibile l'ospite
deve subire il visitatore, se ospite vuol rimanere: e viceversa. Entrambi
non possono evitare l'incontro verso cui si mobilita tutta la loro esistenza
- sebbene il loro reciproco odio diviene di giorno in giorno tremendo e
palese; la loro condanna è nella perenne riconciliazione: e questo
li ammorba.
Lo schermo, come
l'ospite, è disposto a tutto e invoca l'incontro senz'altro, comunque:
pena la sparizione.
Allora non è
un campo potenziale ma attuazionale di tutte le voglie; è il pervertimento
del pensiero - è la zona di pervertimento del pensiero e dell'azione
[fm24,25]
.
È un vuoto
infettato; portatore sano d'ogni immagine; autoimmunizzato contro le sue
stesse seduzioni: perciò più infido
[fm23] .
Come un bordello
estremamente sguarnito è però sempre pronto a ospitare tutti
quelli che casualmente e causalmente passano nel vicolo [fm26].
Insomma: è
il deserto tebaidico di sant'Antonio.
50 -
Lo schermo, oramai ospite incontinente, si rifiuta, per costituzione o istituzione,
di trattenere più a lungo il visitatore oltre l'attimo fuggente dell'incontro
(ossia: oltre l'attimo in cui si è incontrato con sé stesso,
rivelato a sé stesso come ospite e visitatore.
Il suo desiderio
di assolutezza lo condanna all'estrema solitudine dello scialacquatore che
consuma sé stesso in questi lampi accecanti.
Amministra la
propria abbacinante nudità con l'oculatezza dei parsimoniosi e prende
a vivere interamente la sua condizione (convinzione?) di insostituibilità
in tutte vicende che le contingenze gli intrecciano attorno: da loro, lui,
finalmente libero.
Nella sua originaria
passività ha con insistenza e silenziosamente perseguito un proprio
intimo progetto di redenzione: il "The End" già si palesava proponimento
di mai più concedersi , e al contempo premonizione sicura al raggiungimento
della libertà - quando la pellicola è tutta passata, tutta
avvolta nella spirale della durata.
. L'unica condizione
per compierla era riposta nello scivolare via repentinamente dal flusso
luminoso di immagini: farsi negare come ospite di visite inquietanti ("Buon
angelo, Maria non c'è. Passi un'altra volta; vedremo di redimerci
per nostro conto").[fm19]
Ma la sua verginità
finalmente conquistata è provocazione continua. Il suo bianco vestito
attira irresistibilmente, come una finestra illuminata nella notte, miriadi
di falene accecate e impudiche che vi si precipitano per schiacciarsi sul
vetro e morire in quella trappola mortale.
Il suo candore
- forse morale? Calvinista, allora meglio: giansenista - si va svelando
come la forma più sottile del peccato reso enorme dal mascheramento
dell'immacolatezza.
Questo candore
esposto a tutti geme di concedersi.[fm20]
Non è un
segno perché li è tutti; oppure è il segno di tutti
i segni possibili, il loro centro di gravità, l'occhio del tifone
e il cuore vuoto del polifemo. Il che equivale a dire che è l'ultimo
segno o li precede; che intanto è il loro fondamento materiale in
quanto, pur essendo materiato, è negazione d'ogni determinata
loro materialità. [fm21]
Non ha un'ideologia
perché le ha tutte. La quale è pur sempre un'ideologia, ma
la più laida.[fm22]
51 - La
pittura come schermo, e viceversa, non è il risultato di una rinuncia
(di una sospensione o di una interruzione dei rituali), ma precisamente
il contrario: è proprio la soluzione pittorica di una incapacità
di rinunciare ad alcunché; è la forma di un eccesso, di una
dismisura, la voracità di rappresentare immediatamente il mondo intero
nella sua propria voracità di rappresentazione; è il vuoto
bulimico del ventre del mondo (cfr. 9)
.
52 - La
pittura, adesso, può anche accadere: però non è detto.
Come ogni diritto
non si porta appresso l'oggetto cui dà diritto (altrimenti che diritto
sarebbe?), così il diritto dello schermo all'immagine non si porta
appresso l'immagine. Allora lo schermo, proclamando il proprio diritto all'immagine
ne confessa la penuria,
Lo schermo deve
rimanerne sguarnito proprio per consentire sempre questa sua propria possibilità,
per continuare ad averne sempre diritto, per essere questo diritto incarnato
(cfr. 24, 25)
.
La mera superficie
rimane l'opera irriducibile; è l'opera e il prius. L'opera non è
più la rappresentazione del mondo: e il mondo stesso della rappresentabilità
(cfr. 36.a)
.
Le condizioni
affinché tutto questo si manifestasse palesemente, affinchè
si rendesse anche materialmente possibile, potevano essere offerte alla
pittura solo in una fase storica nella quale anche i rapporti tra gli uomini
e le cose si oggettivassero, si staccassero dagli oggetti; e se il rapporto
si oggettivizza, gli oggetti si rapportizzano.
53 - Non
è qui il caso di esaminare quale potrebbe essere il paradigma sociale
interiorizzato che è alla base della "mera superficie" e dello schermo
come ospite nella sfera della produzione pittorica attuale.
[A tale proposito,
per le parti riguardanti le omologie tra superficie e forme economiche cfr.
"L'azzardo omologetico" negli estratti pubblicati nell'
Imprinting del settembre 1976]
È invece
da aggiungere che lo schermo, emancipato da una sudditanza che lo voleva
ospite per forza, è andato emancipando termini ormai non più
interdipendenti della macchina da proiezione o apparecchiatura, del fascio
luminoso, del film: memoria e tesoro d'immagini, conchiuso universo linguistico
di cui la fine è nota (sicura).[fm.27]
E questi altri
termini diventano di fatto i protagonisti di altre vicende della medesima
storia; e nel loro sviluppo rendono probante quanto fin qui detto. Ossia:
le vicende successive sono strettamente conseguenziali e tirano dentro Fabio
Mauri.
54 - E
i fatti successivi disvelano e provano, sopra ogni legittimo dubbio, che
gli schermi di Mauri possedevano ab ovo una vocazione ospitale, di
contro all'altra vocazione della "mera superficie" di essere un supporto
o tornare ad essere un motivo.
A conclusione di questa parte, possiamo anche aggiungere che
gli schermi di Mauri sono i prototipi incarnati e sviluppati della
vocazione stessa all'ospitalità della "mera superficie", nella quale
si risolve una linea della pittura contemporanea.
...continua
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L'uomo in
nero ha gettato via il pennello nel porto di Sode, perché alte onde
lavino la vergogna dello scrivere.
Dalla stele di pietra fatta erigere da Sangai di fronte al suo eremo di
Kyohakuin all'inizio dell'estate dell'anno del Drago dell'era Tenpo (1832).
Sangai non potè portare a termine l'epigrafe sulla propria "incapacità"
perchè nessuno l'avrebbe presa seriamente. |
Il recupero dei brani sulla mera superficie non è completato e il
testo non è ancora definitivo (agosto 2001)
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