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UN CASO PARTICOLARE DI "MERA SUPERFICIE" COME OSPITE . Gli schermi di Fabio Mauri 1959-1972 . Apparso  in “Fabio Mauri - opere e azioni 1964/1994“, ediz. Giorgio Mondadori, Roma 1994, il testo  è ricavato da una serie di glosse e appunti stilati tra il '72 e il '75 . Consegnato nel 1975 a Fabio Mauri rimase inedito fino a quando venne inserito nella sua monografia, pubblicata in occasione della sua personale alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Le parole tra parentesi quadre sono correzioni a dei refusi o omissioni tipografiche . Leggi il testo integrale .
Un caso particolare di "mera superficie" come ospite ci viene offerto dalla vicenda degli schermi di Fabio Mauri, nel loro intero svolgersi o evolversi.
Già dagli anni '50 il fenomeno del cinema è divenuto l'oggetto preminente delle attenzioni di Mauri. Lo schermo si contrappone al proiettore, ma l'interdipendenza è la loro condizione di esistenza; l'uno e l'altro sono potenzialità che solo reciprocamente e al tempo stesso possono attualizzarsi. Mauri si pone decisamente fuori dalla macchina e dallo schermo per immergersi nel loro luminoso rapporto e smarrirsi nello stupore dell'incontro impalpabile delle immagini con lo schermo.
I disegni e i quadri di questo periodo sembrano simulare infatti la proiezione di immagini filmiche. Figure offuscate in un candido campo rigorosamente delimitato da una fascia scura che ne arrotonda gli angoli: una compattezza luminosa oltre la quale è il buio dell'incoscienza o dell'impossibile. Ho detto 'sembrano' perché in questo caso "simulare" è estremamente riduttivo. La mimesi delle immagini priettate, la loro definitiva fisicità e sistemazione nel campo è più una svista, la seduzione, il cedimento forse, al clima culturale di quel tempo, non il riflesso corrispondente ad una intenzionalità che avrà bisogno di tempo per sciogliersi dalle pressioni del momento e dal piacere della pittura. Questa intenzionalità è invece qualcosa di totalmente opposto alle forme con le quali presume manifestarsi, ed è ancora per poco velata dalla presenza di segni che di già stanno subendo un lento ma regolare drenaggio dalla superficie-schermo.Il processo che porta alla raggelata fissità degli schermi - così come andranno risolvendosi con sempre maggiore insistenza fino al 1972 con "Warumein Gedanke einen Raum verpestet?" (1972) - ha dunque al polo estremo, d'origine, ancora la calda mobilità del gesto della pittura; e se non del colore (ché già l'antinomia è posta tra bianco e nero) della luce e dell'ombra, le quali andranno sempre più separandosi come due contrapposte categorie che si riveleranno col tempo come categorie dello spirito.
In tutta la vicenda degli schermi (o forse dello schermo?), quelli in legni bianchi a getto e in "legno nero a getto", quello denominato Film e lo schermo Bemby, si pongono tutti come indici chiari e premonizioni della loro forma [risoluta e] risolutiva.
Quando ancora nel '64 si ripropongono immagini decalcomanate (sullo schermo) o forme geometriche, queste sono sempre sotto il segno della fine, del "The end", ma testarde vi permangono ancora forse solo per una pura indolenza dell'occhio - o dello schermo, timoroso dell'imminente distacco: titubante se far dipendere la propria esistenza da queste (che pure incessantemente l'abbandonano) o vivere fino in fondo il suo categorico biancore.
La prova che gli schermi tendono fin d'allora a nulla voler spartire con la simulazione della proiezione filmica è da ricercare principalmente nel loro futuro; cioè alla condizione di rivedere proprio come in un film svolto alla rovescia tutta la loro vicenda.

Infatti le serie degli schermi si rivelano quasi subito per ciò che vogliono essere (anche a dispetto, forse, del loro autore) al di fuori di ogni indulgenza verso il loro occasionale referente (lo schermo cinematografico), cioè come veri schermi, segni di sé stessi. E come tali essi non possono trovare una loro ragione nella poetica pop dominante in quegli anni. Se equivochi possono sorgere a questo proposito essi sono dati dall'avere in comune con gli schermi delle sale cinematografiche, la stessa denominazione.
Mauri inizia sempre dalla fine, dal "The End". E la fine della fine riconverte l'ultimo nel primo, il passato nel futuro. Vedere il film dalla fine comporta scoprire la continuità dell'intreccio, il crescere delle negazioni; gli attimi che precedono smagati dai successivi perché antevisti, risolti senza le scorie inutili, infeconde, se gli presti attenzione. Scorrere la serie degli schermi dalla loro più recente forma comporta indovinare che il cruccio di Mauri è sempre stato - anche a sua insaputa - un "rapporto" (non le cose tra cui esso intercorre); quindi qualcosa di non-fisico, non-oggettuale, e specificatamente il rapporto tra idea e materia, tra immaginazione e realtà. Forse, involontariamente, il rapporto tra produttore e prodotto, tra desiderio e appagamento. Ma anche vi si sorprende annidata l'idea essere il linguaggio la catena perversa del mondo degli uomini; il film emblema ed enigma del predestinato vivere ed immaginare….

La fantasmagoria vorticosa delle immagini filmiche le rende irrapresentabili. Così la loro rappresentabilità si rende possibile solo per mezzo di un candore che tutte le immagini inferisce e provoca.

Non ci si deve quindi soffermare sulla presenza di segni nella superficie-schermo, anche se, in molti disegni e quadri degli anni '50 e '60, essi sono pur presenti.Come si e' detto, l'intuizione che è alla base dello schermo è ancora per un momento incapace di sottrarsi alla seduzione della pittura. Ma ci si accorge agevolmente che tali segni sono corpi estranei, violentatori dello schermo, votato per sempre ad un celibato che gli consente solo incontri fastidiosamente casuali. Ed è il "caso" - come categoria e come prassi - che Mauri coltiverà come un mistero estetico.
Data l'immagine e lo schermo, l'esplorazione combinatoria delle loro possibilità casuali non può che giungere presto all'unico altro caso che rimane: quando lo schermo si sottrae agli eventi dell'immagine per slittare in una vota senza più occasioni e senza caso.
Quando ciò che lo schermo rinvia è indovinato come puramente casuale, si introduce un dato che prende a far vacillare ogni certezza che non sia lo schermo stesso, e con ciò lo si fonda come unica realtà oggettiva, immutabile, nel tempo essendo sempre uguale a sé stesso; posta l'antinomia la negazione di un termine non può che confermare l'altro. In precedenza è stato necessario dimostrare la casualità delle immagini, o almeno indicare nel loro avvicendamento l'istituto storico, cioè contingente, così da porsi nella condizione di poterle negare - se la volontà si sa propensa a tale loro negazione.
Lo schermo, sciogliendo i legami con l'apparecchiatura, va svelandosi a sé stesso non più come segno dello schermo cinematografico; non si sente più al posto di quello nel codice della pittura.
Il compito che si rivela non è più [quello] di rappresentare il fenomeno del cinema nelle sue determinazioni particolari e altamente accidentali, ma quello di porsi come categoria spaziale del pensiero fuori da ogni tempo. Di imporsi quale condizione essenziale per attualizzare il pensato e il pensabile. E' un'opacità del tempo che solo può dare forma alla memoria, rivelarla ai sensi, sia pure nella confessa incapacità di prolungarne l'attimo, il momento involontario, decisivo a volte, se non tramite la riconversione cleptomane della fotografia che inverte il movimento dissolutore,  l'andamento inarrestabile del flusso dei segni.
Lo schermo, oramai ospite incontinente, si rifiuta, per costituzione o istituzione, di trattenere più a lungo il visitatore - oltremodo inopportuno, ma essenziale per la sua propria esistenza l'attimo dell'incontro. Il suo desiderio di assolutezza lo condanna all'estrema solitudine dello scialacquatore.
Amministra la propria abbacinante nudità con oculatezza e prende a vivere interamente la sua convinzione di insostituibilità in tutta vicenda che le contingenze gli intrecciano attorno: da loro, lui, finalmente libero.Nella sua originaria passività ha con insistenza perseguito un progetto di redenzione: il "The End" ricorrente si palesava proponimento e al contempo premonizione sicura della sua raggiunta libertà. 
L'unica condizione per compierla era lo scivolare via repentinamente dal flusso luminoso di immagini: fasi negare come ospite di visite inquietanti ("Buon angelo, Maria non c'è. Passi un'altra volta; vedremo di redimerci per nostro conto").
Lo schermo si sottrae alle contingenze, al caso. Pur realizzando con questo sottrarsi l'ultima, anch'essa casuale, soluzione combinatoria (o la prima?). Ma la sua verginità finalmente conquistata è provocazione continua. Il suo bianco vestito attira irresistibilmente, proprio come la luce, miriadi di falene [che] accecate e impudiche ci si schiacciano e muoiono. Il suo candore - forse morale - si va svelando come la forma più sottile del peccato reso enorme dal mascheramento.
Questo candore esposto a tutti geme di concedersi.
Non è un segno perché li è tutti; oppure è il segno di tutti i segni possibili. Il che equivale a dire che è l'ultimo segno o li precede; che intanto è il loro fondamento materiale in quanto è negazione d'ogni determinata materialità.
Non ha un'ideologia perché le ha tutte; la quale è pur sempre un'ideologia, ma la più laida.
E' un vuoto infettato; portatore sano d'ogni immagine; autoimmunizzato contro le sue stesse seduzioni: perciò più infido.
Non è un campo potenziale ma [di] attualizzazione di tutte le voglie.
La zona di pervertimento.
Come un bordello estremamente sguarnito è però sempre pronto a ospitare tutti quelli che casualmente e causalmente passano nel vicolo...
Ecco, infine, che gli schermi di Mauri disvelano la vocazione ospitale della mera superficie,  di contro all'altra vocazione di essere (o ritornare ad essere) un supporto.
Non è qui il caso di esaminare qual è il paradigma sociale interiorizzato che è alla base dello schermo nella sfera della produzione pittorica. A tali propositi, per le parti riguardanti le omologie tra superficie e forme economiche cfr. "L'azzardo omologetico" negli estratti pubblicati su Iprinting I, settembre 1976.
È invece da aggiungere che lo schermo, emancipato da una sudditanza che lo voleva ospite per forza, è andato emancipando termini ormai non più interdipendenti (e viceversa): la macchina da proiezione o apparecchiatura, il fascio di luce, il film: memoria e tesoro d'immagini, conchiuso universo linguistico. Ma questi sono protagonisti di altre vicende della medesima storia.

Il testo pubblicato finisce qui

Fabio Mauri . Fine rosso, 1963-64, tela, collage, tempera e legno, 51x60, - Serie Warum... , 1972, legno, carta, letraset - Intellettuale, 1975 (Il Vangelo secondo Matteo" di/su Pier Paolo Pasolini)

Lo scritto integrale è composto in gran parte da alcune glosse marginali ad un catalogo di opere di Mauri pubblicato nel 1969. Il catalogo non è più disponibile, e questo non mi consente di essere puntuale nei riferimenti alle opere cui alludo. Ma importa poco; quello che importa invece è il movimento, più che i singoli fotogrammi; e questa non è una affermazione solo ideologica, ma scaturisce dalla natura stessa dell'oggetto di cui si sta trattando. I brani estratti per comporre il testo pubblicato nella monografia di Fabio Mauri, sono qui indicati da un numero preceduto dalla sigla fm tra parentesi quadre; es.[fm.12]; le cifre tra parentesi tonde si riferiscono alla numerazione dei brani del testo "La superficie in pittura".

Appunti sugli schermi di Fabio Mauri dal 1959 e il loro sviluppo dopo il 1972

Un caso particolare di "mera superficie" che si risolve compiutamente come ospite è offerto dagli "schermi" di Fabio Mauri. Si tratta di una serie di numerose opere che coprono gli interi anni 60, per trovare un loro coronamento nella serie "Zeich.En.Ung" del 1972 (cfr. 25 e 26). 
La prova che gli schermi di Mauri tendono fin dall'inizio a non voler spartire nulla voler spartire con la semplice simulazione pittorica della proiezione filmica (contrariamente a Schifano, che non ha fatto altro) è da ricercare principalmente nel loro futuro; ossia alla condizione di rivederne l'intera vicenda proprio come in un film, nella durata e nel movimento dei singoli fotogrammi, epperò svolgendolo alla rovescia, come sotto una luce teologale [fm8]. 
E non è un caso che Fabio inizia sempre dalla fine, dal "The End". E la fine della fine riconverte l'ultimo nel primo, il passato nel futuro. Vedere il film dalla fine comporta scoprire la continuità dell'intreccio, scorrere il crescere delle negazioni che invece affermano; vedere gli attimi che precedono smagare i successivi, perché antevisti, risolti senza le scorie inutili delle emozioni: infeconde, se gli presti attenzione.[fm.11] 
L'ultima immagine di un film visto in tal modo, riconsegna lo spettatore alla realtà fisica, perché lui era lì, all'inizio dei travisamenti. Ecco perché ripartire dalla fine lo trasforma da vedente in veggente: egli trascura l'inessenziale e coglie la traiettoria e il bersaglio, come in un balzo, nel suo occhio anestetizzato e sornione. 
Detto questo, adesso possiamo iniziare anche dal principio, e dire che il processo che porterà alla raggelata fissità degli schermi del 72 di "Warum...", ha al polo estremo - all'inizio, dunque -  ancora la calda mobilità del gesto della pittura, pur se non più del colore. Ché già l'antinomia è posta dal bianco e dal nero; che poi si andranno sempre più separandosi come luce ed ombra per tornare infine ad essere complementari nelle proiezioni [fm 3,4]. 
I disegni e i quadri della fine degli anni 50 "sembrano" simulare ancora la proiezione di immagini filmiche. Figure offuscate in un candido campo rigorosamente delimitato da una fascia nera che ne arrotonda gli angoli e rafforzare in tal modo una compattezza luminosa oltre la quale vi è il buio dell'incoscienza e/o dell'impossibile [fm1]. 
Ma la mimesi di queste immagini proiettate da una virtuale apparecchiatura cinematografica sulla superficie pittorica, non ci convince del tutto; quando si mostrano dei fatti dominati dalla costellazione del provvisorio, ogni presenza non può che essere passeggera, pur se storicamente determinata. (vedi immagini del catalogo p.57,58). 
Alla pura casualità gestuale del 59 subentra la ragione dell'ordine; alla pittura subentra la composizione, la scansione del campo, all'indice subentra il segnale, alla sostanza del contenuto la forma del contenitore. E intanto la direzione d'uscita dalle gherminelle rappresentative dell'esperienza cinematografica (intesa anche come industria e impresa: p.40-43) è segnata dagli schermi in legni bianchi e neri a getto (p. 38,39), di quello denominato Film (p.44) e dello schermo Demby, che intanto si pongono come indici chiari e cuspidi premonitive dell'oggetto proprio verso cui gli schermi tendono e nel quale troveranno la loro forma risolutiva, ancora per poco velata dalla presenza spuria del "motivo", che intanto sta subendo un lento ma regolare e irreversibile drenaggio dalla superficie [fm.5,2]. 
E quando ancora nel '64 (dopo i monocromi a getto) si ripresentano immagini decalcomanate, queste sono sempre sotto il segno della fine, del "The end"; ma allora, se ancora testarde ritornano per permanere, è proprio solo e appunto per una ultima indolenza dell'occhio, o per un intimo timore dello schermo, incerto sulle conseguenze del definitivo distacco dai segni; indeciso nella scelta di un futuro vuoto nel quale la propria esistenza non dipenderà più dalle immagini - che pure incessantemente lo abbandonano - o vivere fino in fondo il proprio categorico biancore [fm.6,7]. Ora le immagini non nascono dalla superficie, ma vi si adagiano provenendo da un altrove che è alle spalle, o nella memoria del riguardante. Allora esse sono le marcature di un campo fenomenico altrimenti sottratto all'attenzione, e per il quale, la permanenza di queste immagini è dovuta solo all'inerzia oculare indotta dall'indulgenza al passo dei tempi; l'intuizione che è alla base dello schermo è ancora per un momento incapace di sottrarsi alla seduzione del decorativismo dello stile. (p.18,19,20) [fm 15] 
Vi sarà bisogno di altro tempo ancora - e di altri tempi - per liberarsi definitivamente dai pregiudizi - e dal piacere - delle immagini; da questa ultima marchiatura dell'immagine - e sempre più spesso è il nero che inizia a dominare, come fosse appunto prodotto da bruciature. (p. 30,31) 
E ben presto gli schermi di Fabio si riveleranno per ciò che vogliono essere, che aspirano a divenire, fuori di ogni indulgenza verso il loro occasionale referente (l'esperienza cinematografica), e cioè come veri schermi, irriducibili e senz'altro [fm9]. 
Ma in quanto tali essi non possono trovare una collocazione all'interno della poetica Pop dominante in quegli anni. E se a tale proposito possono insorgere degli equivoci (magari anche alimentati da Fabio stesso, vedi Cassetto Barilla), essi sono favoriti dall'avere in comune con le sale cinematografiche solamente la medesima denominazione di schermo [fm.10]. Contrariamente alla Pop, che si costruisce su di un orizzonte oculare, frontale e sociologico, qui l’orizzonte è ipofisario, alle spalle e ideologico (la Pop è raffigurazione di seconda derivazione del mito sociale e urbano, mentre lo schermo di Fabio cerca un suo posto alla base stessa di tale mito per sottrarsi alle contingenze e rendersi irriducibile – base materiale imperturbabile sulla quale tale mito scorre via mentre il resto – il residuato decorativo -  è affidato ai tagli casuali che lo schermo opera sul corpo vivo dei flussi mitici.(p. 60, Sinatra) 
Quando proprio tutto può essere proiettato sul deserto verticale della superficie pittorica, il rituale delle visitazioni tende ad estenuarsi. Ma dopo aver assaporato il piacere della solitudine anacoretica e celibe, lo schermo diviene insofferente ad ogni intrusione; allora occorre assumere i rigori delle leggi dell’ospitalità. Lo schermo è condannato dalle sue stessi leggi  ad un celibato che gli infligge soltanto appena l’eventualità di incontri provvidenziali, nell’indifferenza reciproca e fugace delle intersezioni luminose con i corpi opachi che scivolano via nello spazio compreso tra la superficie e le provvidenziali fonti luminose. E le immagini divengono ombre casuali. Con il che, anche la questione della luce in pittura viene risolta e riportata alla questione fisica, non più posta come faccenda di colore. 
Scorrere la serie intera degli schermi, a ritroso e partendo da “Zeich.en.ung”, comporta indovinare che il cruccio di Mauri è sempre stato non un oggetto ma un "rapporto" (allora il fascio stesso delle luminosità?), ossia qualcosa di non-fisico, non-oggettuale (e il fatto stesso di aver reso solida la luce è più una dimostrazione di questo che una confessione); forse specificatamente il rapporto tra idea e materia, tra immaginazione e realtà. E ancora: forse il nesso tra produttore e prodotto, tra desiderio e appagamento [fm.12], tra individuo e società, tra spettatore e opera. Ovvero, potendo proseguire all’infinito, il rapporto in quanto tale, epperò reso del tutto sensibile. 
Ma anche vi si sorprenderebbe annidata l’idea essere il linguaggio la catena perversa del mondo degli uomini; il film emblema ed enigma di un predestinato vivere e morire nel vuoto cerchio di una immaginazione coatta [fm.13] che solo la grazia del silenzio può sciogliere dalla morsa della inadeguatezza, liberare dalla condanna delle rappresentazioni. 
In quel The End luminoso, e illuminato, di cosa si proclama la fine, se non di questa rappresentazione, di questo travisamento, ossia della pittura e della storia della pittura? 
È l’immagine a scivolare via dallo schermo, o è quest’ultimo a scivolare via dall’immagine?
Lo schermo e il proiettore si fronteggiano; e in questa contrapposizione si fonda e riposa la loro condizione di esistenza concreta. 
L’uno e l’altro sono delle potenzialità che soltanto in questo fronteggiarsi (nell’ostilità degli ospiti) possono attualizzarsi. È solo grazie all’apparecchiatura che lo schermo è tolto fuori dal buio dell’indeterminatezza e dell’infinito e può rivelare la sua presenza; è solo grazie allo schermo che l’attività fantastica del proiettore può incarnarsi per gli uomini e i vedenti e vivere la sua fantasmagoria. 
Mauri si pone proprio tra i due; per separarli e rappacificarli; fuori dalla macchina e dallo schermo, per immergersi nel loro luminoso rapporto (che si fa solido) e smarrirsi nello stupore  dell’incontro casuale e impalpabile delle immagini con lo schermo. Egli però non è lo spettatore messo al centro del quadro futurista, perché non vi è più quadro quando la fantasmagoria vorticosa delle immagini non è rappresentabile in quanto tale (ved. Fut.) e senza questa possibilità anche lo spettatore di un dinamismo che si nega alla rappresentazione si dilegua: è andato ad inseguire l’immagine nella sua fuga verso l’infinito (ha oltrepassato e forato lo schermo) oltre lo schermo o il piano che non ha potuto sezionare il cono luminoso per offrire l’immagine all’occhio. La scena allora si è fatta estatica: ognuno è separato e vive la propria assolutezza.
L’emancipazione dello schermo dall’apparecchiatura emancipa gli altri termini in gioco: la macchina, il fascio luminoso e lo spettarore. Ed anche loro si mettono in cerca del figlio, ognuno per proprio conto. 
Lo schermo è la superficie mosaica, iconoclasta, l’interdizione all’immagine, il vecchio Testo inciso nel nulla; allora diventa il campo di tute le rivelazioni – poiché è incolmabile come una viragine pneumatica, o come uno specchio da rapina che raccatta ogni depravazione con impassibile morbosità, senza mai parteciparvi; è il luogo dell’ineluttabile e della necessità, ossia di Ananke e di Ade.
L’apparecchiatura (il dispositivo luminoso – la macchina) [cfr. 46, 49,54] scivola via, sconcertata da tanta incolmabile depravazione, per sposarsi stavolta con oggetti fisici, preformati, sottomessi alla miseria degli uomini, gravi di dolore, a volte. Non più prediligendo l’ipocrita verginità della veste immacolata dalle ortogonali pieghe: ma sindone e veronica. 
Va cercandosi compagnie attive, ricche di piaghe e segni indelebili dalle quali si lascia afferrare per costringervi il vortice fantasmagorico delle immagini che viaggiano nel suo luminoso fascio numinoso; cerca qualcuno da redimere, qualcuno da salvare (si è attuato il capovolgimento – ora è lo schermo  un cardine, un centro di emanazione luminosa, e la scena –con al centro l’apparecchiatura, diventa lo schermo). 
Su questi oggetti o persone le immagini scivolano; ma entrambi i termini di questo fortuito connubio, che avviene sul talamo nuziale e funebre, non riusciranno mai più a trovare la loro originaria verginità. 
Caparbie le immagini si ancorano alle cose, e tu potresti spremerle via come da un’arancia matura, e berne fino ad intossicarti. 
Allora ecco l’oggetto come schermo, come corpo svuotato, ossia  ricaribile di qualunque significato (dalla poligamia alla poliandria); ma come ignorare, stavolta, i dolori e le pene degli oggetti, dei corpi vivi, la loro umanità sofferente nella caducità delle opere e i giorni?
Lo schermo ha mantenuto la promessa dell’apparecchiatura; non solo una promessa di accoglienza ma di redenzione e di liberazione, quando con un guizzo audace si è sottratto alla sua propria  illimitata presunzione di assolutezza per incarnarsi nell’uomo, nella donna e nei loro utensili. 

Al monologare del proiettore, per il quale lo schermo rappresenta l’unica di rivelarsi quale apparato e macchina assoluta, si interpone il corpo opaco, pesante, che risponde con la sua concreta e particolare fisicità immediata (diviene piano di sezione), ma anche con la sua particolare significatività. La fissità metafisica dello schermo monocromo viene sostituita dalla mobilità storica  del mondo degli uomini. 
Voltata l’apparecchiatura di proiezione sul mondo reale e prossimo, tutti sono perduti e tutti sono redenti; solo ora, nel delirio degli oggetti con le immagini, si rende possibile ripartire con la pittura; poiché dalla discesa agli inferi dello schermo essa risorge come “mera superficie”, come condizione originaria della pittura medesima legittima alla rappresentabilità del mondo. 
Senza capire questo, l’ospite e il visitatore (che si sono riconosciuti uno con l’altro e uno nell’altro) si perdono uno nell’altro e uno per l’altro. 
Lo schermo potrebbe non riuscire a sottrarsi all’abbraccio della vanità ctonia, e prendere a predicare la redenzione dell’uomo per perseguire indisturbato la propria redenzione personale – che lo condanna irreparabilmente alla dannazione della menzogna e della noia stilistica. Contumace se ne andrebbe errando per il mondo degli uomini pronto a vendere per un piatto di lenticchie la sua primogenitura nella genealogia della Pittura. Soltanto un nuovo (estremo?) sacrificio potrà introdurre nella sua esistenza (bulimica?) un barlume di speranza; ma l’amore verso sé stesso non è così sconfinato: è soltanto inesplicabile. (dal concettuale alla transavanguardia) 
Inesplicabile proprio come il mondo delle merci e il dominio planetario del Capitale. E forse in prima e in ultima istanza è stata solo la legge di gravità che ha liberato i termini (delle concatenazioni sintattiche) per farli ricadere liberamente verso il suolo; ma qui trovano il suolo storico calpestato dai piedi degli uomini attuali - ossia il mercato, nel quale allora ricadono come feticci e simulacri, non a caso, ma nel caso.

CASO. Forse proprio per questo Fabio si accanisce a volerlo controllare: e ogni accanimento è sospetto. 
E’ il caso, come categoria e come prassi che, proprio nella composizione, Mauri coltiverà come un mistero estetico. 
Particolarmente in una serie di collages degli anni 70, le forme ritagliate vengono accostate tra loro come in una reciproca sorpresa; allora Fabio le incollava  con la massima discrezione – anzi: le appuntava, quasi timoroso di rompere un incanto stocastico; cercava di far permanere quella precarietà, come se ancora quei ritagli levitassero leggere verso altri incontri, sempre possibili e tuttora possibili  - grazie all’ossidazione di colle caduche nel tempo della ossidazione e alla legge di gravità. Non ne incollava tutta la superficie coi modi perentori dell’intollerante; e questi collage rimangono ancora oggi sotto il visibile segno dello scorrere, proprio come le ombre cinematografiche.
L’apparecchiatura rende visibile il gesto duchampiano  della delocazione che fonda il ready-made; ma il fascio che illumina adesso è intossicato dagli uomini e dalla storia. 
Lo schermo si è emancipato da una sudditanza che lo voleva ospite per forza, e attraverso questa sua propria emancipazione non può che emancipare anche i termini oramai non più interdipendenti: la macchina da proiezione, il fascio di luce, ma anche il film: memoria e tesoro di immagini, conchiuso universo di cui la fine è nota.
E anche il fascio di luce reclama una incarnazione in quanto tale; ed è allora nella Pila a luce solida che la luce si sacrifica per salvare l’apparato di illuminazione dalla forza di gravità ed impedirne la precipitosa caduta.
La piramide di questa prospettiva capovolta si allarga a dismisura verso l’infinito  e illumina il deserto bianco delle tentazioni di sant’Antonio – della superficie incapace di attualizzare alcunché di concreto se non appena il fremito dei suoi desideri. 
Non è il limite della pittura ma dell’immaginazione stessa sgomenta dalla sua propria illimitatezza.

LUNA – E d’altro biancore ci si svela la Luna. Superficie e schermo ideale, cosmico piano di proiezione. Ripostiglio di millenarie immaginazioni – la cui conoscenza agli uomini è data soltanto proprio dall’essere lo schermo dell’occhio solare (apparato luminoso e dinamico, ventoso) coacervo ribollente di memorie luminose, abbacinanti, se non ti schermi appunto gli occhi e ne distogli lo sguardo (il sole - Nume e condizione della pittura. 
Ma la Luna è la saggia coscienza del Sole; economa oculata di tanta luce, prova sicura che altrove egli risplende; testimone oculare del mondo degli uomini – ruolo cosmico passivo (ospite e donna, suddita massaia); grande ospite e grande visitatrice, sempre virginale e fragrante. – Preoccupazione di prolungare esperienze fugaci come l’amore, istantanee come la morte, dar consistenza all’inconsistente, dar corpo al diafano. 

Lo schermo ha compiuto i suoi propri esercizi spirituali: e questi si addicono a Fabio.
Di tutte le altre storie, quella incontestabilmente vera – seppure ne possiede una – o mai potrà averne – io ci ho provato – è la piatta storia dello schermo; condizione prima di non disperdere, scialacquare nello spazio infinito i gemiti delle esistenze, le tracce di vita che si riducono sempre più ad un odore, ad una pista.
Forse, nonostante sé stesso, tutto questo infierisce che ciò che conta, quello che si deve salvaguardare, è la materia piuttosto che l’idea; proprio affinché l’idea abbia la possibilità di incarnarsi, di rivelare come tale, sopra ogni dubbio, la sua consistenza, il suo spessore.
In tutto questo, allora, ecco che quanto in un primo tempo poteva apparirci come cosa mentale, raggiunge infine necessariamente la materia, come in un lapsus.
E questo ci conforta. 
Carmelo Romeo 1972-75

La mera superficie in pittura
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