LETTERA DAL CARCERE |
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Caro M,
ho saputo che state preparando una "fenomenologia" di Umberto Eco, e che ne parlerete nella riunione di stasera. Potessi stare anch’io lì tra voi immagino che non ascolterei altro che la ripetizione di cose che ci siamo già dette sul suo conto, ad esempio in occasione - proprio da voi, a Torino - del suo “magistrale” pronunciamento contro il diritto di parola alle legioni di imbecilli che popolano Internet. E lasciamo pure disperdersi questa faccenda nel cumulo delle tante altre che confermano le nostre motivazioni a tenere in non cale certi tipi di uomini, soprattutto quelli illustri e "illustrati" - come direbbe Totò. Detto questo, voglio tuttavia farti sapere che ho sempre avuto la vaghezza, se non proprio la certezza, che "Il nome della rosa" non sia altro che lo sviluppo e la celebrazione, ipercondita d’erudizione, di quel luogo comune - prima anarchico poi corollario sessantottino dell’immaginazione al potere - che si è espresso per esteso anche come “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà”. Una illusione, questa, rilanciata proprio nel '77 (il romanzo di Eco appare nell'80) e tuttora dura a morire. Illusione presa però terribilmente sul serio dai sapienti monaci benedettini (cioè da Eco) da indurli preventivamente ad occultare al mondo (e l’Abbazia è il mondo) il secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratterebbe appunto di commedie e di risate, ossia di forze micidiali pronte a scatenarsi contro l’Abbazia! E’ così che l’estremo terrore provato da questi araldi protettori dell’ordine per la risata la fissa nell’immaginazione quale mezzo realmente efficace per sconvolgere lo stato delle cose. Nel momento del decisivo passaggio storico dall’arma della critica alla “critica delle armi”, ecco che la comicità (in quanto “critica conviviale”?) avrà pure l’autorizzazione della Poesia di successo per condurre la lotta con la sua propria arma totale e intelligente: la risata… Non forse è così? Allora, per controprova, potremmo chiederci come mai, per rappresentare una minaccia un tantino più “seria” per lo stato delle cose del mondo, Eco non abbia scelto un diverso libro di Aristotele, come ad esempio una altrettanto ipotetica ultima copia del nono libro della “Fisica”. Anche limitandosi ad inserire la semplice parola “fisica”, presente appena nel titolo del libro da occultare con tanta caparbietà omicida, si sarebbe evocata in qualche modo, invece dei moti dello spirito, la dura materia e il mondo con i suoi conflitti reali. E l’autorevole autore avrebbe dovuto procedere narrando, con buon anticipo sui tempi, qualche tipo di minaccia resa un po’ più credibile dalla storia successiva, come quella rappresentata qualche secolo dopo da Galileo; e così anche il rogo finale con l’eretico Salvatore e la donna, avrebbe finito per richiamare, senza troppe vaghezze, i roghi reali di Giordano Bruno e delle arrapanti streghe. Invece, si è proprio preferito raccontare la minaccia proveniente da un roseo sollazzo con sommovimento della trippa - che magari alla fine arriva pure a seppellire qualcosa, ma solo quando qualcosa è già divenuta, a propria insaputa, null’altro che un sollazzo per tutti. In conclusione: una rosa più innocua di quella di Silvio Pellico e meno efficace (in termini politici) delle mie prigioni. Saluti. PS. – Se non mi inganna l'eco di ritorno da letture ancor più remote, Rabelais ha narrato, con schiettezza ancora tutta medioevale e senza l’insinuarsi del cipiglio borghese, la sana sensualità e il riso grasso e sguaiato dei monaci di quei tempi; e pure Bebel ci ha raccontato in quale bassa considerazione (per non dire “nessuna”) era tenuta la continenza dagli stessi preti e monaci di quel periodo, al punto che le loro unioni e convivenze con mogli e concubine dovettero esser regolare e limitate con apposite leggi e decreti amministrativi. In breve: nessuna angoscia di vivere a crepapelle prima dell'avvento dell'ipocrisia borghese. |
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Padre, |
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