LETTERA DAL CARCERE

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Martedì, 22 marzo 2016
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arteideologia raccolta supplementi
nomade n.12 agosto 2016
LA RIPRESA DELLE OSTILITA'
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Cara madre,
a volte non riesco proprio a decidere la persona a cui è opportuno confidare alcuni fatti che mi accadono anche standomene rinchiuso nella cella di una prigione. E così, alla fine - te ne sarai accorta - poiché ti conosco paziente, spesso approfitto di te e della mia posizione di figlio per procurarmi facilmente un orecchio mansueto ai miei sussurri.
Stavolta, ad esempio, ti costringo a sapere che domenica scorsa in parlatorio avrei dovuto incontrare Pietro, e finalmente conoscerlo di persona.
Credo di non averti mai parlato di lui.
Mi aveva scritto qui in carcere per dirmi che aspettava di leggere i testi delle videoletture viste su YouTube. Ma l'aspetto per me più sorprendente era stato sapere che lui si era fatta l’intera maratona dei 72 video! Capiresti all'istante la mia sorpresa sapendo che l'insieme di questi video ha una durata di oltre cinque ore.
La sua lettera, inutile tacerlo, è stata di sollievo per il mio isolamento; e anche nelle poche parole di un biglietto con il quale mi annunciava la sua visita ho creduto di avvertire una comprensione e una vicinanza cortese... addirittura un affetto, oserei dire - ma oramai queste mie sensazioni le conserverò intatte, non potendo più esser smentite.
Per farla breve,
quasi solo per lui mi ero deciso a risistemare l’intero testo sulle scarpe di van Gogh per darglielo quando ci saremo incontrati.
Invece, ho trascorso l'intera domenica in cella senza che venissi convocato in parlatorio per quella visita. Sicuramente doveva essergli capitata qualche inattesa contrarietà - ho pensato.
Il giorno seguente, durante l'ora d'aria in cortile, un compagno torinese, con il quale occasionalmente conversavo, si è avvicinato e con un fare incerto mi dice:
- Sapevo che ieri hai aspettato Pietro... Io ho ricevuto visite... e ho saputo che è morto... giusto ieri... Era un compagno e un poeta...
La mia costernazione deve esser stata così visibile che il torinese ha ritenuto opportuno aggiungere qualche altra parola:
- Sì, l’ho conosciuto… Sai? a volte lui amava citare quella frase di Bordiga che diceva che per il marxismo nessuno è immortale, nessuno è morto… Pietro vivrà per sempre nei nostri cuori... 
Non volevo fare conversazione e mi ritirai nella mia cella, e in me stesso. E lì, nel chiuso della mia bolla stagnata, tutt’altri pensieri iniziarono man mano a lottare  con le parole di conforto appena ascoltate: ...Pietro vivrà per sempre…!
E tuttavia…
Poggiata sul tavolinetto era rimasta la risma dei fogli che ero riuscito a stampare per Pietro nella segreteria del carcere. Disteso nella branda disfatta la guardavo come una spoglia destinata alla critica feroce dei sorci roditori; e intanto mi tornavano alla mente una folla di immagini e pensieri; ma tra tutti quegli affastellati ricordi prevalevano, per precisione e intensità, le sensazioni che avevo provato qualche anno prima ritrovandomi in un piccolo parco pubblico di Roma, poco oltre il Poligono militare di Ponte Milvio...

Devi sapere, cara madre, che dopo qualche giorno dalla morte di Anna, Gigino venne a casa deciso a portarmi fuori.
Pioveva a dirotto, ma lui - che si divertiva sempre a capovolgere i ruoli - aveva promesso di cucinare qualcosa per i cuochi del Circolo, e aveva pensato ad un piatto che gli preparava la nonna. Avremmo mangiato sulle sponde del Tevere, direttamente nella cucina e in compagnia di amici.
Intanto che consumavamo un saporito tortino di alici, i rovesci d'acqua si erano fatti meno frequenti, ed erano smessi del tutto quando finalmente uscimmo all’aperto per camminare un poco nel piccolo parco pubblico prospiciente al Circolo.
Conoscevo bene quel parco. Sistemato recentemente proprio ai piedi della collina sulla quale si estendeva il quartiere in cui abitavamo, c'eravamo andati spesso, Anna ed io, per camminare un po' attorno al lago artificiale, lungo i sentieri di terra o per un tratto della pista che conduce fin oltre la diga di Castel Giubileo.
Dopo il temporale la coltre di nuvole si era diradata, il cielo si mostrava terso come l’acciaio e l’aria profumava di terra bagnata e vaghi marciumi.
Una luminosità penetrante si faceva largo tra le nuvole dense e dava risalto ai colori
ravvivati dal bagnato delle siepi, degli alberi, delle panchine di legno. Persino i rifiuti abbandonati tra l'erba o sulla terra inzuppata accanto ai cestini della spazzatura si erano puliti e facevano buona figura nell'insieme.
Il gioco della luce lavorava sui dettagli delle cose come l’affilato bulino di un incisore d’acqueforti, e rendeva così definiti e nitidi i contorni che ogni oggetto pareva tanto vicino ai sensi che le mani, il naso, le orecchie sembravano fremere per protendersi ad afferrarlo, palparlo, annusarlo, batterlo per udirne il rumore
frammisto al lontano latrare di un cane o all'improvviso tuffarsi di una rana nella sua torbida pozza.
Ogni cosa in quel parco era vivida e fremente, come se per la prima volta fosse venuta al mondo. Lavata di fresco e ancora lucida d'acqua, si mostrava ai miei occhi esatta e appropriata come mai avevo veduto; e tutto avanzava dal fondo per venirmi incontro con la propria singolare bellezza, quasi volesse toccarmi.
- Ecco - mi sono detto in quel giardino - tutte queste sensazioni Anna non le proverà più.
E piansi a quell’idea
- ...Anna vivrà per sempre nei nostri cuori… - avevo sentito dire qualche giorno prima.
- Come preferite - dicevo tra me.
E tuttavia…
Dire questo del morto equivale a infliggergli l'ultima arroganza che sminuisce la sua reale condizione, che minimizza - come una pacca d'incoraggiamento - l’irreversibile sentenza della natura che si è ritirata oramai dal corpo portandogli via il soffio e il fiato…
Può forse interrogarti il corpo esanime con le stesse parole con cui uno Shylock ti chiede se lui non ha occhi, se non ha mani, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? Può forse insistere a chiederti: se mi pungete, non sanguino? se mi fate il solletico, non rido? se mi avvelenate, non muoio? senza ricevere da te, per ogni singola sua domanda, una secca risposta negativa?
-
No! Non sanguini, non ridi, non muori più.
Chi potrà mai? chi potrà più prendergli la mano e poggiargli il palmo sulla corteccia di un pino per fargli intendere il rugoso? avvicinargli il volto al grumo di resina che cola fuori dalle scaglie per fargli intendere l'afrore? - neppure il pensiero poetico più squisito riesce a tanto: qui tocca il proprio limite e pallido si ritira dal confronto con i sensi vivi.
No. L’irrevocabile perdita delle sensibilità non vuole e non chiede consolazione e conforto.
Si deve dare ai morti ciò che gli spetta.
Raggiungerli nello spavento di non più gioire o fremere o anche rabbrividire sulla pelle, nella carne e nelle ossa; di non poter più godere per le tenui gradazioni dei colori di un ciliegio da fiore o di ogni pur misera inezia, e qui, su questa soglia, fermarsi.
Al parlante la morte può presentarsi come una metafora dolorosa, ma per il corpo è solo una realtà micidiale. Ciò che per la natura o la filosofia è allo stesso tempo una dissoluzione e una risoluzione, per il corpo significa unicamente uno schianto e una fine.
Se vuoi onorare pienamente la spoglia inerte di chi ti è stato caro, lasciala dunque nel suo abbandono e mettiti in salvo davanti all’irreparabile danno che tu gli devi riconoscere di aver subìto…
Per il resto, poi, cioè per tirare avanti, sono affari tuoi, e ognuno se la tira come sà e come può.
Ma - vi prego! - non distribuite
pacche d'incoraggiamento, e smettetela soprattutto di "elaborare il lutto": è l'estremo insulto che farebbe del morto un deriso, e del vivo un verme sarcofago insaziabile di nutrimenti purché siano...

Più o meno tutto questo mi frullava per la testa, in quel giardino, allora, e mi frullò di nuovo nel chiuso del carcere, ieri.
Proprio stamattina, quando nel cortile dell’ora d’aria incrociai nuovamente quel compagno, che pure era stato garbato col mio sgomento, quasi involontariamente gli gridai contro:
- Non volevo essere consolato. Non voglio conforto per i miei morti. E non voglio elaborare i lutti. E' un abominio. Voglio tenermeli indigesti e brutali così come li ho patiti fin dal primo momento… E non credo proprio che per questo il comunismo e Bordiga se ne avranno a male! 
Il torinese deve certamente aver compreso subito che in realtà non gridavo contro lui, perché, dopo un attimo di esitazione, si è rovistato in tasca e con gentilezza mi ha offerto quello che ne aveva estratto.
- Volevi conoscerlo di persona... Puoi tenerla, se vuoi.
Era una foto di Pietro.
La presi, vergognandomi per la mia alterazione di poco prima.
Ma avevo già pianto e lasciai che il mio compagno di carcere si allontanasse senza ricevere in cambio del suo dono neppure una vaga parola di gratitudine o un cenno di saluto.
Cara madre,
non ho alcun bisogno di ricordare che l'insopportabile silenzio di quella ovattata corsia d’ospedale nella quale moriva il nonno venne rotto da alcuni frasi che presero a infuriare nel mio cervello:
… non avviarti docile in quella buona notte,
la vecchiaia dovrebbe ardere e urlare
quando finisce il giorno…
non avviarti docile…
Erano versi di Dylan Thomas mandati a memoria ma che, ti dicevo, non ho più bisogno d'affaticarmi a ricordare perché da allora in poi decidono a loro capriccio quando iniziare e smettere di ruotare nel mio cervello. Si ripetono come un’interminabile tiritera che proprio da ieri ha ripreso a girare senza smettere un momento ...Non avviatevi docili…
No! ... Non avviatevi docili, infierite, infierite contro il finire della luce...

Ed ora scusami, cara madre, se ti ho rattristato con certi argomenti. Ma, in attesa che prima o poi qualcuno si decida a scrivere sui dolori del vecchio Werther, puoi anche comprendere e perdonare ad un figlio costretto all’ozio carcerario questo tipo di lettere - che forse sarebbe meglio non spedire (e quasi sicuramente sarà proprio la fine di questa lettera un po’ bislacca: in pasto ai topi, assieme ad una risma di fogli che nessuno più verrà a prendersi)

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