LETTERA DAL CARCERE DI SOLETUDE

7
Giovedì, 24 dicembre 2015
!
arteideologia raccolta supplementi
nomade n.11 dicembre 2015
COME STANNO LE COSE
3
pagina
Caro Alberto, 
da qualche giorno ho ricevuto i tre tubetti di dentifricio e tua lettera.
Il sapore dei primi mi è piaciuto, quello della seconda un po’ meno.
C’è dentro una dose di avvilimento che ha demoralizzato anche me.
Comprendo la tua stanchezza per le continue riunioni che il Comitato tiene quasi sempre in umide cantine o talvolta in locali più ampli ma troppo areati. Scrivi che vorresti capire se questo serve a qualcosa per chiederti in quale altro modo tu, come ognuno di noi, possa contribuire al movimento reale che abolisce lo stato delle cose.
Può darsi che io ti debba una risposta, ma non posso dartela così semplicemente perché lo credo inutile. Potrei anche dirti di andarla a cercare tra i nostri vecchi e vecchissimi testi, ma suonerebbe come uno sgarbo che non meriti.
Non credere però che voglio biasimarti se ti ricordo che il comunismo non è una pornografia. Se qualcuno se ne sente particolarmente eccitato, tra una riunione e l'altra, oppure per sempre, può anche uscire dalle cantine umide per andare a godersi subito qualunque altra cosa a portata di mano, che sia birra o donna. Posso garantirti che nessuno la prenderà male, ed avrà anche la personale comprensione dei rimasti.
Per quanto in tantissimi possono perdere la pazienza, una forma sociale non muore prima di aver esaurito tutte le possibilità di ogni suo sviluppo ulteriore.
Insomma, stai tranquillo, se hai voglia di far spallucce.
Non ti vorrai mica mettere tra quelli che credono di aver capito qualcosa ma non si capacitano del fatto che le rivoluzioni sociali - e specialmente l’ultima - non sa proprio cosa farsene della persona per spingersi comunque avanti.
Non so consolarti, Alberto. E non sai quanto vorrei esserne capace.
Non mi resta che calmare entrambi con un racconto meccanico che non ha nulla a che fare con noi due. O forse sì. Ma non importa. Tu lasciami solo provare a scriverlo per te, proprio alla maniera di quelle fiabe alla cieca che a volte ti dicevo da bambino.
E’ una fantasia che per anni ha continuato a girarmi nella mente come il ritornello dell’interruttore stocastico
E potrebbe iniziare così:
…Un vecchio genitore viveva con i suoi dodici figlioli, maschi e femmine, in una unica grande stanza dal centro della quale pendeva una sola grande e potente lampada.
L’aveva costruita lui stesso, quella lampada, molti anni prima, utilizzando i materiali di scarto della fabbrica in cui lavorava. Era poi riuscito ad allacciarla direttamente alla rete elettrica in modo che non fosse mai spenta; e i suoi figliuoli crebbero tutti nella chiarezza  delle cose, senza timori del buio.
Quella perenne luce produceva tuttavia degli inconvenienti.
La luminosità naturale, che durante il giorno penetrava dall’esterno attraverso un vasto lucernaio, addolciva i raggi emessi nell’interno dalla grande lampada; la notte però gli abitanti dovevano chiudere o coprirsi gli occhi se volevano prender sonno al buio.
D’estate, poi, nel chiuso dello stanzone, quell'impianto troppo elementare produceva un incremento della temperatura che non rendeva per niente confortevole viverci.
La continuità stabilita inizialmente tra la rete elettrica e il bulbo a incandescenza aveva certo evitato il formarsi di quelle zone d’ombra che spesso genera il vivere domestico e la familiarità promiscua dei corpi. Ma quando la prole fu più  adulta, quella illuminazione perpetua iniziò ad essere sgradita ai ragazzi: sarebbe più pratico regolare a piacimento il flusso di energia tra la rete e la lampada - si diceva ognuno segretamente.
Accadde così che in un medesimo giorno ciascuno di loro, fratelli e sorelle, decise di recarsi dal fornitore di materiale elettrico. E lì, mentre uno usciva dalla bottega con un interruttore in tasca, l'altro vi entrava per il medesimo acquisto, fatto da ciascuno all’insaputa degli altri.
Una combinazione mirabile dispose ogni cosa per non farli incontrare nella bottega o nell’imminenza dell’acquisto. Così ognuno rimase persuaso d’essere l’unica persona ad aver preso quella decisione; e in cuor suo si rallegrava per avere in tasca un merito da esibire al momento opportuno.
Neppure il bottegaio, conoscendo bene la limitata esigenza di quella famiglia, ritenne conveniente chiedere spiegazione di quel singolare modo di acquistare un certo numero di interruttori. D'altronde anche lui aveva acquistato più interruttori di quanti fin'ora era riuscito a vendere; d’altronde - pensò - anche la fabbrica ne aveva prodotto più di quanti fossero richiesti dal mercato mondiale degli interruttori.  Era probabile che intere casse e containers colmi di interruttori ingombrassero magazzini e ostruissero gli angiporti dell’intero paese. E proprio io dovrei scoraggiare il generale libero produrre, libero distribuire e altrettanto libero consumare interruttori elettrici? - si era detto infine. E si fece i fatti propri.
Così, come quegli interruttori furono segretamente acquistati altrettanto segretamente ognuno venne sistemato sul filo paterno (effettivamente abbastanza lungo da consentire ad ogni fratello o sorella di montarlo nel tratto più prossimo al proprio lettuccio senza che qualcuno degli altri se ne accorgesse).
Ed è qui che possiamo dire che il caso superò sé stesso realizzando una combinazione, ancor più mirabile della prima, facendo in modo che nel corso delle manovre di montaggio dei singoli interruttori, il flusso elettrico non venne mai interrotto. Così la lampada rimase sempre accesa e proprio nessuno dei ragazzi ricevette il benché minimo avviso dell’identica modifica che nel frattempo ognuno di loro stava realizzando lungo quel medesimo filo.
A sera inoltrata, giunto il momento di dormire ognuno schiacciò il proprio interruttore e, soddisfatto del contributo personale dato alla gestione della luce, si preparò a dormire senza tirarsi le coperte fin sugli occhi - seccato, tuttavia, che il suo buio improvviso non avesse provocato alcun segnale di meravigliata sorpresa. Solo dall’angolo estremo della stanza, dove era sistemato il letto del vecchio padre, si era sentito, a stento udibile, forse un sospiro di rassegnazione.
Il mattino seguente i ragazzi si presentarono al vecchio genitore per attribuirsi ognuno il merito del contributo dato alla “quistione luminosa” (proprio così, scientificamente, preferirono tutti definirla).
Avvolto tra le lenzuola arruffate il vecchio li guardava, muto, senza dire una parola.
Si alzò solo per lavarsi la barba, lasciando che disputassero tra loro per l’intera giornata e fino al tramonto.
Il sole calava e dal lucernaio ormai entrava solo il flebile chiarore giallognolo dei lampioni stradali. Non abituati a coricarsi all’imbrunire, qualcuno decise di schiacciare il proprio interruttore per riaccendere la lampada.
Che tale semplice gesto sia stato eseguito senza comune accordo, o che qualcuno abbia spinto più volte il proprio pulsante, oppure per qualche altra caotica ragione causata dall’incremento di complessità introdotto con la serie degli interruttori installati sul filo, fatto sta che la lampada proprio non voleva riaccendersi.
Nel buio sempre più fondo dello stanzone si udivano soltanto scatti dei pulsanti e sbuffi d’insofferenza. Per tutta la notte i ragazzi provarono e riprovarono.
E nuovamente, solo il caso dispose che infine, sul fare del mattino, gli interruttori scattassero tutti giusti per chiudere il circuito e provocare finalmente l'accensione improvvisa della potente lampada.
Ma ecco che subito il brusco aumento di calore, emanato dal notevole filamento di tungsteno di quella grande lampada sistemata in alto, mandò in frantumi i vetri del vasto lucernaio sovrastante, che precipitarono in basso con gran pericolo dei sottostanti. Immediatamente, anche l’acqua del temporale in corso trovò un varco per rovesciarsi dentro, inzuppando coperte, cuscini, e ogni altra cosa esistente nella stanza.
A rivoli l'acqua scese anche lungo il filo elettrico.
Penetrò negli interstizi degli interruttori.
Passò sotto i grumi di nastro isolante.
Scivolò nell'interno delle guaine stabilendo contatti passeggeri che chiudevano e aprivano il circuito elettrico provocando alternanze di bagliore improvviso e buio inaspettato.
Le scintille dei contatti vaporizzavano il conduttore liquido che si andava a ricondensare più in alto per scivolare di nuovo giù, producendo gli effetti sorprendenti di una pazza intermittenza luminosa.
L'imponderabile sembrava aver collocato sul filo un suo proprio dispositivo per dominare a suo capriccio lo stanzone in burrasca.
I ragazzi conoscevano bene la soluzione gordiana a quello stato delle cose. Ma nelle zone d'ombra della stanza avevano attecchito svelte le muffe del garbuglio e del tornaconto, e nessuno voleva rinunciare al proprio personale interruttore sull’impianto del padre - che intanto, scivolato rapidamente verso lo sconforto e l’abbruciamento delle retine provocato dai lampi che squassavano all’istante la tenebra di quella stanza, se ne andò rapidamente nella fossa scavata tra le ortiche del povero giardino di fuori.
Dopo uno sconsolato funerale, da vie e piazze circondariali molti pietosissimi animi parteciparono al dolore degli abitanti dello stanzone, recando loro in dono altri interruttori e consimili meccanismi corredati da batterie di fusibili e filari di diodi ad emissione luminosa, che era un piacere vederli tutti all’opera.
E quante più tali testimonianze di cordoglio e comprensione venivano montate su quel  filo teso anticamente dal padre, tanto più si faceva remota la possibilità di controllare la lampada, guizzante oramai di una vita propria.
L’iniziale filo rosso, accresciuto dallo smodato impianto di tanti singolari aggeggi meccanici, magnetici o elettronici, si era trasformato in un informe cavo che usciva dalla stanza per inerpicarsi fin sul traliccio dell’elettrodotto.
A vederlo dal basso, avvolto in quelle spire palpitanti e crepitanti di lampi e scintille, l’avresti detto un immenso feticcio pagano coperto di ex-voti, o anche una divinità primigenia e mammelluta di capezzoli dai quali ciucciare nutrimenti per ogni tipo di sogno e fantasia…
Si dice che passava di là un'allegra comitiva di armoniosi falenotteri che rimasero emotivamente coinvolti dall’elettrica bellezza di quello scorcio, e seduta stante inviarono alle autorità una petizione affinché l'intero campo visivo tra la bassa casa e lo svettante  traliccio fosse riconosciuto quale bene culturale, da tutelare e conservare esattamente così com'era: ne avrebbe senz'altro guadagnata rinomanza e prosperità economica l’intera contrada - ignorata finora dalle guide turistiche prestigiose come pure da quelle più scamuffe…  
Il racconto mi sembra anche troppo carico di immagini e allusioni che a rileggerlo lo diresti anche tu un apologo divagante e malfatto.
E’ bene dunque che finisca qui, prima di provocare più danni di quanti mi sono autorizzato a farne per l’intera giornata.
Non sono neppure sicuro che ti spedirò questa lettera prima di capire se possa essere utile a te leggerla quanto lo è stata a me scriverla solo per stare un po’ più in tua compagnia.
Ma non credo proprio che possa farti ritrovare il buonumore di una volta… Ricordi ancora per quanto tempo riuscimmo a far credere al piccolo Franco che i cocomeri crescevano sugli alberi e che per concedere un prestito la Banca ti metteva un “muto” a vivere in casa?
Fanfaluche d’allora, e fanfaluche d’oggi...
Fossi in te non crederei neppure alla faccenda della bestiolina che mi costringerebbe a scrivere: non è improbabile che sia solo una mia triste trovata per poter scrivere ciò che mi pare, concedendomi per di più l’inconsistenza delle parole.
Eh sì, caro Alberto, credo proprio che per il momento questa lettera, a te, non conviene riceverla, e a me, non conviene spedirla…


Carcere di Soletude, giovedì 24 dicembre
pagina