CAMBIARE IL MONDO

Cesare Alemanni . Da Prismo 28 settembre 2015
arteideologia raccolta supplementi
nomade n.11 dicembre 2015
COME STANNO LE COSE
4
pagina
GOOGLE, APPLE, FACEBOOK e AMAZON vogliono cambiare il mondo. Il piano? Trasformare il futuro a loro immagine e somiglianza.

Gradatim Ferociter
A inizio 2003 i giornali di Van Horn, Contea di Culberson, Texas, raccontarono di una serie di ricche offerte per acquistare 70.000 ettari da alcuni ostinati possidenti di zona. Di stravagante c’era che non si conoscevano né l’identità né le ragioni del compratore. In fondo da quelle parti il petrolio lo si era già cercato senza frutti, perché mai tanto mistero?
Formalizzate le compravendite, i giornalisti si dimenticarono presto della vicenda e tornarono a occuparsi di altro. Almeno fino a quando, due anni più tardi, l’acquirente non rivelò la sua identità e i suoi piani in un’intervista esclusiva con il Van Horn Advocate, il settimanale di Van Horn: duemila anime ai bordi di una strada che taglia il deserto. Si trattava di un miliardario che rispondeva a un nome ancora non notissimo. Undici anni prima aveva fondato un’azienda molto fortunata e ora si trovava lì, in quel trapezio ai limiti del Texas occidentale, per gettare le fondamenta di un’altra impresa che nella sua testa esisteva già da tempo. Si chiamava Blue Origin, adottava come motto l’espressione latina Gradatim Ferociter e, nel giro di un ventennio, sarebbe stata una delle prime compagnie private a portare cose e persone ben oltre i limiti della stratosfera. Viatico – disse – a una “stabile presenza umana nello spazio”. A partire proprio da lì, dai paraggi di Van Horn.
Queste cose il miliardario le raccontò a Larry Simpson – proprietario, direttore e e unico giornalista del Van Horn Advocate – in un giorno di gennaio del 2005, entrando di punto in bianco nello scarno ufficio della rivista e presentandosi con un semplice “Hi, I’m Jeff Bezos”. Tra quelle che omise: per esempio che Blue Origin era il primo passo verso un sogno che coltivava dai tempi del liceo, il sogno di poter un giorno evacuare la terra e farne un parco di divertimenti.

Abitare a Van Horn
Ho incontrato questa storia un po’ alla Kurt Vonnegut molti mesi fa, mentre ricercavo per un articolo sulla logistica di Amazon, l’azienda che in un ventennio ha reso Jeff Bezos il quinto uomo più ricco del pianeta con un patrimonio di quasi 50 miliardi di dollari.
La racconto qui, all’inizio di un pezzo su quattro delle più grandi aziende tecnologiche al mondo (tra le quali Amazon), perché, di fronte alle loro ambizioni – al modo in cui pianificano di occupare ulteriormente interi settori dell’economia, della società e della nostra esistenza – mi sembra che siamo tutti abitanti di Van Horn, Contea di Culberson, Texas. Se non ignari, quantomeno distratti.
“Tutte le nuove tecnologie possono fare il bene o il male ma io sono fondamentalmente ottimista sulla natura umana e sulla nostra possibilità di usare la tecnologia per il bene” – Marc Zuckerberg,15 settembre 2015

GAFA
E' un acronimo che ha iniziato a circolare sui giornali francesi alcuni anni fa. Sta per Google, Apple, Facebook, Amazon: i tech titans di cui mi occuperò. Il termine è apparso per la prima volta su Le Monde a fine 2012 e, come ha spiegato Alexis Delcambre, caporedattore economico del quotidiano parigino: “Non lo usiamo spesso, ma quando lo facciamo è per sottolineare che si tratta di un tema sensibile, come le politiche fiscali di queste compagnie o il trattamento dei dati personali”. In breve tempo GAFA è stato adottato anche da altri media e dalle stesse istituzioni europee che stanno cercando, con alterne vicende, di processare Google per violazione delle norme antitrust. Negli Stati Uniti invece viene perlopiù giudicato un rigurgito di revanscismo europeo, quando non un tentativo politico di delegittimazione per agevolare la nascita di controparti locali ancora tutte da immaginare.

Alcuni numeri
Delle quattro lettere che compongono la sigla, la più cospicua è la A di Apple. Con un valore d’impresa di 670 miliardi di dollari, il colosso di Cupertino guarda tutti dall’alto. Seguono Google a 354 e, più staccate,Facebook a 245 e Amazon a 240. Il valore complessivo delle loro capitalizzazioni azionarie invece è di 1.700 miliardi di dollari, ovvero un 30% del totale (5,400 miliardi) delle altre 96 imprese del Nasdaq 100, trecento miliardi di dollari sopra il PIL della Corea del Sud o della Spagna. Se questi 1.700 miliardi fossero magicamente trasformati in denaro liquido e distribuiti tra i 300.000 dipendenti a tempo pieno delle quattro aziende, ognuno di essi si sveglierebbe più ricco di quasi sei milioni di dollari. Nessuno di questi dati, per quanto impressionanti, comunque misura la liquidità. Da tempo quella di Apple si aggira intorno ai 200 miliardi di dollari (tradotta in PIL, ne farebbe il 53esimo paese più ricco al mondo subito prima del Perù), tanto che nel 2012 un investitore chiese, senza alcuna ironia, al CEO Tim Cook se avesse mai pensato di“ comprare” la Grecia. La risposta di Cook fu: “Abbiamo considerato diverse cose ma non quella”.

“Nell’industria della tecnologia, dove le idee rivoluzionarie determinano le prossime grandi aree di crescita, devi metterti costantemente alla prova per continuare a essere rilevante” – Larry Page, fondatore di Google, 10.8.2015

9 gennaio 2007
Fino a qualche anno fa era facile dire di cosa si occupavano queste multinazionali: Apple produceva computer, Google organizzava le ricerche su internet, Facebook ci permetteva di postare imbarazzanti status in terza persona (seriamente… ve li ricordate?), Amazon vendeva libri. Oggi non è più così semplice e domani lo sarà ancora meno. La prima sliding door l’abbiamo forse attraversata il 9 gennaio 2007, quando, davanti a una platea in adorante attesa, Steve Jobs presenta al mondo il primo iPhone: un gadget che ribalta i rapporti di forza tra Apple e il mondo della telecomunicazione tradizionale, e dimostra che non c’è mercato che una grande azienda IT non possa integrare nel proprio ecosistema. Un’idea già in nuce nel documento che personalmente considero il manifesto “corporativo-filosofico” del capitalismo tecnologico: la lettera che Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, indirizzarono agli azionisti in occasione della IPO della società nel 2004. Una lettera che cominciava con queste parole: “Google non è un’azienda convenzionale. Non intendiamo diventarlo” e proseguiva con “non siate sorpresi se ci vedrete fare piccole scommesse in aree che sembrano molto speculative o persino strane se rapportate al nostro attuale mercato”.
In undici anni le “piccole scommesse” sono aumentate per numero e dimensioni, e così, ad agosto, Larry Page ha annunciato la creazione di Alphabet: una conglomerata che raccoglie tutte le attività in cui lui e Sergey Brin sono coinvolti, della quale Google – nel senso del motore di ricerca – è soltanto la frazione più redditizia. Nel frattempo Facebook non è più solo un social network, attraverso un’aggressiva politica di acquisizioni è anche proprietario del più utilizzato servizio di messaggistica istantanea (Whatsapp) e della più grande collezione di fotografie UGC al mondo (Instagram), nonché di Oculus, una compagnia che si occupa di realtà virtuale considerata la next big thing in ambito mobile. Amazon ormai commercia in qualunque genere di bene, dai libri agli alimentari fino al noleggio di capre per pareggiare l’erba in giardino, ha costruito una delle reti logistiche più avanzate al mondo, possiede un proprio servizio cloud di cui si serve anche la CIA, sta sperimentando l’uso di droni per le consegne, ha creato pressoché da sola il mercato degli ebook e, nei tempi morti, prodotto serie televisive vincitrici di premi importanti. E questo potrebbe essere solo  un inizio.

Tessier Ashpool
La mega-corporazione che ha infiltrato ogni braccio dell’economia e governa ormai l’intero pianeta è uno dei più consolidati tòpos della fantascienza contemporanea. Prendete per esempio i Tessier-Ashpool immaginati da William Gibson nel romanzo Neuromante. Nata dall’unione tra gli eredi di due famiglie molto potenti, i finanzieri svizzeri Tessier e gli imprenditori australiani Ashpool, la dinastia Tessier-Ashpool ha ramificazioni in qualunque mercato, ha guidato la colonizzazione dello spazio ed è assurta a uno status di para-immortalità criogenica, con i suoi membri che vivono ritirati in una residenza orbitante, lontani da un mondo sempre più ingovernabile. Anche, se non soprattutto, a causa loro.
Ma di sicuro è soltanto il frutto della fantasia di uno scrittore.

Una risposta
Nel 2012 Farhad Manjoo, uno dei migliori giornalisti tecnologici americani, scrisse per Fast Company un pezzo, dal titolo “The Great Tech War of 2012”, in cui prevedeva i futuri terreni di scontro tra le quattro aziende in questione. L’articolo circolò molto e Manjoo fu invitato a parlarne in diversi programmi televisivi e radiofonici. Compreso uno show di NPR, dove Farhad disse una cosa che mi è rimasta in testa per tutto questo tempo: “Già ora le vediamo [le multinazionali in questione, nda] entrare nel mercato dei media, della televisione, del cinema e dei libri, ma anche nel settore bancario, delle infrastrutture della telecomunicazione e in ogni altra transazione. Stanno estendendo i loro rami verso ogni genere di prodotto, non solo quelli diretti a farsi guerra tra loro. In molti sensi, queste quattro compagnie stanno cercando di “distruggere” (disrupt nell’originale) qualunque altro mercato dell’economia”.

“La gente non sa quello che vuole finché non glielo mostri. Per questo non mi affido mai alle ricerche di mercato. Il nostro compito è sapere leggere le cose prima che vengano scritte” - Steve Jobs, da Steve Jobs di Walter Isaacson

Distruzione ≠ Disruption
Ciò che noi chiamiamo “distruzione”, con pessimismo schiocchino e retrò (allerta ironia), nella Silicon Valley viene definito disruption, un termine che si potrebbe tradurre con l’italiano “disgregazione”, che ha una sfumatura un po’ più benevola, meno definitiva e minacciosa. Dà più l’idea di un Lego che viene smontato per essere assemblato in una nuova configurazione e meno quella di una palla da demolizione che butta giù un palazzo. Diciamo quindi che la precedente frase di Manjoo si potrebbe riformulare così: “queste quattro compagnie stanno cercando di disgregare qualunque mercato dell’economia”. Delineato da Clayton M. Christensen nei libri Disruptive Technologies: Catching the Wave (1995) Innovator’s Dilemma (1997), per farla molto breve il termine disruptive indica qualunque “innovazione in grado di creare un nuovo mercato che prenda infine il sopravvento su un mercato pre-esistente”. È evidente come il concetto sia alla base del successo delle aziende in questione e ancora il loro principio ispiratore. Chi, nel 2000, ha intuito il potenziale di un lettore mp3 più funzionale, seppure più caro della concorrenza, e ci ha costruito intorno un “negozio” chiamato iTunes? Non i produttori di walk-man, lettori mp3 economici e nemmeno l’industria discografica. Chi pensava si potesse costruire un impero della rivendita online a partire dai libri? Di sicuro non le case editrici. Chi, nel 1998, credeva che il mercato delle ricerche online, se adeguatamente ottimizzate, fosse così ricco? Non certo AltaVista e Yahoo. Chi immaginava che a più di un miliardo di persone potesse interessare tanto pubblicare le foto dell’addio al celibato e le proprie opinioni da ubriachi? Ok… forse questo non è l’esempio migliore.

Altri numeri

  • 1,49 miliardi: gli utenti attivi su Facebook mensilmente. 968 milioni quelli attivi giornalmente.
  • 700 milioni: gli iPhone venduti dal 2007. 350 milioni: gli iPod nel periodo 2000-2012. 224 milioni: gli iPad. 25 miliardi: le canzoni vendute su iTunes al febbraio 2013.
  • 3,5 miliardi: le ricerche effettuate quotidianamente su Google. 1,700 miliardi quelle effettuate ogni anno (l’89% delle ricerche globali, Yahoo è seconda al 3,5%). Passano da Google il 93% delle ricerche totali in Europa, ma “solo” il 64% negli Usa.
  • 137 milioni: gli acquisti effettuati settimanalmente su Amazon.com.
  • 2,5 milioni: i metri quadrati totali dei magazzini Amazon nel mondo.

I fondatori
Una cosa che, Apple esclusa, accomuna tutte queste aziende è di essere ancora guidate dai loro fondatori, tutti piuttosto giovani. Con i suoi 31 anni il più “verde” è Marc Zuckerberg, seguito da Larry Page e Sergey Brin, entrambi quarantaduenni, e infine Jeff Bezoz che di anni ne ha 51. La cosa è meno irrilevante di quanto sembri. La combinazione tra l’età e il fatto che tutti siano ancora in sella alle loro cavalcature, rende questi personaggi a) acutamente consapevoli di come funzionano e in quale nuove direzioni possono portarle, b) molto ambiziosi e investiti in modo estremamente personale, quasi narcisistico, nell’estensione dei loro imperi e nella realizzazione delle loro visioni, c) ricchi di tempo per allargare ancora di più la loro impronta sul mondo.
Quanti di noi conoscevano il nome del CEO di Volkswagen prima del recente scandalo? E quello di Exxon Mobil? O di Nestlé? Nel solco tracciato da Steve Jobs, Marc Zuckerberg e compagni non sono semplici dirigenti ma personaggi a tutto tondo: potenti come capi di stato, popolari come celebrità, discussi quanto entrambe le categorie. Frequentano talk-show, generano meme, orientano dibattiti e dividono l’opinione pubblica tra chi ne ammira l’ascesa imprenditoriale e chi, specie dopo Snowden, ne è sempre più sospettoso. Ogni loro parola è analizzata al microscopio e ingigantita dalla cassa di risonanza dei media. Le decisioni di nessun altro capo d’azienda vengono rese note a – e discusse da – una comunità così ampia di persone. Se domani BP annunciasse di voler cercare il petrolio con piccole atomiche tattiche (ci hanno già provato, che credevate?), non sono sicuro che si accenderebbe una conversazione animata quanto quella sul nuovo pulsante di Facebook o sul redesign del logo di Google. Se questo è  garanzia di una certa trasparenza, accountability e controllo del loro operato da parte dell’opinione pubblica, allo stesso tempo contribuisce ad aumentare esponenzialmente la feticizzazione e l’influenza sull’immaginario di questi personaggi. E non so cosa alla fine conti di più, specie visto che non parliamo di politici ma di manager che non hanno nessun elettorato a cui rispondere al di fuori del loro azionariato più influente.

Il mondo in cui vivremo
La “faccenda dei fondatori” si fa ancora più delicata non appena si realizza che – per le risorse economiche e intellettuali di cui essi dispongono – il mondo in cui viviamo e vivremo diventa ogni giorno un po’ più simile alle idee di questo ristretto club di persone. Questo forse non suona preoccupante finché si tratta di decidere tra una tastiera fisica o un touch-screen per il nostro smartphone, ma è  più problematico quando si parla d’istruzione (come ha fatto Zuckerberg pochi giorni fa), di ricerche sulle intelligenze artificiali o sul genoma umano.
Anche senza finire in territori tanto dilemmatici, ci si può domandare quanto sia “sana” la vocazione di un personaggio come Jeff Bezos. Il quale, prima che ai profitti di Amazon (di fatto ancora irrisori rispetto ai volumi di vendita), è stato finora più interessato a investire ogni centesimo di fatturato per entrare in un numero sempre maggiore di mercati ed estromettervi qualunque concorrente, sia esso un altro rivenditore online o la bottega all’angolo. Una buona notizia se siete azionisti di Amazon, ma con quali conseguenze sui dipendenti dell’azienda, e, soprattutto, a quali costi sociali?

“Non si tratta di un gruppo di persone intrinsecamente malvagie. Ma incidentalmente sono portatrici di una nuova aggressiva ideologia che è in grado di accumulare significative quantità di potere – esattamente perché è rappresentata da individui che si ammantano di retorica progressista” – Julian Assange, cofondatore di Wikileaks
Buck Calhoun, il nuovo CEO di Facebook
The Data Drive è un progetto di Daniel Kolitz, Adrian Chen, Sam Lavigne e Alix Rule, quattro giovani di Brooklyn che si occupano, a vario titolo, di indicarci gli aspetti più paradossali della cultura web. Una volta caricato il dominio thedatadrive.com, ci si trova davanti a un’interfaccia che sarebbe la copia fedele della bacheca di Facebook… se la bacheca di Facebook si presentasse come un rozzo collage cartaceo. Addentrandosi nella miriade di sottopagine che popolano il sito, appare però presto chiaro che la satira di Data Drive non si esaurisce in questa gag. Proprio come in una bacheca di Facebook, navigando di link in link per altrettanto rozze versioni di popolari siti (Buzzfeed, New York Times, Inc. etc), ci si costruisce una prospettiva sul più assurdo dei mondi possibili e, soprattutto, ci si avventura in una storia così spassosa e surreale che potrebbe costituire il nocciolo di un nuovo Arrested Development. Così spassosa e surreale che potrebbe diventare vera. La storia di come Marc Zuckerberg si è dato alla macchia e di come Facebook, ormai alla frutta, è stato acquistato da un texano rubizzo che si presenta così ai suoi nuovi utenti: “Amici: lasciate che mi presenti. Il mio nome è Buck Calhoun. Indosso un sombrero enorme e vendo materassi al chilo. Non che io sia perfetto. Quando guido, guido ubriaco. Quando chiamo mio figlio lo prendo in giro per la balbuzie. E dalle nove di questa mattina, sono il CEO di questa compagnia tecnologica”.
Una delle morali della farsa credo sia questa: le persone passano, le strutture di potere che hanno creato restano. E nulla garantisce che non finiranno, un giorno, per sbaglio, in mani meno illuminate di quelle che le hanno assemblate.
Si può quindi legittimamente credere a Larry Page quando dichiara che l’interesse della società è il “suo obiettivo primario”, o allo stesso Zuckerberg quando si dice ottimista sulla possibilità di usare la tecnologia per il bene. Sarebbe però poco lungimirante elargire patenti di fiducia, senza data di scadenza né verifiche periodiche, a un’intera cultura, basandole soltanto sulla “parola data” dagli individui che la incarnano in quel preciso momento.

Alcuni problemi
Esiste una serie di problemi nello scrivere di questo argomento. Il primo è che, quasi in una versione ultimativa dell’ipotesi di Sapir-Whorf, una lingua naturale sembra uno strumento troppo vago per organizzare e “mostrare” un pensiero intorno alla smisuratezza dei fenomeni in questione. Provarci lascia un leggero retrogusto di velleitarietà, un po’ come cercare di svitare i bulloni della Torre Eiffel armati solo di una pinzetta.
C’è poi il fatto che, da sempre, il tema del “progresso” tende a polarizzare tra integrati tecnofili e tecnofobi apocalittici.
Per i primi “innovazione” è una parola buona a prescindere, la Silicon Valley è la Firenze del XXI secolo e il progresso è, o si rivelerà, la soluzione a ogni problema, compresi quelli creati dal progresso stesso lungo il suo cammino. Per i secondi l’apocalisse tecnologica è imminente, se non addirittura auspicabile e da incentivare, e ogni nuovo fatto tecnologico diventa un’ulteriore munizione ai loro argomenti.>
C’è spazio per una posizione intermedia tra esaltazione e luddismo?
È possibile ammettere delle perplessità circa il laissez faire con cui assecondiamo gli imperativi di pochissimi individui, senza passare per oscurantisti? È troppo chiedere, a coloro che invece nutrono dello scetticismo, di aggiornare i propri strumenti interpretativi e di non demonizzare il gioco nel suo insieme ma semmai le condotte dei singoli giocatori? Si può insomma “uscire vivi” dal determinismo tecnologico?
E poi: è accettabile sospettare di qualcuno che sostiene, e talvolta dimostra concretamente, di voler impegnare grandi risorse nella soluzione di problemi cruciali del mondo, senza risultare delle ingrate coscienze infelici? E, d’altro canto, si possono rimarcare le differenze che, proprio per la ragione di cui sopra, in positivo esistono tra l’ethos di alcuni esponenti di questo nuovo capitalismo e i loro predecessori, senza passare per degli utili idioti?  È insomma possibile trovarsi allo stesso tempo in una condizione di concreto disagio e sincera ammirazione dopo aver guardato, per esempio, questo talk di Larry Page?
Infine il paradosso più grande di tutti: sto scrivendo questo articolo su un laptop Apple, ho fatto ricerca usando Google e, una volta che sarà finito, lo pubblicheremo sulla pagina Facebook di Prismo. Sono stato più io ad arricchire le aziende che, in qualche modo, sono responsabili del “concreto disagio” che ho appena confessato, o sono state più queste aziende ad avere reso la mia vita, o almeno alcune parti di essa, più ricca?
“La nostra intera economia in pratica è un gigantesco copione di fantascienza” - John Herman, editor di The Awl

Una teoria dei monopoli
L’applicazione del libero mercato a internet si risolve spesso in una parafrasi di Matteo 13:12, il passo in cui l’evangelista scrive: “A chi ha sarà dato e vivrà nell’abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Per effetto della legge di Metcalfe, della  scalabilità globale di queste attività e del fatto che in rete domanda e offerta tendono a incontrarsi con precisione sulla casella del miglior offerente, internet pare incline a sviluppare posizioni di monopolio. Secondo, tra i tanti, il vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel che ha proposto di spezzare il monopolio di Google in Germania, questo è un problema. Secondo Peter Thiel, fondatore di Pay Pal, azionista di Facebook al 2,5%, iscritto eccellente al Partito Libertario d’America, no.
A sentire lui, l’ossessione di politici ed economisti per la “competizione”, come isobara del mercato e garanzia del consumatore, è figlia di una concezione sorpassata dell’economia che ignora la forma dei mercati tecnologici. Nel suo libro Zero To One: Notes on startups or how to build the future, Thiel sostiene infatti che l’unica funzione della competizione sia di individuare i perdenti, dato che i vincenti sono, per definizione, proprio coloro che la competizione se la sono lasciata alle spalle. In questa visione, la rendita di monopolio non solo non sarebbe da demonizzare e regolamentare, ma addirittura da promuovere: costituisce l’incentivo all’innovazione.
Secondo Thiel insomma, se Google è uscita vincente dalla gara per le decine di miliardi di dollari che ogni anno transitano dall’advertising online, ora merita di godere una cornucopia di profitti assicurati, almeno finché un cambio di paradigma e/o di piattaforma non farà emergere un’azienda capace di disgregarne lo status-quo, il tutto senza bisogno di interventi regolatori e intrusioni politiche. Proprio ciò che Google ha fatto con chi lo ha preceduto, Apple con Microsoft, Microsoft con IBM, IBM con AT&T (nei cui Bell Labs si sono scritte le prime pagine di queste vicende) e così via di darwinismo tecno-economico. È questo il passaggio Zero to One – inteso non in senso aritmetico ma informatico – a cui si riferisce il titolo del libro, e a cui pensa Larry Page quando dice di non essere interessato a progetti che promettono crescite incrementali (1, 2, 3, 4, 5) ma solo a quei rari momenti Eureka! in cui l’interruttore di un intero mercato passa da spento ad accesso (appunto da 0 a 1), come in uno dei relè studiati da Claude Shannon per la sua teoria dell’informazione, forse il singolo contributo teorico più influente dell’ultimo secolo. Di sicuro il più influente per la storia in questione.
Inoltre, nota Thiel, la rendita di monopolio è ciò che permette a Google di investire miliardi in nuova innovazione non immediatamente redditizia, contribuendo così a creare ulteriore abbondanza, aprire nuovi mercati, provare “a migliorare il mondo” etc. Ed è proprio questa rendita a fare sì che Google & co prendano molto seriamente le implicazioni etiche delle loro azioni, dato che – dice Thiel: “In affari i soldi possono essere o una parte importante o l’unica cosa che conta. I monopolisti possono preoccuparsi anche [corsivo mio, nda] di altro, i non-monopolisti no”.
Per quanto avvincente, l’argomento di Thiel ignora alcuni casi recenti in cui queste aziende hanno approfittato della propria posizione di monopolio in maniera non trascurabile. Occasioni in cui, i più maliziosi tra noi potrebbero pensare che, dopotutto, anche il darwinismo tecno-economico necessiti talvolta di ricostituenti legislativi. Se, nonostante passaggi davvero spiacevoli, ricatti prossimi allo strozzinaggio e dibattiti sui rischi d’impoverimento dell’offerta culturale scaturiti da lettere co-firmate da premi Nobel, l’ormai famigerata disputa Amazon/Hachette è più un caso di monopsonio (una forma di mercato difficilmente regolamentabile e, peraltro, spesso tipica aree depresse, il che non dice bene dell’industria editoriale) che di monopolio; è difficile non vedere un “precedente” nel modo in cui Google starebbe favorendo i propri servizi e prodotti a scapito di quelli offerti da terzi. Ed è preoccupante proprio perché Google non è (o quantomeno non era in origine) un competitore in nessun mercato in particolare, ma un’entità obliqua che tiene le leve dell’asimmetria informativa, o, come scrive Frank Pasquale nel suo libro The Black Box Society, un “hub che setta i parametri della competizione per gli altri”.
Il fatto è che più Google entra ed entrerà in nuovi mercati, più offre e offrirà nuovi servizi, e più la sua imparzialità viene e verrà messa alla prova. Un po’ come una partita di calcio in cui l’arbitro è anche il terzino di una delle due squadre. La risposta di Google è che la prominenza data ai suoi servizi è nell’interesse degli utenti, che vogliono avere informazioni nel più breve tempo possibile, e che, in ogni caso, la concorrenza è sempre lì, a un click di distanza. A suo modo è una replica legittima dato che, in fondo, su quali basi si può impedire a Google di implementare le proprie politiche industriali? Nella sua legittimità però è una risposta che non fa che sottolineare il dilemma in cui ci troviamo e sollecitare un nuovo modo di pensare ai dati. Anche perché ogni volta che Google ci cela qualcosa, la sua assenza diventa automaticamente un’ “ignoranza che ignoriamo”, una nube della non conoscenza dietro la quale, magari, già ora si trova proprio quel cambio di paradigma a cui allude Thiel, l’innocentista.

Utenti e contenti
Facebook decide di cambiare il suo algoritmo e mostrare nel nostro feed più aggiornamenti dalla nostra cerchia di amici e meno notizie dalle pagine a cui ci siamo iscritti? Ottimizzazione. “Sono gli utenti a volerlo”. “È nel loro interesse” è la risposta di Facebook. Google decide di dare maggiore priorità ai siti “ottimizzati” per cellulare? Idem. Apple decide che iOS 9 supporterà gli ad blocker? Con patate.
Amazon poi è così preoccupata della soddisfazione dei clienti da averne fatto un’ossessione divorante, specie per chi ad Amazon ci lavora, e il primo punto del proprio decalogo per i nuovi assunti, ed è quasi sorprendente che “stiamo lavorando per voi” non sia ancora lo slogan di nessuna di queste aziende. Come ha scritto lo stesso Frank Pasquale sul Guardian: “Praticamente ogni riconfigurazione della vita online può essere razionalizzata, a fatto compiuto, come un ‘tentativo di migliorare l’esperienza dell’utente’. Ma se non ci credessimo?”.
E in effetti ci sarebbero ottime ragioni per non crederci, o almeno non del tutto. Solo per rimanere ai casi sopracitati: è probabile che la maggior parte degli utenti di Facebook preferisca ricevere più aggiornamenti dai propri amici e meno da altre pagine (o perlomeno da altre pagine che non siano Upworthy), ma è anche vero che è nell’interesse di Facebook – la cui strategia nemmeno troppo velata è di creare dipendenza per servizi gratis finché… ops, non sono più gratis! – spingere le pagine a pagare per raggiungere un maggior numero di persone . È senz’altro vero che, nel 2015, quando ormai il 30% delle ricerche provengono da mobile, è meglio indirizzare un utente verso un sito ottimizzato per smartphone, ma lo è altrettanto che è nell’interesse di Google e dei suoi introiti pubblicitari spingere fette sempre maggiori della rete verso questo tipo di ottimizzazione. Di sicuro la possibilità di utilizzare degli ad blocker su iOS 9 farà felici molti utenti, ma è più probabile che Apple si sia decisa per questa mossa per danneggiare i ricavi di Google.
Se la guerra Google – Apple è un affare tra colossi che se la vedranno tra loro, non altrettanto si può dire dei milioni di pesci piccoli che in qualche modo vengono danneggiati da queste decisioni: attività senza grandi budget per la comunicazione da spendere che, da un giorno all’altro, si sono ritrovati l’audience decimata da Facebook; il ristorante con un sito non ottimizzato per mobile sparito dalle ricerche di Google e dagli appetiti di possibili clienti nelle vicinanze; creatori di contenuti che, come ha spiegato Nilay Patel in un articolo non del tutto imparziale su The Verge, dalla presenza di ad blocker su iOs9 hanno solo da perdere. Contrattempi che capitano quando decidi di entrare nel giardino murato di qualcuno senza avere le chiavi del cancello.
Per quante controversie di questo tipo possano sollevare, il fatto è che tutte queste ottimizzazioni, comprese le succitate, sono… per l’appunto solo ottimizzazioni, con un rapporto costi-benefici tale che sono gli utenti stessi a guardarle con benevolenza. E a ignorare, o a voler ignorare, i loro aspetti più controversi e ambivalenti, come ha spiegato sempre Farhad Manjoo a proposito del fatto che Android traccia i movimenti degli smartphone su cui è installato. In pratica è solo la scala a cui operano queste aziende e il fatto che, per via del network effect, il mercato non presenta alternative credibili alla loro offerta e quindi alle loro condizioni, a rendere problematiche e problematicamente unilaterali le loro decisioni. Va da sé che maggiore è il numero di mercati soggetti all’influenza di questo ristretto gruppo di aziende, e più estesa diventa l’unilateralità di questo potere para-legislativo.

“Google raccoglie tutta questa informazione da tutti i cellulari Android e grazie a essa riesce a creare una rappresentazione accurata dei flussi di traffico in una città. Se ti dico ‘Google sta tracciando dove vai’, la cosa può suonare davvero male e potresti decidere che non vuoi che sappia dove stai andando. Ma se ti dicessi che stanno tracciando chiunque e che puoi andare al lavoro venti minuti più velocemente perché vedi un ingorgo sul tuo cellulare, potresti diventare più docile rispetto alla questione” - Farhad Manjoo a NPR, 3 novembre 2011

Progetti X
Personalmente ormai divido i futuri progetti dei GAFA in due insiemi: quelli “normali”, anche se magari dieci anni fa non ce li saremmo aspettati da loro, e quelli “meno normali”.
Nel primo insieme metto, per esempio, la corsa alla prima macchina che si guiderà da sola. Una corsa dove, grazie ai dati delle sue mappe, Google è al momento in vantaggio ma a cui partecipa anche Apple – al punto che Jeff Williams, vice-presidente delle operazioni di Apple, ha di recente dichiarato che l’azienda di Cupertino vede le auto come “il dispositivo mobile definitivo” – ed entrambe le aziende potrebbero presto superare le ricerche di marche quali BMW, Audi, Mercedes e Toyota.
Sempre nel primo insieme: i vestiti intelligenti. Apple ha di recente assunto e lautamente retribuito gli ex CEO di Burberry e Yves Saint Laurent, un designer di tessuti impermeabili da Patagonia, un esperto di tessitura industriale da Nike e un esercito di ingegneri biometrici. Del resto perché tirare fuori lo smartphone dalla tasca, quando si può rispondere a una chiamata semplicemente passando una mano sul lembo di quegli stessi pantaloni che ti danno anche informazioni sul tuo battito cardiaco? La stessa cosa pensa anche Google che infatti ha lanciato il Progetto Jacquard per la realizzazione di tessuti molto particolari.
Ancora nel primo insieme: la televisione e la casa. Lo scorso 9 settembre Apple ha presentato la nuova Apple TV, un prodotto nato nel 2007 ma mai veramente decollato, tanto che a Cupertino non si presentavano novità in merito dal 2012. Ora però, grazie all’esplosione di servizi come Netflix, i tempi potrebbero essere maturi per rimettere la televisione al centro dei piani di queste aziende. E infatti, pochi giorni dopo l’evento di Apple, Amazon ha annunciato la sua Fire TV, ovviamente più economica ma anch’essa dotata di assistente vocale al quale si potranno rivolgere domande tipo: “mostrami tutti i film in cui De Niro e Al Pacino hanno recitato insieme” (attenzione:  Sfida senza regole NON è Heat – La sfida). Il tutto mentre il nuovo CEO di Google, Sundar Pichai, lo scorso anno metteva in chiaro che la televisione occupa i pensieri di Mountain View quanto qualunque altro device: “Dobbiamo portare Android e Chrome su ogni schermo che importi per gli utenti, per questo siamo concentrati su telefono, gadget indossabili, macchina, televisione, computer e persino il posto di lavoro”. Se vi sembra che da questo elenco manchi solo la casa; no c’è anche quella.
Presentati tra maggio e giugno scorso, Apple HomeKit e Google Brillo sono i primi concreti passi dei due colossi nel famigerato internet delle cose. Software che permettono di regolare, con un semplice comando vocale, un termostato intelligente (per esempio quelli che costruisce Nest, azienda non a caso comprata da Google e ora parte di Alphabet). Suona bene? Forse. Di sicuro suona meglio finché non ci si rende conto che, per ragioni di compatibilità e separazione degli ecosistemi volute soprattutto da Apple, adottare una o l’altra di queste alternative in futuro potrebbe vincolare le nostre scelte anche per i vestiti che indossiamo, gli elettrodomestici che compriamo, l’auto che guidiamo e, non ultimo, il modo in cui paghiamo.
Già perché, infine, in un limbo tra primo e secondo insieme eccoci alle transazioni economiche ovvero come Apple potrebbe aver trovato un modo per…. disgregare il sistema bancario per come lo conosciamo.
Se il pensiero che, un piccolo manipolo di aziende, già ora tra le più ricche e potenti al mondo, potrebbe in futuro avere grande influenza anche su rilevanti percentuali di industrie enormi come quelle dei trasporti, dell’intrattenimento e delle transazioni finanziarie, non vi dà nemmeno un po’ di vertigine, forse una recente preoccupazione di Elon Musk, co-fondatore di Pay Pal, e ora CEO di Tesla, non esattamente un tecnofobo né l’ultimo arrivato in materia, lo farà. Nella sua biografia, Musk infatti scrive che una delle sue più grandi paure è che Larry Page, peraltro un suo caro amico, possa involontariamente finire col creare “una flotta di robot intelligenti in grado di distruggere l’umanità”.
E benvenuti così alla sezione “progetti un po’ meno normali” dei GAFA. Segue asciutta rassegna stampa di alcuni titoli:

Ora, si può essere d’accordo che le ansie di Musk siano, almeno al momento, eccessive e premature. Vale però  la pena domandarsi se la decisione di creare un’intelligenza artificiale possa essere lasciata, in toto, a delle iniziative private. Secondo Larry Page – che con un intenso “shopping” di startup di roboticadeep learning e l’assunzione del profeta della singolarità Ray Kurzweil, ha assemblato forse il più avanzato laboratorio di ricerca al mondo (Facebook e Apple ne stanno seguendo le orme) – si tratta di uno sporco lavoro che “qualcuno deve pure fare“; anche perché un’intelligenza artificiale potrebbe aiutarci, una volta nutrita di dati come quelli che sta raccogliendo Google Genomics, a risolvere problemi all’apparenza insolubili, sconfiggere malattie incurabili e persino la morte. Secondo lo stesso Ray Kurzweil – un uomo che ha previsto la nascita di un simil-Google quando ancora non esisteva il fax, che ritiene che un giorno vivremo per sempre in una forma o nell’altra, che il destino della mente umana è di colonizzare l’intero universo e che entro il 2045 un computer sarà un miliardo di volte più intelligente della somma di tutte le menti umane sul pianeta – l’avvento di un’intelligenza artificiale coinciderà con l’Eschaton, la realizzazione di un Eden sulla terra in cui il genere umano sarà liberato dal lavoro, dalla sofferenza e, attraverso l’analisi dei lasciti di un defunto, un’intelligenza artificiale sarà persino in grado di riportarne in vita un avatar indistinguibile dall’originale. Secondo, oltre a Musk, tra gli altri, Bill Gates, Steven Hawking e il filosofo Nick Bostrom, direttore del Future of Humanity Institute di Oxford, un’intelligenza artificiale rappresenta un totale salto nell’ignoto dalle implicazioni etiche e materiali vastissime, se non il più grande pericolo alla sopravvivenza della specie dalla creazione dell’atomica.
Ed eppure è proprio verso quell’ignota frontiera che gli intelletti di Larry Page & co. sono diretti, ed è lì che – ci piaccia o meno – ci stanno portando. Perché? Immagino la risposta sia semplice: perché hanno i mezzi per farlo.

segue in seconda colonna
pagina