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Elementi e complementi . (appunti IIi.1) |
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RICOGNIZIONI SUL FORMALISMO 7
Qualcosa sulla critica della pura visibilità, del formalismo, e altro
(Un rapporto non sistematico di esperienze di letture comuni)
Nella sua Storia della critica d’arte, redatta e pubblicato per la prima volta in America nel 1936, Lionello Venturi – che confessa senz’altro che l’oggetto di questa sua storia è il “giudizio” artistico.[1], cioè del critico quale ministeriale di grazia e giustizia – riassume così il pensiero che sarebbe all’origine della corrente critica del puro visibilismo:
- «.La teoria della pura visibilità è l’opera di Konrad Fiedler (1841-95). Egli parte dalla distinzione di Kant tra una percezione soggettiva che è determinazione di sentimento di piacere o di pena, e una percezione obiettiva che è rappresentazione di una cosa. Egli afferma che il campo proprio dell’arte è la percezione obiettiva. Visione e rappresentazione, intuizione ed espressione, vengono in tal modo identificati nell’opera d’arte. E il carattere essenziale dell’arte risulta dal concetto di “contemplazione produttiva”. Questo riportare l’arte al problema della conoscenza, questo escludere dall’arte il sentimento, questo ridurre l’arte a conoscenza della forma, a pura visibilità, era un modo per tornare al criticismo kantiano. Ma si tratta di un kantismo alla Herbart. E infatti il Fiedler si oppone all’estetica dell’idealismo in nome del realismo estetico. Inoltre, come Herbart, il Fiedler rifiuta di riconoscere un problema non solo del bello, ma anche dell’arte in generale, e afferma che esistono soltanto le arti particolari. Ed egli vuole occuparsi soltanto delle arti visive… la pittura, la scultura e l’architettura hanno dunque le loro leggi, che non sono quelle della natura, ma della visibilità… E’ il modo di considerare gli oggetti, parziale per la scienza come per l’arte, che separa la natura artistica dalla scientifica. Il modo artistico è quello della rappresentazione, della forma… La storia dell’arte dev’essere la storia di quella particolare conoscenza che è ottenuta mediante l’arte, e non la rappresentazione fantasiosa dell’arte, come espressione dello spirito dei tempi e dei popoli, né la storia di tipo filologico, pedante, meschina…». [2]
In un più recente saggio dedicato a Dino Formaggio, raccolto in un numero della rivista Eikasia, Andrea Pinotti – dopo una breve rassegna della serie di negazioni che Konrand Fiedler aveva decisamente avanzato al pensiero estetico nei suoi lavori risalenti agli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento – aggiunge che nel pensiero di Fiedler
- «…viene infine esclusa la concezione dell’arte come imitazione della natura: come il linguaggio non è mera traduzione di pensieri per così dire già pronti, così l’arte non è mimesi di una natura già data, che si tratterebbe solo di rendere nella rappresentazione figurativa, visibile.
- L’arte è natura, poiché esprime la natura come visibilità, ma non è imitazione della natura. L’arte, per dirla con Klee, non imita il visibile, ma rende visibile. L’artista – afferma Fiedler – “intanto è artista in quanto ha nell’arte il mezzo di esprimere cose tali che solo attraverso l’arte possono giungere all’espressione”.
- È la teoria humboldtiana del linguaggio non come érgon (opera), ma come enérgheia (attività), ad essere qui rivitalizzata ed estesa al fare artistico.
- Riagganciandosi al criticismo kantiano, e all’idea di una costituzione soggettivo-trascendentale (formale) della realtà, Fiedler sottolinea la produttività del vedere artistico (si ricordi il già citato accento posto da Formaggio sull’atto costruttivo dell’esprimere): non esiste realtà al di fuori di quella percettiva e rappresentativa; non c’è quindi un mondo reale “là fuori”, che l’artista poi dovrebbe “copiare” sulla sua tela. Arte e realtà in Fiedler coincidono, nel senso che l’arte (figurativa) è una modalità di conoscenza della realtà nel suo aspetto visibile: l’arte – dice Fiedler – “è linguaggio al servizio della conoscenza.».[3]
Ci sembra proprio di iniziare ad uscire dall’asfittico cranietto del critico, educatore di popoli e civiltà, nocchiero di artisti e capobanda del gusto – proprio grazie a Dino Formaggio, per il quale con il lavoro l’arte, “anziché essere, come spesso s’è supposto, un vizio solitario, diventa un inno alla vita associata”[4].
- «.Vastissima è la gamma dei fenomeni di pura esteticità. Tutti hanno lampeggiamenti estetici e in tutte le sensibilità passa, come un raggio di luce, la gioia estetica, non fosse altro che come estasi contemplativa. È lecito supporre che anche l’idiota che sta seduto a riscaldarsi al sole sulle vecchie pietre del suo paese ha la sua ora estetica, la sua ora estatica. Al polo opposto, poi, abbiamo i silenziosi rapimenti degli esteti raffinatissimi. Il mandarino sensibilista, il fragile decadente raccolgono nell’angolo del loro occhio socchiuso, o nel breve sorriso, ineffabili misteri estatici. Spesso, obbligati a dar ragione, a esprimersi, han ben poco da comunicare; hanno monotoni temi fasciati dal silenzio delle lunghe ruminazioni; non comunicano perché son come i petali di certi vecchi fiori appassiti: a scuoterli vanno in polvere. Tra questi due poli e lungo tutta la gamma intermedia dell’esteticità è possibile cogliere e descrivere tutta una psicologia di interessanti fenomeni. Ma l’artisticità comincia esattamente dove l’esteticità finisce. Comincia con l’atto costruttivo dell’esprimere, fisico, in concreta lotta con le materie, comincia con la tecnica del comunicare.».[5]
«.La prassi artistica, come ogni altro tipo di prassi intesa alla produzione di oggetti (segni, significati), abbiamo visto, è l’emergere da un continente storico di prassi umana socializzata. E questo non solo perché l’uomo sociale è più ricco spiritualmente dell’uomo che vive in solitudine (come anche esperimenti in tal senso hanno dimostrato), e non solo perché l’uomo è animale sociale fin dalla definizione di Aristotele, ma perché è l’arte – propriamente l’arte in quanto produzione di segni e comunicazioni, di progetti di comunicabilità – che non solo tiene aperte le vie degli scambi di sensi amorosi e non amorosi dell’uomo e del mondo tra gli uomini, ma, come già Kant aveva visto, chiama intorno a sé intere società possibili ed intercomunicanti tra di loro. L’arte è, in questo senso, un problema di pienezza umana e di intercomunicabilità sociale nello stesso suo atto di porsi.».[6]
Il suo Fenomenologia della tecnica artistica.[7] deve molto alla raccolta degli Aforismi di Fielder.
- «.Col Focillon, che col vigore di un vivacissimo ingegno ha dato la più recente teorizzazione dell’arte come forma, ci solleviamo di colpo ad altro livello e torniamo a battere le vie del formalismo più puro in un’atmosfere vivificata dall’esperienza d’una critica aderente all’individualità e alla varietà dei fenomeni artistici.».
Così lo storico italiano dell’arte Roberto Salvini – sollevato da un frainteso ritorno della personalità artistica nella storia dell’arte.[8] – ha commentato il contributo teorico dello storico francese nell’introduzione ad una antologia di scritti da lui curata: La critica d’arte della pura visibilità e del formalismo.[9].
Nonostante questa sua debolezza ideologica nei confronti dello spirito eccezionale dell’artista (ed è inutile farvi notare che ciò richiamerebbe la nostra critica del “battilocchio”, più concorde con Kubler nel ridimensionare l’uomo geniale), noi useremo la sua presentazione per farci raccontare qualcos’altro sul modo di intendere l’arte osservando le forme visibili piuttosto che i contenuti iconici.
- «.Il Focillon si trova da una parte in linea con il Fiedler quando afferma che l’opera d’arte è fatta anzitutto per essere veduta, e rivela anzi un concreto e non certo casuale punto d’attacco col filosofo tedesco quando intende l’attività della coscienza come attività formatrice e distingue poi l’attività dall’intelletto, tutta volta a foggiare la realtà secondo la necessità della conoscenza discorsiva, da quella della fantasia artistica che si appropria anch’essa, ma in modo diverso, la realtà, pensandola, sentendola, vedendola come forma. D’altra parte egli si apparenta al Wolfllin in quanto vede la storia dell’arte come un processo di metamorfosi, ossia di mutamenti di forma governati da leggi interne alla forma stessa. […]
- L’arte è forma e misura dello spazio, ma questa forma non va intesa come immagine o come segno, poiché ciò implica la rappresentazione di un oggetto: se il segno significa qualcosa, la forma significa se stessa, e il contenuto della forma non è che un contenuto formale.
- Così le forme costituiscono come un ordine autonomo, o, se vogliamo, un mondo; il mondo appunto delle forme. Ma di fronte al principio delle metamorfosi sta il principio degli “stili” (che sono poi gli stili storici come il Romanico il Gotico e via dicendo), che tende prima a saggiare, quindi a fissare, infine a dissolvere i rapporti tra le forme.
La forma non è immobile, ma rappresenta come un arresto momentaneo: ciascuna forma è la sintesi delle metamorfosi passate e l’annunzio delle trasformazioni future, in ciascuna di esse è tutto il passato e tutto l’avvenire. E sarebbe un movimento tumultuoso se non intervenissero gli stili a coordinarle e fissarle. Ma la vita delle forme è governata da una logica interna, che anima anche la vita degli stili.
- Così ogni stile attraversa diverse fasi.[10], che, più lunghe o più brevi, più o meno intense e pronunciate, si ritrovano fondamentalmente analoghe in tutti. E qui il pensiero del Focillon si ricollega a quello del Wolfllin, anche se la sua mentalità rifugga dalle strettoie degli schemi e se assai più viva in lui sia la coscienza dell’individualità delle forme, dell’individualità delle metamorfosi determinate dalla quasi demoniaca (sic!) vitalità delle forme. […] … questa vita non si svolge secondo una curva costante ma secondo un intrecciarsi di linee, e in ogni momento del tempo è in certo senso il passato, il presente e il futuro; e il movimento non si svolge uniforme, ma a scatti, sicché alla nozione di momento va aggiunta la nozione di avvenimento; che è come un urto, urto “relativo o assoluto”, “contatto e contrasto fra due evoluzioni ineguali o metamorfosi all’interno di una di esse”.
- Così anche il rapporto fra la vita delle forme sfugge ad ogni meccanicismo: se l’ambiente etnico o geografico influisce sulla vita delle forme, le forme stesse creano d’altra parte esse stesse l’ambiente, imprimono il proprio suggello all’umanità. “E’ questa molteplicità di fattori che si oppone al rigore del determinismo.[11] e che, spezzettandolo in un giuoco di innumerevoli azioni e reazioni, provoca da tutte le parti fessure e discordanze. In questi mondi immaginari, di cui l’artista è il geometra e il meccanico, il fisico e il chimico, lo psicologo e lo storico, la forma, attraverso il giuoco delle metamorfosi, va perpetuamente dalla sua necessità alla sua libertà”.[12]. Ma le forme hanno vita nello spazio e nella materia. Lo spazio dell’arte non è lo spazio dato immutabile della vita, ma è “materia plasmabile e mutevole”. […]
- La materia su cui la forma si imprime non è d’altra parte una massa passiva: si potrebbe dire anzi che la materia impone la propria forma alla forma. Ogni materia possiede, in altre parole, una propria vocazione formale, sicché la forma subirà delle metamorfosi nel passare da una materia all’altra.
E qui si inserisce la nozione di tecnica.: che non è il mestiere né un complesso di ricette culinarie, “ma una poesia tutta d’azione” e per così dire “il mezzo delle metamorfosi”.
Il punto d’incontro, il luogo geometrico delle attività della forma, della materia e della tecnica è il tocco : che è il momento in cui la mano e il suo arnese destano la forma dalla materia. Proprio attraverso questo concetto del tocco il Focillon giunge al superamento del determinismo [sic!] della materia [l’A. piuttosto avrebbe dovuto dire della forma], all’inveramento delle teorie materialistiche del Semper. Il tocco infatti, vero punto di contatto fra l’inerzia e l’azione, sovrappone a quella dell’oggetto la propria forma, forma che è struttura poiché è insieme peso, densità e movimento. […]»
Naturalmente nel citare interi passi di questa introduzione all’antologia, noi abbiamo tralasciato quelle osservazioni che ci sono parse più delle opinioni personali dell’A. che delle descrizioni limitate ad una esposizione aderente al pensiero degli storici nominati e antologizzati. Così ad esempio troviamo sparsi qua e là dei giudizi troppo inclini ad enfatizzare quei deboli indizi che possono consentirgli di interpretare personalmente la sostanza del pensiero originale – qui ad esempio di Focillon, ma in generale dei teorici del “formalismo”, contaminati di materialismo – per volgerla troppo facilmente al vitalismo bergsoniano o allo “spirito” (crociano?).
Difatti, proprio nel brano successivo a quello appena citato, egli stesso ammette di metterci il proprio zampino idealista:
- «.In sostanza – e questo per quanto rimanga implicito nelle pagine della Vie de formes mi sembra l’unica interpretazione valida di questo concetto centrale del Focillon – è la materia che trapassa ed è assorbita dallo spirito, che la riduce da dato bruto ed inerte a principio di attività e ne fa una viva componente dello stile.».
Ma, viceversa, a noi sembra proprio che fin dall’inizio nel pensiero formalista tutto si dispone per esplicitare che la materia (nell’arte) non viene trapassa e non viene assorbita dallo spirito, piuttosto è lo “spirito” che giunge a conoscere la materia (bruta) attraverso l’attività (abile)… della mano – preciserebbe Focillon.
- “Nel momento in cui inizio a scrivere vedo le mie mani, che sollecitano, che stimolano la mia mente… Sono le mani ad imporre una forma, un contorno, e, nella scrittura, uno stile”[13].
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Tuttavia, attingiamo ancora dal testo di Salvini alcuni altri brani espositivi che, benché sempre riferiti al Focillon, illustrano, in qualche modo generico ma significativo, la linea del pensiero formalista.
- «.Il problema della valutazione estetica dell’opera d’arte, della distinzione fra arte e non-arte, non interessa in primo luogo la critica del Focillon. I giudizi di valore li enuncia sempre di passata e quando non si riducono a impressionistiche osservazioni, non di rado colorite di naturalismo, sulla finezza tecnica, sulla docilità della resa di effetti naturalistici, essi consistono nella constatazione dell’obbedienza dell’artista alle leggi formali che sono conseguenza diretta dell’energia vitale del mondo delle forme, oppure del riconoscimento della particolare ingegnosità … col quale è stato risolto un determinato problema formale: un problema cioè che scaturisce dalla funzione cui è destinata l’opera d’arte in rapporto al complesso monumentale in cui si inserisce, o dalla funzione che entro una stessa opera una parte adempie rispetto al tutto. L’interesse centrale della critica del Focillon verte, al contrario, sullo svolgimento storico dell’arte, sulla logica interna che muove e determina il continuo organizzarsi delle forme in rapporti sempre nuovi e pur sempre necessari fra loro entro l’àmbito di una morfologia e di una sintassi caratterizzanti un determinato stile storico.»[14] […] «.Non l’esame dei monumenti ordinato per epoche e per scuole, ma la descrizione degli sviluppi delle forme sotto i vari punti di vista… Uno dei capitoli centrali del libro è dedicato pertanto allo studio della “collocazione” (emplacement) e della “funzione” delle decorazioni plastiche…»[15] […] «.L’attenzione del critico è primamente rivolta al divenire delle forme, alla storia delle metamorfosi più che all’esame delle singole forme … Le sue acute analisi formali hanno schiuso alla critica nuovi orizzonti, hanno sottratto il tanto fertile terreno del Medioevo francese all’esclusivo dominio degli iconografi e degli archeologi … Hanno soprattutto delineato una grammatica storica del linguaggio plastico, studiandone sui testi la formazione del repertorio lessicale, il sorgere e il vario atteggiarsi della morfologia, le sempre nuove articolazioni della sua sintassi e hanno descritto infine il dissolversi di questo organismo espressivo, il graduale apparire, con l’approssimarsi dell’arte gotica, di un nuovo vocabolario, di una nuova morfologia, di un nuovo organismo sintattico, L’analisi formale del Focillon ha richiamato insomma l’attenzione su di un’infinità di valori inediti, di locuzioni e di inflessioni linguistiche variamente diffuse ma inosservate finora…».[16]
E la materia, dunque? che posto avrebbe nell’arte?... non nell’estetica, ché poco o nulla la tollera.
Noi non sappiamo dire se il pensiero di Dino Formaggio può dirsi sulla linea del formalismo e della pura visibilità.[17], ma ci sembra difficile che senza tener conto di tali linee analitiche il suo pensiero avrebbe potuto svilupparsi per rispondere alla nostra domanda.
- «.La materia, per l’arte, nella sua duplice forma di materialità naturale e di materialità sociale, non è un cattivo sogno, un incubo da fuggire, un fantasma peccaminoso da esorcizzare, ma il suo nutrimento, la sua vita. La materialità naturale entra nell’arte non soltanto come l’informe da formare, l’insensato da sensizzare; ma, come un processo già in atto di forme e di sensi, possiede anch’essa le sue unità temporali di senso e di società. Vi sono svolte nell’arte, ad esempio dell’architettura (comparsa del cemento armato o di certi metalli), in dipendenza delle svolte della prassi materiale e della lavorazione di nuove materie. La materialità sociale, in cui la materialità naturale e lavorata si riflette, entra nell’arte anche per le finestre chiuse. Respira nel respiro dell’artista più solitario, trama nella sua sensibilità dalla nascita, dagli intorni ambientali, dalla dialettica dei gruppi, diventa carne della sua carne intuitiva, crea direzione e tipi di sintesi nella percezione, nella memoria, nell’immaginazione, determina, insieme alla materialità naturale, gli orientamenti e i limiti, le nuove latenze e le nuove spinte progettuali dell’artista; essa non costituisce un corpo generico per la prassi artistica, ma questo corpo, ora e qui nascente nella progettualità e nella funzionalità significativa.».[18]
Omissis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’arte astratta
Nelle pagine di una storia dell’arte del ventesimo secolo – da noi già utilizzata per aiutarci a condurre questa nostra inchiesta intorno all’arte e alle questioni che la sua esistenza solleva e propone alla nostra particolare osservazione – possiamo riscontrare come quella istanza di negazione dell’antropomorfismo che Bordiga fa risalire alla scuola aristotelica, abbia agito potentemente nel XVII secolo con Galileo e Newton, e quindi su tutti gli sviluppi della scienza successivi, ed infine trova sbocco concreto anche nell’arte del secolo scorso.
- «.Dalle pitture preistoriche ai quadri fauve o alle costruzioni cubiste, tutte le opere d’arte di una qualche importanza rimangono, in un modo o nell’altro, subordinate alle apparenze del mondo visibile … Che la qualità di un’opera non debba confondersi con l’illusionismo dell’immagine non è mai stato seriamente messo in dubbio da nessuno, ma nessuno, nell’arco di qualche millennio, ha nemmeno mai immaginato che una scultura o una pittura potesse esimersi dal rappresentare, mettiamo, un corpo, un volto, animali vivi o morti, frutti o fiori, un paesaggio campestre, profili architettonici, navi o conchiglie, in altre parole un frammento qualsiasi del mondo, raffigurato in una forma magari solo allusiva, semplificata o deformata. L’imitazione, se già non fosse un fine in sé e per sé, sembrerebbe in ogni caso imprescindibile: rifiutarne la necessità costituiva un elemento di rottura importante, spettacolare, introdotto in primo luogo dai pittori astratti. Per cui l’astrazione finiva per rappresentare uno degli emblemi della modernità, spesso definita proprio in opposizione all’arte figurativa…. Questa [arte astratta] grande avventura artistica, una delle più spettacolari del XX secolo, è iniziata nei primissimi anni dieci, coni quadri di Delaunay, Kupka, Kandinskij, Picabia, Malevic, Mondrian e alcuni altri. La maggior parte di tali artisti ha anche scritto testi per esporre i propri programmi, dichiarare le proprie intenzioni; le quali obbediscono a due logiche che si intrecciano e si oppongono al tempo stesso. Per alcuni, l’astrazione si nutre di spiritualità: affrancata dalla natura, essa intrattiene rapporti privilegiati con l’invisibile. Per altri, invece, l’astrazione celebra in tutta libertà i fasti del visibile, radicati in una esplicita materialità. Quali che siano le loro scelte, tutti gli artisti si confrontano con le medesime questioni di fondo, che si affacciano in termini identici nel corso di un intero secolo: questioni che riguardano il contenuto e la finalità delle opere.».[19]
Ora, qui le questioni di fondo non riguarderebbero più la forma e il contenuto, ma il contenuto e la finalità. E ancora una volta vediamo riproporsi un dualismo che, sganciatosi dalla forma fisica (ottica), sembrerebbe affidare la funzione dell’arte alle “scelte” e alle “finalità” dell’artista singolo… se non fosse che noi abbiamo appreso a non contare affatto sulla rispondenza reale di pretese libertà produttive e finalistiche da parte dei singoli in una società che ancora non conosce e controlla sé stessa (benché ora, nei primi decenni del XXI secolo, siamo in una fase in cui questa società “potrebbe” praticamente conoscersi, controllare e gestire sé stessa e le sue “cose”, se solo riuscisse a scorgere, nel suo seno, gli elementi che ne anticipano il futuro).[20].
Ovviamente noi qui ci riferiamo sempre all’arte dell’occidente; e non è affatto casuale che molti teorici e storici dell’arte (Semper, Riegl, ecc.) maturano il loro pensiero nella seconda metà del XIX secolo, ossia nell’ultima fase di sviluppo del colonialismo occidentale che li mette in contatto con popoli e culture che si esprimevano tradizionalmente con modalità diverse dall’iconismo mimetico perseguito dalla rappresentazione occidentale, e che appariva ai loro occhi (occidentali) soprattutto, se non esclusivamente, con valore “decorativo”, per nulla o scarsamente espressivo, e soprattutto “seriale”, semplificato, geometrizzato o geometrico, ripetitivo e continuo – tutti aspetti, per altro, congeniali alla macchinica industriale e mercantile dei paesi colonizzatori.
- «… riusciamo spiegarci la volontà di costruire una grammatica della linea e del colore solo reinserendola nel contesto della fine del XIX secolo, quando è emerso uno spiccato interesse per le arti decorative. E inoltre, il modello del linguaggio poetico, che ha consentito di immaginare le forme dell’arte astratta quando questa non esisteva ancora, è quello dei circoli simbolisti degli anni 1880. Riconoscere e analizzare il ruolo che hanno svolto questi modelli sullo sviluppo dell’arte astratta, non significa sminuire l’importanza di quest’ultima, né l’audacia di cui i pionieri hanno dato prova lanciandosi, non senza un po’ di timore, in un mondo ancora inesplorato.».[21]
Personalmente, abbiamo sentito dichiarare ultimamente dal neo Presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, che anche l’economia si trova su un terreno ancora inesplorato … e lo stato delle cose sembra farsi veramente preoccupante …
- «.Le teorie formaliste mettono l’accento quasi esclusivamente sui materiali plastici, trascurando la dimensione del senso, a volte in modo provocatorio, come quando Clement Greenberg dichiara che “il quadro e la statua si esauriscono nella sensazione visiva che producono. Non c’è niente da identificare, da associare o su ciò poter riflettere, ma tutto da sentire. La poesia pur cerca di suggerirci un’infinità di cose, l’arte puramente plastica il minimo possibile … Le qualità puramente plastiche o astratte dell’opera d’arte sono le sole che contano” [22]. Ma qual è il motivo di questa tendenza di tante teorie formaliste – non tutte felici – ad escludere la dimensione del significato? Ci sono diverse ragioni, raramente esplicitate. Una concerne la famosa questione dell’autonomia dei mezzi espressivi. Secondo questo schema mentale (che del resto ritroviamo anche in alcuni artisti), i mezzi pittorici, la linea, il colore, la struttura, la faktura dei russi, insomma, tutti i mezzi espressivi plastici sono stati per molto tempo subordinati all’immagine..Sono diventati poi completamente liberi e “autonomi” con l’arte astratta; hanno, cioè, iniziato ad aver valore solo per se stessi, invece di veicolare il senso dell’immagine (somiglianza, imitazione,.ecc.). L’idea di autonomia dei mezzi plastici, che da mezzi sono diventati fini in sé, ha recato un danno considerevole. L’errore principale di questa prospettiva, che consiste, in effetti, in una metafora biologica (lo sviluppo dell’essere diventato indipendente e autonomo, in grado di emanciparsi da ogni subordinazione), è quello di occultare la dimensione del senso con il mito romantico della “liberazione”: i mezzi plastici hanno vinto la dittatura della figura e della rappresentazione, e hanno ormai valore solo per se stessi. Ma quest’idea dell’autonomia dei mezzi [23], in un certo senso è legata all’arte per l’arte [24] nella misura in cui tali mezzi plastici perdono la loro “utilità”, perché non serve più a rappresentare l’immagine, hanno avuto una conseguenza perniciosa: superata la subordinazione all’immagine, insieme al problema iconico è stata cancellata tutta la questione semantica. A questa situazione si è giunti perché immagine e soggetto sono stati intesi come un’unica cosa, come se il soggetto di una tela fosse solo quello rappresentato dall’immagine.».[25]
Per Baar [1935], in effetti, “l’arte astratta, nella misura in cui è astratta, non ha nessun interesse per il soggetto, ciò . . . . . . . . . . . . . Omissis
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[1] . Nulla è così lontano dalla nostra comune concezione quanto tale giudizio critico di una storia dell’arte intesa come attività spirituale: “Se poi esaminiamo i fattori principali del giudizio ci accorgiamo che essi sono: 1) il fattore prammatico, che è dato dall’opera d’arte su cui il giudizio è portato; 2) il fattore ideale, che è dato dalle idee estetiche del critico, e, in genere, dalle idee filosofiche e dai bisogni morali di lui, insomma, dalla civiltà cui egli aderisce, e che egli contribuisce a formare; 3) il fattore psicologico, che dipende dalla personalità del critico.” (Lionello Venturi, Storia della critica d’arte, ed. Einaudi, Torino 1964, p. 45) – …Sembrerebbe più che altro una storia delle attività spirituali dei critici d’arte, ovvero intesa come storia delle opinioni personali dei critici d’arte e della loro influenza nella produzione dell’arte…
[2] . Ibidem, pp. 286-87.
[3] . Andrea Pinotti, Raffaello ha bisogno delle mani . Estetica, tecnica e scienza dell’arte in Dino Formaggio, nella rivista di filosofia Eikasia n.62, febbraio 2015, p. 93.
[4] . Dino Formaggio, L’Arte . Enciclopedia filosofica ISEDI, ed. Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1973, pag. 140. – E può anche darsi che qui il forte richiamo del fattore lavoro sia dovuto al trascinamento in estetica della retorica apologetica del lavoro quale categoria spirituale metastorica – tipica di quegli anni settanta, corporativisti e operasti, tuttora difficile da sradicare – ma quantomeno dinamizza e rimuove, il dualismo tra produzione ordinaria e produzione sublime, tra prodotto industriale e prodotto unico….
[5] . Dino Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, ed. Nuvoletti, Milano 1953, pp. 10-11. Disponibile nel sito
[6] . D. Formaggio, L’Arte , cit., pag. 140
[7] . A. Pinotti 2015, op. cit., pag. 89: “La riflessione filosofica di Dino Formaggio sulla questione della tecnica artistica – avviata fin dalla tesi di laurea Studio sul rapporto tra arte e tecnica. Saggio storico-critico sopra alcune correnti estetiche contemporanee (1938: relatore Antonio Banfi, controrelatore Adelchi Baratono), e consegnata infine al volume Fenomenologia della tecnica artistica (1953), che quella tesi rielabora, aggiorna e completa – chiama in causa tutte le questioni nodali dell’estetica come disciplina filosofica, sia nella sua accezione di teoria della sensazione, sia in quella di teoria dell’arte; ma investe anche gli ambiti adiacenti della psicologia, della sociologia e della storia dell’arte; non manca infine di un orizzonte di riflessione in senso lato politica, relativa ad ambiti di esperienza e di fare e di tecnica non alienati, alternativi all’attuale società, malata di tecnicismo e regolata da “una nuova unità di misura che gli scienziati hanno creato per esprimere adeguatamente la nuova potenza distruttiva delle macchine atomiche (la megamorte: mega-death = 1 milione di morti)”.
[8] . A proposito di talento e di genio, quindici anni prima di Salvini, Kubler si era espresso in questi termini: “La meccanica della fama ha questo di particolare, che esalta il talento dei primi arrivati e minimizza quello degli altri, quando il talento stesso non è che una predisposizione relativamente comune senza notevoli diversificazioni. Più che la gradazione del talento importa infatti la diversità del momento e delle occasioni. Non si può naturalmente prescindere da molti altri elementi accessori del talento: energia fisica, buona salute e capacità di concentrazione non sono che esempi dei doni naturali di cui la sorte può favorire un artista. D’altra parte le nostra concezione di genio artistico ha subito, nell’agonia romantica del secolo scorso, tali incredibili trasformazioni che ancora oggi siamo involontariamente portati a considerare il «genio» come un dono congenito o come una innata differenza qualitativa tra uomini, e non come una fortuita congiunzione di attitudine e situazione in una entità straordinariamente funzionale. Non esiste alcuna prova definitiva che il «genio» sia ereditario. La sua ricorrenza sotto l’influsso dell’educazione o in condizioni favorevoli all’apprendimento di un’arte, come nel caso di figli adottivi cresciuti in famiglie di musicisti, sta invece ad indicare che il «genio» è un prodotti di educazione più che una caratteristica generica” (Kubler, cit. pag. 15).
[9] . Roberto Salvini, La critica d’arte della pura visibilità e del formalismo, ed Garzanti, Milano 1977, antologia con scritti di Konrad Fiedler, Adolf von Hildebrand, Alois Riegl, August Schmarsow, Heinrich Wölffiìlin, A. E. Brickmann, Bernhard Berenson, Clive Bell, Roger Fry, Adrian Stokes, Jacques Mesnil, Henri Focillon, Roberto Longhi, Lionello Venturi (sic!).
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[10] . Salvini, cit, pag. 51 seg.. N.d.R.- L’A. illustra e riassume queste fasi degli stili che Focillon avrebbe distinto nella successione di fase sperimentale, classica, di acme, del raffinamento, ed infine barocca.
[11] . N.d.R.- Qui il concetto di determinismo in Focillon sembrerebbe alquanto approssimativo .
[12] . N.d.R.- Non troviamo forse in questa chiusa di frase la “metamorfosi” di quella di Marx: dal mondo della necessità a quello della libertà.?
[13] . Focillon, da Éloge de la main, che è il testo aggiunto con il quale Focillon accompagna Vie de formes, cit., pag. 105.
[14] . R. Salvini, op. cit., pag. 52 seg..
[16] . Ibidem, op. cit., pag. 55.
[17] . E difatti leggiamo: “Dalle ricerche kunstwissenschaftlich [scientifiche dell’arte] Formaggio deriva per la propria riflessione sulla problematica della tecnica artistica importanti temi, che possiamo riassumere nei titoli relativi al ruolo della corporeità (Schmarsow e le estetiche psico-fisiologiche dell’Einfuhlung [empatia]), alla questione dei materiali e delle prassi artigianali (Semper, Grosse) e alla distinzione di estetico ed artistico (Fiedler, Dessoir, Utitz). Ci concentreremo qui su quest’ultimo punto, per la sua centralità nel discorso di Formaggio, e perché dalla possibilità di una rigorosa distinzione dei due ambiti discende la possibilità di circoscrivere con altrettanto rigore una fenomenologia della tecnica specificamente artistica”. (A. Pinotti 2015, op. cit., pag. 90)
[18] . D. Formaggio, L’Arte , op. cit., pag. 140
[19] . Denys Riout, Qu’est-ce l’art moderne? (Gallimard, Paris 2000); it. L’arte del ventesimo secolo, ed. Einaudi, Torino 2002, pgg. 19 e 20. – Spiritualità e Materialità… Tale dicotomia, considerata presente nei testi di artisti astratti, è stata in qualche modo messa in discussione dai redattori di questo almanacco – cfr. nømade n°7.2013.
[20] . “Adesso c'è una macchina per conoscere che comprende e riassume tutto ciò che l'ha preceduta. In quanto a intelligenza non è niente di speciale, ma con i suoi bit booleani ci permette di elevare alla massima potenza la nostra, biologica. Digitale e analogico, macchina uomo, si ritrovano in un tutto fino a questo momento sconosciuto. Se la macchina, in via di principio, risolve qualsiasi problema computabile, ciò che è arduo non è rispondere, ma è formulare la domanda”; Fare, dire, pensare, sapere, in n+1 n°38, Torino, dicembre 2015, pag. 56.
[21] . Gorge Roque, Qu’est-ce l’art abstrait? (Gallimard, Paris 2003); it. Che cos’è l’arte astratta?, ed. Donzelli, Roma 2004, pag. 272. – Tanto più viene a svalutarsi il ruolo della persona in rapporto allo sviluppo dei rapporti sociali nella storia, tanto più notiamo immancabile, nel pensiero borghese, un automatico e ricorrente ergersi ideologico in sua difesa da contrapporre al suo innegabile, e innegato, declino.
[22] . C. Greenberg, Towaerds a Newer Laocoon (1940).
[23] . N.d.R. - … che comunque è cosa completamente diversa dall’autonomia dell’Arte.
[24] . N.d.R. – Sembra qui, tra velate parole, far ancora capolino il vecchio anatema maturato nella guerra fredda del realismo socialista.
[25] . G, Roque, cit., pag. 273 seg.
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