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Elementi e complementi . (appunti IIi.1) |
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RICOGNIZIONI SUL FORMALISMO 6
La sintesi, l’analisi e la santissima trinità
- «.…l’essenza di tutto il pensiero consiste nella riunione di elementi della coscienza in una unità. Quest’ultima proposizione è semplicemente falsa. In un primo luogo il pensiero consiste tanto nella scomposizione degli oggetti della coscienza nei loro elementi, quanto nella riunione di elementi omogenei in una unità. Senza analisi non c’è sintesi. In secondo luogo il pensiero non può, se non vuol prendere un granchio, che raccogliere in una unità quegli elementi della coscienza nei quali, o nei prototipi reali dei quali, questa unità esisteva già da prima. Se si sussume una spazzola da scarpe sotto l’unità mammifero, ci vuol altro perché le crescano le mammelle.».[1]
Qualcuno di noi non avrà sicuramente particolare difficoltà a riconoscere queste parole di Engels.
“L’essenza della pittura fiorentina del quattrocento è rappresentata dall’affresco della Trinità in santa Maria del Fiore di Masaccio”, potremmo sentir dire da una guida turistica, o anche leggere da qualche parte. E’ palesemente una proposizione sintetica che magari esprime pure qualcosa di totalmente vero e reale; tuttavia lo afferma prima ancora di dimostrarlo.
Ma questo è ciò che accade comunemente nel corso della nostra vita quotidiana, il cui scorrere è costellato prevalentemente dal succedersi automatico di moduli già bell’e fatti, tanto nel camminare come nel comunicare. Se di questi moduli si volessero però conoscere le componenti e le leggi che le regolano, bisogna allora fermarsi e scendere per guardare meglio nel cofano motore dell’allegra vetturetta automotrice che ci portava a spasso nell’incanto delle colline toscane [2].
Per poter dimostrare la giustezza della nostra proposizione sulla Trinità del Masaccio, si dovranno isolare e analizzare tutti gli elementi concreti presenti nella preposizione stessa per metterli al confronto dei fatti: la pittura del quattrocento, la prospettiva, l’affresco e la tecnica realizzativa, la Trinità in quanto simbolo religioso del cattolicesimo, l’ambiente in cui l’affresco è stato collocato e il pubblico a cui è destinato, le forme e i colori con le quali le figure si organizzano nello spazio, la capacità ideativa e realizzativa di Masaccio (che ovviamente non potrà crocifiggere una spazzola ferita al costato [3])… e così via via, cercando di comprendere l’interagire reciproco di ciascuna componente per combinarsi nell’unità effettiva che infine si fa valere all’occhio come sensibile prodotto finale di un complesso processo lavorativo da confrontare con altri prodotti similari dello stesso periodo che hanno tutti per scopo principale quello di appagare la devozione cristiana – mentre il taoista di passaggio magari si appaga per tutt’altri aspetti che, prima face, con l’opera gli si mostrano sensibilmente… mentre agli europei magari prima facie si presenta come stazione di un mistero glorioso da meditare…
- «.L’economia volgare non fa altro, in realtà, che interpretare, sistematizzare e difendere le idee di coloro che, impigliati [irretiti] nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l’economia volgare si senta particolarmente [pienamente] a suo agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto contraddittori – e ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente [immediatamente] coincidessero – e che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per sé, quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno, ma corrispondono alla concezione volgare [per il modo di vedere ordinario]. Perciò l’economia volgare non si accorge minimamente [non ha il più lontano sospetto] che la trinità da cui essa muove [parte]: terra-rendita, capitale-interesse, lavoro salariato o prezzo del lavoro, sono tre composizioni prima facie impossibili.».[4]
In questo brano di Marx potremmo forse semplicemente sostituire “economia volgare” con, ad esempio, “artistica volgare”, e scoprire così che anche a quest’ultima certe preposizioni artistiche le appaiono tanto più evidenti di per sé, quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno tanto più corrispondono alla concezione volgare di un modo di vedere ordinario… anche la Santissima Trinità di Masaccio. Ma l’esperto volgare è completamente soddisfatto, poiché egli è pervenuto alla profonda intuizione del devoto che, grazie anche al dualismo che prima facie esiste fra la forma visibile e la sua predicazione, preferisce ripagare con preghiere e preci il lavoro dell’artista assolvendolo dall’obbligo di comprenderlo... [5]
E’ chiaro che anche per dimostrare il grado di verità espresso nell’enunciato sull’opera di Masaccio che abbiamo preso ad esempio, ci vuole ben altro di un procedimento analitico; tuttavia quest’ultimo è un compito necessario per arrivare alla sintesi e al giudizio artistico, mentre da parte sua l’opera ha tutta l’aria di esserci arrivata immediatamente.
Appare anzitutto chiaro che l’arte si fa valere ai sensi in quanto produzione materiale prima di farlo come produzione “spirituale”, per la quale l’opera richiede ausili esterni da parte di altri già ben definiti ambiti.
L’opera d’arte visuale è, cioè, un fenomeno primieramente ottico prima di diventare un fenomeno “culturale” e “cultuale”, di cui l’artista è artefice predeterminato dal modo di produzione, distribuzione e consumo dell’epoca in cui si trova ad arte-fare, cioè ben prima e indipendentemente dall’imprimere o meno il proprio discutibile tratto personale e (consapevolmente o inconsapevolmente) quello della sua epoca; mentre indiscutibili magari sono tutt’altri caratteri distintivi che, indipendentemente dal suo controllo, nel decorso dell’intero processo di lavorazione sono impressi e permangono nella materialità morfologica del prodotto, cristallizzati indelebilmente nel suo mostrarsi fenomenico…
Certamente una forma economica non è una forma geometrica, la vita economica non è la vita biologica, e così via… e i modi per indagare questi diversissimi oggetti sono certo diversi tra loro, ma il metodo per conoscerli non può che essere comune a tutti …
Perdonate ora se ci permettiamo di ricordare qui quanto già detto in precedenza nel paragrafo su La forma, la merce e la parola nel XIX secolo. – giusto così, tanto per procurarci la comodità di proseguire.
- «.Prima che il prodotto del lavoro dell’uomo (e l’opera d’arte) potesse considerarsi come forma del tempo (Kubler 1961) la forma doveva prender vita propria (es. Focillon 1934), crescere e trasformarsi sulla base delle sue stesse configurazioni fisiche, geometriche e matematiche (es. Thompson 1917) per condividere con l’uomo la medesima organicità che lo lega all’intero arco temporale della sua vita materiale di specie. E non è per caso che l’avvio di questo percorso di studio dell’arte è stato favorito a partire da problemi posti dal guscio (Semper 1849) e dall’ornamento (Riegl 1893) ... Diciamo così che, tolto di mezzo il pregiudizio antropico, ci si trova a contatto diretto con l’oggetto isolato, solo con le emergenze alle superfici (guscio) del proprio specifico contenuto; il quale agisce materialmente su tale limite (membrana, rivestimento) dando forma sensibile (visibile e tattile) ad una varietà di oggetti che stabiliscono rapporti solo con sé stessi e tramite attributi che gli sono propri (motivi geometrici, decorazioni lineari, ecc.).
Da questa primaria astrazione (riduzione) sembra essere praticamente partita – come vedremo – la linea “puro visibilista” o “formalista” dello studio e della critica dell’arte, che è andata, per così dire, precisando sempre più l’analisi descrittiva del fenomeno artistico in generale, della storia dell’arte, dell’estetica e della pratica o tecnica artistica. Presentato in questo modo, sembra proprio che se l’ornamento o la decorazione potessero parlare ripeterebbero parole simili a quelle che Marx immagina in bocca alle merci: «.Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio»[6] … e la serialità con cui si producono entrambe (merce e ornamento), oltre che contribuire a rendere plausibile l’accostamento ne stabilisce la storicità, collocando in qualche modo il formarsi del pensiero “puro visibilista” necessariamente nell’epoca della maturazione industriale e mercantile europea, che si accompagnava con lo sviluppo di tutte le scienze e le tecniche nel corso dell’intero Ottocento.».[7]
La decorazione
“Che cos’è dunque la «decorazione»?”, si chiede Susanne Langer in Sentimento e forma .
- «.Gli ovvii sinonimi di questo termine sono “ornamentazione”, “abbellimento”; ma, come molti sinonimi, essi non sono del tutti esatti, “Decorazione” non si riferisce alla bellezza soltanto come “abbellimento”, né suggerisce l’aggiunta di un ornamento indipendente. “Decorazione” è parola associata al termine “decoro” e indica conformità e conformazione.
Ma che cos’è che si conforma ed è conformato? Una superficie visibile. L’effetto immediato di una buona decorazione è quello di rendere la superficie, in qualche modo, più visibile : un bel bordo su una stoffa non solo ne sottolinea l’orlo, ma ne accentua le pieghe, e un disegno regolare su tutta la superficie, se è buono, unifica più che variare la superficie stessa. In ogni caso, anche il disegno più elementare serve a concentrare e trattenere la vista sulla zona che adorna.
La somiglianza delle forme della pittura decorativa del disegno geometrico che si ritrovano su vasi e stoffe, remi e vele e tatuaggi, nei più disparati angoli della terra è così straordinaria che André Malraux ha avanzato a spiegazione di ciò, l’ipotesi di una unità della cultura preistorica. L’idea non è assurda, anche rispetto ai motivi fondamentali… […]
Sembra per lo meno possibile che quelle forme elementari – linee parallele e motivi zig-zag, triangoli cerchi e volute – abbiano una base istintiva nei principî della percezione; che in essi l’impulso ad una sorta di organizzazione del campo visivo giunga ad esprimersi così direttamente da non subire in pratica alcun influsso culturale, manifestando un’esperienza visiva nei suoi termini più elementari.».[8]
La decorazione, quindi, libera i sensi, che si trovano soli con sé stessi ad applicarsi a quelle forme che sono conformi e congeniali all’esperienza elementare delle sensibilità. E potremmo provare a riformulare l’ipotesi di Marx: «.Se le forme potessero parlare, direbbero: il nostro valore di figura mimetica può interessare gli uomini. A noi, come forme visive, non compete. Ma quello che, come forme visive, ci compete è la nostra figurabilità. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come forme nello spazio. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come fenomeni ottici.».
- «.Il disegno decorativo offre a colui che percepisce … una logica del vedere… I principî del vedere che si rivelano nelle strutture delle forme decorative sono principî della visione artistica, donde gli elementi visivi vengono ritagliati dall’amorfo caos della sensazione, per adattarsi non a nomi e predicazioni, come i dati della conoscenza pratica, ma al sentimento biologico e alla sua efflorescenza emotiva, la “vita” al livello umano. Essi sono, ab inizio, diversi dagli elementi che si adattano al pensiero discorsivo; ma la loro funzione nella struttura della coscienza umana è probabilmente altrettanto importante e profonda. L’arte come il discorso, è dovunque la caratteristica indicativa dell’uomo.
Come il linguaggio, ogni qual volta si presenta, erompe in parole e stabilisce convenzioni atte a sovvertire gli schemi di quelle parole semi-autonome onde esprimere proposizioni, così la grammatica della visione artistica elabora forme plastiche per l’espressione di ritmi vitali fondamentali. Questa è forse la ragione per cui certi motivi decorativi sono pressoché universali: forse è la convergenza, piuttosto che la divergenza, a spiegare le sorprendenti somiglianze fra i disegni reperibili in prodotti culturali così disparati come ricami cinesi, vasi messicani, tatuaggi africani e motivi floreali inglesi.».[9]
Da queste considerazioni possiamo facilmente capire come lo studio e l’analisi della decorazione si è presentata come un punto di partenza quasi obbligato per lo sviluppo delle teorie estetiche in cerca di un passaggio cognitivo dell’arte da un ambito, diciamo pure prevalentemente sintetico ad uno decisamente analitico – o forse meglio, dall’insieme di un “campo” fenomenico all’insieme degli elementi componenti un tale campo.
- «.[In Problemi di stile] Riegl fa un’osservazione molto significativa. Nel campo delle ricerche su quella che Gombrich [in Il senso dell’ordine] chiama “l’arte trascurata” della decorazione, alcuni studiosi sono disposti ad ammettere la consistenza di un qualche sviluppo storico. Ma ad una condizione: “almeno nella misura in cui l’ornato implica elementi delle cosiddette arti maggiori e in particolare la rappresentazione dell’uomo e delle sue gesta e passioni” [Riegl, cit.]. E prosegue: “solo con esitazione si è osato affermare l’esistenza di rapporti e influenze reciproche, e solo per periodi di tempo strettamente delimitati e tra territori strettamente confinanti. Di là di tali limiti, dove cioè veniva a cessare il diretto riferimento dell’ornato a oggetti reali del mondo esterno, alla vita organica e alle opere dell’uomo, ecco che l’audacia dei ricercatori veniva frenata da un insuperabile ritegno.
Appena cominciava la rappresentazione matematica della simmetria e il ritmo per schemi astratti, dove si entrava nel campo del cosiddetto stile geometrico, non si osava più riconoscere la presenza nell’uomo di un impulso all’imitazione delle forme artistiche e le ineguali inclinazioni dei vari popoli alla creazione artistica”.
La dimostrazione astratta dell’Ornamento, dunque, non consentirebbe alcuna rilevazione di ordine storico-comparativo. Dell’astrazione non può darsi storia.? Dobbiamo dislocare questo rilievo – che assume qui un preciso valore sintomale – dall’ambito metodologico e storiografico, per indirizzarlo a caratterizzare direttamente lo statuto ontologico e la pertinenza estetico-filosofica della pratica ornamentale.
Astenendosi in generale dal riferimento alla realtà esterna immediatamente percepibile, lo stilema astratto “non associativo” eccede dallo schema del racconto, della fabula e quindi, in senso ampio, dalla storia – determinazioni tipiche, invece, della pittura e della scultura antropomorfa. La storia non è niente al di fuori e al di là della narrazione che se ne compie, e non si può narrare che ciò che è passato. La temporalità storica si rivela nel racconto, verbale o visivo.
Dove il soggetto si raffigura – e dove i suoi oggetti sono rappresentati – lì v’è racconto, tempo, storia. Se la dimensione temporale non può rappresentarsi in forme direttamente intuibili perché di per sé inobbiettivabile, è allora l’immagine in cui l’uomo riproduce se stesso che si incarica di significarla per simboli, allusioni, metafore. E l’esistenza dell’uomo è temporalità: qualcosa come la storia nasce e si apre con l’essere umano.
E’ precisamente all’interno di questo orizzonte, allora, che all’Ornamento non sembra assegnabile il tempo del racconto. Possiederebbe soltanto, in prima istanza, la temporalità esteriore e spazializzata di una tecnologia processuale che coincide con lo stesso scorrere del flusso vitale impegnato nell’attività febbrile. Il racconto incarnato nella pittura storica narra qualcosa d’altro da se stesso; l’Ornamento non narra che se stesso. Non racconta gesta né imprese: ha unicamente luogo in uno spazio impuro e al contempo meramente formale, sospeso, in cui i materiali e le geometrie si lavorano a vicenda, producendo in silenzio le proprio interne configurazioni e infinite diramazioni.».[10]
L’intero capitolo di questo studio è stimolante. Benché si presenti con il titolo Soggetto-Oggetto, subito si palesa col sottotitolo: né soggetto né oggetto, per esordire così: “l’ornamento non è questione ornamentale. Disarticola il rapporto soggetto-oggetto. Ne presenta il punto di fuga, il sintomo di un cedimento…”.
- «L’Ornamento è l’etimo [il nido.] stesso di ogni organizzazione pittorica e scultorea come complessità combinatoria e generativa di colore e forma sul piano e nello spazio. Nessun Ego vi si rispecchia: l’Ornamento non gli restituisce lo sguardo. Impossibile costruirvi una mitologia del Soggetto. Impossibile edificarvi una mitologia un Significato… Organizzazione convenzionale di intrecci e orlature, snodi e ramificazioni acefale, experimentum infinito sui linguaggi del colore e della linea sganciati da ogni dipendenza teleologico-mimetica, lo spazio assegnato all’Ornamento non ha Firma né Maestro, non ha Soggetto Creatore né Aura. Sotto questo punto di vista, è completamente, perfettamente de-istituzionalizzato. Vive soltanto nel respiro plastico-lineare del proprio automorfismo. L’unica presenza dei materiali e dei segni consiste nella loro continua alternanza di ripetibilità e trasformazione, nello sviluppo in atto della loro sintassi combinatoria. Nessuna legislazione iconografico-descrittiva, nessun cerimoniale metalinguistico, nessun Soggetto che vi presieda e che per loro tramite si esprima.».
Dalla strada ottocentesca dell’arte trascurata dell’ornamento si arriva magari anche al Wölfflin del 1915, che quasi propone una storia dell’arte senza gli artisti…[11]
- «.Gli artisti non sono facilmente interessati ai problemi storici degli stili. Guardano il lavoro solo dal lato della qualità: è buono? È conclusivo in sé? La natura si manifesta in essa in modo forte e chiaro? Tutto il resto è indifferente: leggi come si riferisce a se stesso Hans de Marées che non smette mai di imparare a fare a meno di scuole e personalità, per tenere a mente solo la soluzione dei problemi artistici, che in fondo sono gli stessi per Michelangelo che per Bartholomeus van der Helst. Gli storici dell'arte, che invece partono dalla diversità dei fenomeni, hanno sempre dovuto subire la derisione degli artisti. Di loro dicevano di aver trasformato l'accessorio in quello principale e, non interpretando l'arte se non come espressione [personale], aderivano proprio agli aspetti non artistici dell'uomo. Puoi analizzare il temperamento di un artista senza chiarire come è stata prodotta l'opera d'arte, e testando tutte le differenze che esistono tra Raffaello e Rembrandt potrai solo aggirare il problema essenziale, perché non si tratta di indicare le differenze che li separano, ma come attraverso percorsi diversi entrambi abbiano raggiunto la stessa cosa, cioè l'eccellenza della grande arte…».[12]
Semper, Riegl, Wölfflin…
Non vedete qui, insomma, l’ammosciarsi del superuomo?... l’avanzare dell’antiforma?
Profilarsi sempre più e meglio, anche negli studi sull’arte, la faccia sgradevole dell’informe talpa…
“E’ la vecchia storia: in principio si trascura sempre la forma a favore del contenuto”, ripeterebbe Engels.[13]
- «.Non ci schiereremo dalla parte dello storico e difenderemo il suo lavoro davanti a un pubblico scettico [continua Wölfflin].
Se è naturale per l'artista mettere in primo piano ciò che obbedisce alla legge generale, non va censurato l'interesse che chi osserva, dal punto di vista storico, sente per la diversità formale con cui l'arte si manifesta. Sarà sempre un problema non trascurabile svelare le condizioni che come materiale di ordito – chiamiamolo temperamento, spirito dell'epoca o carattere etnico – informano lo stile degli individui, dei tempi e dei popoli. Una mera analisi della qualità e dell'espressione non esaurisce, in verità, la questione. Resta da aggiungere una terza cosa – e con questo arriviamo al punto saliente di questa indagine –: il modo di rappresentazione in quanto tale.
Ogni artista si ritrova con certe possibilità "ottiche", a cui è legato. Non tutto è possibile in ogni momento. La capacità di vedere ha anche una sua storia e la scoperta di questi "strati ottici" è da considerarsi il compito più elementare della storia artistica.». [14]
Wölfflin intende fornire un metodo “scientifico” per analizzare le forme visive dell’attività artistica. In sostanza ciò che gli interessa non è tanto l’oggetto in sé, quanto il “modo” in cui l’artista lo vede – come si usa ancora comunemente dire; ma questo “modo” con il quale un artista osserva la realtà non è un arbitrio personale: è sempre potentemente legato ad un preciso periodo storico in cui l’artista trova già fissati dei canoni invalicabili.
Le opere prodotte in una certa epoca sarebbero soggette ai problemi di quell’epoca, e di quell’epoca utilizzeranno forme e linguaggi i cui limiti (gusto, linguaggio ecc.) il singolo artista non può valicare, pur potendo apportarvi delle novità.
In questo senso si è parlato perciò di una “storia dell’arte senza nomi”.[15], nella quale la personalità dell’artista diviene secondaria rispetto agli schemi fissati dall’epoca entro cui l’artista si muove. Secondo Wölfflin i modi a cui l’artista è legato sono dettati da cinque coppie di concetti fondamentali, sulla base dei quali poggia la realizzazione e sui quali deve dunque svolgersi anche l’analisi dell’opera d’arte, in quanto determinanti della sua forma come forma del tempo a cui appartiene.[16]. Così, ad esempio: “Lo stile pittorico di Paolo Uccello deve trovare lo stile conoscitivo adatto perché il dipinto funzioni”.[17].
- «… per buona parte della gente appartenente alla borghesia [della Firenze del Quattrocento] le nozioni matematiche acquisite nella scuola secondaria costituivano il nucleo centrale della loro formazione intellettuale e della loro cultura. Molti dei loro manuali esistono ancora oggi e ci si può rendere conto molto chiaramente della natura di questa [loro] matematica: era una matematica commerciale strutturata sulle esigenze del mercante e entrambe le sue principali nozioni sono profondamente inserite nella pittura del Quattrocento.
Una di queste è la misurazione. E’ un fatto importante della storia dell’arte che le merci siano arrivate regolarmente in contenitori di misura standard solo a partire dal XIX secolo: prima ogni contenitore – che fosse un barile, un sacco, una balla – era unico, e calcolare il suo volume in modo rapido e preciso era una condizione essenziale negli affari.
E’ importante conoscere il modo in cui una società misurava i suoi barili e ne calcolava il volume perché è un indice delle sue capacità analitiche e delle sue usanze… Un italiano, al contrario [dei suoi contemporanei di Germania, che misuravano i barili con complessi e appositi regoli e misure affidate ad uno specialista], misurava i suoi barili per mezzo della geometria e del p…».[18]
Così, istruzioni per misurare un barile le troviamo nel manuale di matematica per mercanti De Abaco, scritto da Piero della Francesca, e – prosegue Baxandall:
- «…proprio questo strettissimo rapporto tra il pittore e la geometria mercantile rappresenta il punto essenziale. La capacità che Piero o qualsiasi altro pittore usava per analizzare le forme che dipingeva erano le stesse che Piero, o qualunque commerciante, usava per misurare delle quantità. E il legame fra la misurazione e la pittura, che Piero stesso personifica, è estremamente concreto. Da un lato molti pittori, loro stessi uomini d’affari, erano passati attraverso l’istruzione matematica secondaria delle scuole laiche: si trattava della geometria che essi conoscevano e usavano quotidianamente. Dall’altro il pubblico colto aveva queste stesse nozioni geometriche per guardare i dipinti: era uno strumento di cui erano dotati per esprimere dei giudizio e i pittori lo sapevano.».[19]
Tralasciamo la trattazione dall’argomento, per dire che oltre la misurazione, l’estensione e il senso del volume, l’autore affronta anche l’altra diffusa nozione che impronta la pittura del quattrocento: la proporzione delle cose stesse e tra le cose nello spazio, che, derivata anch’essa dalla matematica mercantile,
- «…costituiva una attitudine a indirizzare l’esperienza visiva, sia nei dipinti che al di fuori di essi, in un senso specifico, considerando cioè la struttura di forme complesse come delle combinazioni di solidi geometrici regolari e come degli intervalli raggruppabili in serie.
Siccome [i mercanti] avevano una certa pratica nell’avere a che fare con le proporzioni [rapporti tra quantità differenti, regola del tre.] e nell’analizzare il volume o la superficie di corpi composti erano sensibili ai dipinti che portavano i segni di tali processi… c’è una continuità tra le capacità matematiche usate dalla gente di commercio e quelle usate dal pittore per produrre la proporzionalità pittorica e la lucida solidità che ci colpiscono oggi come dei fenomeni tanto rilevanti.».[20]
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Noi non ce la facciamo proprio (e nemmeno ce lo siamo mai proposti) ad esporre ordinatamente ed esaurientemente tutti gli argomenti e le varie questioni che ha comportato e comporta una visione “formalista” dell’arte e della storia dell’arte. In generale, e fin qui, il nostro modo espositivo è soprattutto un continuo tentativo pratico che potrà ottenere dei risultati solo nella misura in cui riuscirà a “scatenare una quantità di lepri cui altri correranno appresso”.[21]. Ed è pertanto che contiamo di perseguire qualche risultato mostrando temi e argomenti nei quali riteniamo di aver intravisto dei profili più rispondenti ai nostri comuni interessi, ma non per questo meno aderenti e informativi di come potrebbe parlarvene un relatore specializzato in fini erudizioni sugli argomenti di volta in volta incontrati sul nostro libero andare discorsivo.
D’altronde, se da una parte la lunghezza delle citazioni potrebbe avvalorare con ciò stesso una nostra inadeguatezza, dall’altra denuncia l’inutile dispendiosità di ripetere cose già compiutamente dette da altri e puntare non tanto ad esaurire l’informazione bensì a mantenerla attiva e intensificarla fornendone le fonti originali.[22] – sempre indicate, e più o meno sempre accompagnate da commenti che, in qualche misura e per quanto possibile, la connettono al pensiero che ci distingue.
Sennonché, accade però che a volte tra il pensiero dell’arte e quello del “comunismo” (e non solo del luogocomunismo) paiono prodursi dei forti contrasti.
L’ingegnere fuori uso e le dicotomie . es. forma vs contenuto
Uno di questi può difatti apparire come decisa condanna dell’autonomia che il “formalismo” persegue in favore della “forma” dal “contenuto”. Nella nostra letteratura la troviamo difatti enunciata in tutta chiarezza:
- «.Se è vero che la musica ha un'espressione ultranazionale, non meno vero è che essa nacque come veicolo della parola, e a sua volta la parola era nata come veicolo delle regole di lavoro, della tecnica. Quindi l'arte non è il modo di esprimere, di trasmettere, ma il contenuto stesso della trasmissione, dell'espressione…»[23]
Sembrerebbe, a tutta prima, un netto pronunciamento contro ogni separazione (e suo conseguente sviluppo) in arte, della forma-mezzo (parola, modo di comunicare ed esprimere) dal “contenuto” (significato, esplicazione di concetti, nozioni, riferimenti, informazioni, tramite segni fonetici o grafici).
Sennonché, da analoga letteratura troviamo:
- «.Un architetto strettamente funzionale allora, come del resto i primi costruttori di portici e di archi dalle cui commessure di travate e di massi lapidei sorsero i "moduli" degli stili classici, non disegna prospetti né forma plastici; dimensiona, foggia e mette insieme le materie che gli servono, e ad opera compiuta soltanto arretra e contempla l'effetto. Se si applicasse con tale criterio la teoria statica del cemento armato, o di altre strutture, ma soprattutto del primo in quanto i suoi elementi non vengono dall'industria fissi, in misure "standard", ma si plasmano a volontà nella forma ideata pel getto, si vedrebbero scaturire strutture e membrature movimentate, curve, slanciate, a sezioni mutevoli, in una fecondità senza limiti. Gli aggetti, gli sbalzi, che realizzati con la antica muratura a pietra da taglio nei monumenti insigni destano la meraviglia nelle descrizioni (come quella di Hugo per Notre Dame de Paris), fiorirebbero facili e nuovissimi dai fianchi delle costruzioni, archi audaci e sottili diverrebbero possibili, nuove sagome come per incanto sorgerebbero...»[24]
E qui, quasi di getto sono risolti dialetticamente quegli elementi che nella prima citazione sembravano contrapporsi gerarchicamente e sancire il primato del contenuto sulla forma. Una materia, come il cemento armato, è già di per sé un mezzo espressivo che si è separato, svincolato dalla schiavitù dell’estetica prismatica (minerale). E che altro può essere quest’ultima se non un contenuto che si presenta con la forma stessa per articolare con questa sua forma contenuti espressivi vieppiù ricchi e complessi, pur tuttavia sempre prismatici [25]?
La condizione per liberare l’arte dai suoi statici (automatici) contenuti prismatici (estetici) è prendere alla radice la sua “forma prismatica” per scioglierla dagli attributi (ideologici) e liberarla dai limiti degli involucri tettonici che non corrispondono più allo stato della “nuova” materia di cui è fatta – o venuta alla luce.
- «.Se col ferro la Torre Eiffel si poggiò sulle sue quattro sguaiate gambe ottocentesche, col cemento armato sarebbe facile farla sbocciare da una base larga quanto la sua punta. Il conglomerato innervato dai tondi di acciaio, potendo resistere a sforzi di ogni direzione, svincola le costruzioni dalla schiavitù dell'estetica prismatica, ogni volta che ciò sia necessario ed utile.».[26]
Così la ghisa e il ferro nella nascente Grande Industria capitalistica dell’Ottocento hanno dovuto faticare a lungo per liberare le colonne portanti di opifici e grandi magazzini dalle inutilità di capitelli vanamente fronzuti, sciogliere le trabeazioni dal compiacimento dei fregi glorificanti l’impresa, separare la calandra dell’automobile dal deretano dei cavalli…
Certamente: con l’autonomia della “forma” anche il triviale cubo razionalista [27] nasce e infine trionfa (in architettura) [28].
Tuttavia…
Lo strutturale dualismo edilizio di compressione e flessione è stato risolto dal moderno cemento armato in acciaio e consente all’ingegnere fuori uso di immaginare lo “scaturire di strutture e membrature movimentate, curve, slanciate, a sezioni mutevoli, in una fecondità senza limiti .… dai fianchi delle costruzioni, archi audaci e sottili diverrebbero possibili, nuove sagome come per incanto sorgerebbero...” Sembra qui che con la risposta unificatrice di compressione e flessione.[29], sia andata anche attenuandosi ogni rigido dualismo tra forma e contenuto.[30] – dato che “una fecondità senza limiti” di membrature, di curve, di piani mutevoli o nuove sagome non contiene altro che un nuovo “mondo delle forme” con sue proprie leggi fisiche e morfologiche. Un mondo finalmente liberato dall’ormai inutile antropomorfismo. Un mondo, cioè, che a Bordiga – abbiamo visto – sembra non dispiacere affatto non solo immaginare ma addirittura auspicare.
- «.La scuola aristotelica è un passo da gigante sulla via dello sforzo di descrivere la natura quale essa è, non solo reagendo al primitivo inevitabile (e anche esso utile) antropomorfismo, di cui l’uomo non sarà libero che in una società comunista integrale, ma introducendovi il gioco delle relazioni tra causa ed effetto…»[31]
E così, forse, gli sarà anche piaciuto leggere D’Arcy Thompson.[32]:
- «.…[molto prima] Ruggero [Bacone], aveva mostrato quanto sia facile, e quanto sia vano, seguire i processi della natura e oziosamente attribuire le sue meravigliose opere al caso, all’incidente, o all’immediato intervento divino. Le difficoltà che circondano il concetto di causazione ultima o “reale”, nel senso usato da Newton o Francesco Bacone, la difficoltà insuperabile di dare dal punto di vista empirico una spiegazione corretta e sostenibile dei rapporti tra causa ed effetto, non devono impacciarci nella nostra indagine fisica. Come studiosi di matematica e di fisica sperimentale, ci accontentiamo di considerare solo quegli antecedenti o quei concomitanti dei nostri fenomeni, in assenza dei quali il fenomeno non si presenta; con cause, in breve, che aliae ex aliis aptae et necessitate nexae [33], non sono nient’altro che condizioni sine qua non. Il nostro scopo è ancora sufficientemente raggiunto: infatti siamo ancora autorizzati a stabilire correlazioni e uguaglianze tra il nostro particolare fenomeno e un numero sempre crescente di fenomeni fisici, e a così ordire una rete di connessioni e interdipendenze che sarà utile al nostro scopo, anche se il metafisico nega a questa interdipendenza il titolo di causalità.».[34]
Come i “gravi” di Galileo anche le “forme” di Thompson, benché organismi, non sono più ”corpi” bensì problemi di matematica e di fisica.
- «.Cellula e tessuto, conchiglia e osso, foglia e fiore, sono altrettante porzioni di materia, ed è in obbedienza alle leggi della fisica che le particelle che li compongono sono state assestate, modellate conformate… I loro problemi di forma sono prima di tutto dei problemi matematici; i loro problemi di accrescimento sono essenzialmente problemi fisici; e il morfologo diviene ipso fatto uno studioso di fisica.».[35]
La morfologia come studio dei problemi della forma richiama la storia dell’arte come storia dei problemi artistici … e il suo studioso diverrebbe ipso fatto uno studioso dell’industria dell’uomo?... ossia della sua lotta con la natura e con se stesso…?
- «.… la forma di ogni porzione di materia, sia essa viva o morta, e i cambiamenti di forma che appaiono nei suoi moti e nella sua crescita, possono sempre venir descritti come l’effetto dell’azione di una forza. In breve: la forma di un oggetto è un diagramma di forze, almeno nel senso che da essa noi possiamo giudicare o dedurre quali forze agiscano o abbiano agito su di esso. In questo senso ristretto particolare, essa è, nel caso di un solido, un diagramma delle forze che gli sono state applicate quando quella forma si è prodotta e, insieme, di quelle altre forze che gli permettono di conservarla; nel caso di liquidi o di gas, è il diagramma delle forze che in quell’istante agiscono per frenare o equilibrare la sua intrinseca mobilità.».[36]
Quanto vale per la scienza e la tecnologia vale anche per l’arte: i modi di produzione, le organizzazioni sociali, le classi passano, la scienza, la tecnologia… e l’arte restano.
Ma l’arte non resta perché i suoi prodotti sono “belli”.
Piuttosto, i suoi prodotti sono “belli” perché restano come concrete inscrizioni di ciò che della vita degli uomini nel tempo non è potuto restare, come i suoni; o che proprio non potrà mai restare, come i sentimenti.
- «.La strada naturale e storica fu dunque: regola uniforme di lavoro e di vita, musica, canto, poesia, molto molto dopo, parola e prosa… Le prime costituzioni non potendo ancora essere scritte né incise nella pietra dei monumenti furono trasmesse a memoria parola per parola. La necessità mnemonica le fece redigere in versetti: solo nella leggenda fu un solo a redigerle, in effetti condensarono la pratica e la sapienza comune…»[37] […] «.Fecondità del numerus – La musica si ferma nella memoria per i suoi dati meccanici e fisici. Il ritmo è numero, è misura esatta del tempo. La tonalità e l'accordo sono effetto di rigida proporzione matematica tra il numero di vibrazioni che colpiscono l'orecchio. Questo è il primo strumento di misura di cui si è servito l'uomo: l'occhio, qualitativamente tanto più ricco, è quantitativamente soggetto a sbagli grossolani. Il fatto pratico è che grazie alla musicalità del canto in coro fu possibile primieramente trasmettere ed insegnare norme ad una collettività, e quindi consolidare la sua conquista rispetto alla vita dei bruti: l'arte produttiva. L'uomo cantò per campare, non per divertirsi, o per avere scoperto un piacere assoluto ed "inutile", come Kant pretese scoprire. Era l'unico mezzo che rispondesse a questo scopo utilitario: tenere viva la specie e svilupparne la potenza, quando non vi erano altri archivi che la memoria di tutti.».[38]
Noi naturalmente abbiamo preso quello che comunemente viene indicato come “formalismo” in una accezione più estesa, sia per intendere una attenzione o predilezione per l’aspetto delle forme con le quali la comunicazione si manifesta immediatamente ai sensi, nell’apparenza o mera visibilità delle cose, e sia pure con particolare riguardo ai risultati più eccellenti.
C’è da notare che l’osservazione e lo studio di quest’aspetto, diciamo così, unilaterale della comunicazione figurale, arriva per questa strada a delle formulazioni schematiche e modellizzanti dell’arte e della sua storia, o a dei criteri conoscitivi dei processi artistici, analoghi e a volte quasi sincronici, ad alcuni capisaldi della dottrina comunista.
In Wolffin, ad esempio, è sempre ricorrente un tema, declinato in svariate circostanze espositive, per cui una maniera personale o uno stile storico prima di trovare nuove forme espressive deve svolgere interamente ed esaurire tutte le possibili soluzioni formali e strutturali offerte all’arte dallo stato delle cose precedenti.
Così difatti scrive lo storico dell’arte nel 1915:
- «.Nella storia delle generazioni avviene esattamente quel che accade nella storia dell’individuo. Quando una personalità eminente riesce a dar vita, nella sua ultima maniera, a possibilità completamente nuove, si può ben dire che una nuova sensibilità ha richiesto questo nuovo stile. Ma le nuove possibilità stilistiche gli si sono presentate perché egli aveva superato possibilità già esistenti. Nessuna personalità umana, per quanto vigorosa, sarebbe stata capace di creare queste nuove forme senza avere percorso quella via, con tutte le tappe indispensabili in un cammino del genere. La continuità nel modo di sentire la vita è necessaria per l’individuo come per le generazioni. La storia delle forme non può arrestarsi….».[39]
e così scriveva Marx nel 1859:
- «.Come non si può giudicare un individuo dall’idea che si è formato di sé, così non si può giudicare una di queste epoche di rivolgimento in base alla coscienza che essa ha di se stessa; questa coscienza infatti va piuttosto spiegata partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto che esiste tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società.».[40]
In questo raffronto a noi appare evidenziarsi quantomeno un unico modo di spiegare l’avvicendarsi delle “forme”, sociali per l’uno, stilistiche per l’altro.
Che Marx ed Engels non ci abbiano lasciato abbastanza scritti sull'arte non significa che l'arte vada trattata diversamente da come loro hanno trattato l'economia politica, solo che magari va semplicemente trattata a parte.
Per dirla in termini più vicini a noi: forse che l'arte è meno “frattale" di ogni altra attività umana?
Non ritengo affatto che qualcuno di noi può crederlo; invece, può solo lavorare per conoscere sempre meglio il fenomeno di cui ci si occupa.
Non abbiamo nessuna difficoltà a confessare che la nostra intenzione era anche quella di confutare una certa "bacchettoneria socialisteggiante” o terzinternazionalista, tuttora dominante non solo tra i luogocomunisti, di quanti hanno tuttora difficoltà a digerire ciò che noi abbiamo metabolizzato da sempre, tanto da poter dire che «.la nostra corrente affermò che le astrazioni matematiche, le formalizzazioni.[41], i modelli, gli schemi, le misure, sono tutte "macchine per conoscere”.»[42].
Se l’uomo ha escogitato tutti i formalismi necessari per poter comprendere la natura, incluso il plurimillenario “dualismo” (nei residui del quale sguazziamo ancora nonostante una buona dose di riduzionismo scientifico lo stia diradando sempre più), l’arte è forse anch’essa una macchina escogitata per conoscere; che però oggi non funzionerebbe più solo nell’alternanza meccanica di forma e contenuto ma soprattutto nella dinamica complementarità e simultaneità della loro sovrapposizione.[43] – ed è forse dovuto a questo nuovo funzionamento che produzione e comprensione dell'arte contemporanea siano state solo scombussolate, ma non ancora "rivoluzionate" ... se non per modo di dire.
Sembrerebbe che intanto proprio con l’era delle macchine industriali sia sopraggiunto anche per l’arte il momento di iniziare a conoscere sé stessa prima di avviare una nuova produzione, di opere e di macchine.
E neppure riusciamo a ritenere casuale che tra i primi ad avviare questo cammino conoscitivo sia stato proprio quel Gotfried Semper, architetto e rivoluzionario del ‘48 tedesco, noto a Marx come membro del Comitato dei profughi di Londra nel 1851.[44]; come neppure riusciamo a ritenere irrilevante (particolarmente ai fini di questo nostro discorso sull’arte come macchina) la sua personale partecipazione all’allestimento di quattro sale della Grande Esposizione Universale di Londra del 1851: la prima fantasmagorica accolta mondiale di merci come macchine e macchine come merci.[45].
Infine, non possiamo non notare una consonanza del pensiero dell’architetto sassone con il modo in cui Marx fissa la corretta base di partenza da cui svolgere l’analisi dei fenomeni sociali presi in esame.[46], che per entrambi è rappresentata dalle rispettive forme storiche più sviluppate; cioè, per l’uno il modo di produzione capitalistico, per l’altro il modo della produzione artistica-industriale a lui contemporanea.
Così, mentre per l’architetto “le arti industriali sono pertanto la chiave per capire la forma artistica, la forma architettonica e la norma in generale”[47], Marx ci fornisce in più l’avvertimento che non si può però comprendere al modo degli studiosi dell’arte che cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le forme di arte vedono sempre la produzione dell’arte borghese.[48].
Dato che noi tutti sappiamo bene (anche se d’altre cose sappiamo ben poco) che il socialismo scientifico, ossia il comunismo, si distingue dall’utopismo sociale e lo supera derivando non dalla volontà dei singoli bensì dal gioco delle forze concrete agenti nella società reale, l’immancabile conseguente succedersi della prossima forma sociale comunistica ha come condizione che già nello stato di cose capitalistico siano presenti quegli elementi che lo faranno saltare, non saremo dunque poi tanto sciocchi da fare inutili sforzi donchisciotteschi per decidere volontaristicamente di costruire anticipatamente un’arte del futuro.
Rimarrebbe però quantomeno l’onere di criticare l’arte del presente per cercare in essa quegli elementi che la faranno saltare definitivamente, o che porteranno alla piena coscienza il fatto che l’arte ha capitolato da tempo almeno davanti al materialismo – cosa farsene poi delle sue spoglie lo lasciamo decidere al futuro (…ma si accettano ipotesi).
Così, a noi è parso proprio che con gli studi di Semper, di Riegl [49], di Wolfflin e di altri teorici del “puro visibilismo” o del “formalismo”, la storia e la critica dell’arte ha espresso nei fatti continue capitolazioni, che possiamo rintracciare sempre più numerose e incalzanti anche in tutte le manifestazioni dell’arte dall’Impressionismo ad oggi – ed è del tutto indifferente che gli uomini ne siano o non ne siano coscienti.[50]. Che dunque si corra prontamente ai ripari, il materialismo che trasuda prepotentemente da tutti i loro scritti – e soprattutto nel pensiero dell’architetto sassone Semper, i cui biografi e commentatori confezionano inutilmente apposti capitoletti.[51] o ripetono.[52] come un mantra di scongiuro le sue insignificanti dichiarazioni di estraneità ad una concezione materialistica talmente vaga che nessuno di loro arriva mai a definire quale realmente sia – la cosa non stupisce più di tanto, dato che quanto valeva per gli studi in Europa dopo il 1830 continua a valere tanto più oggi…
- «… non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica.».[53]
A rileggere ciò che costoro sono costretti a scrivere c’è da chiedersi di quale strana razza fosse il materialismo da cui Semper si dichiarava a parole estraneo ma adottava nei fatti. Basti perciò solo quanto scrive Pinotti [54]:
- «.Secondo Semper, il problema della creazione di un nuovo stile non può essere risolto con soluzioni empiriche, pratiche, volontaristiche, connesse ad una qualche teoria dell’invenzione ex abrupto: “Di fronte a queste soluzioni eminentemente pratiche del problema dello stile si fa strada una teoria opposta, secondo cui gli stili architettonici non sono frutto di invenzione ma derivano da pochi tipi originari (Urtypen), sviluppandosi poi in diverse direzioni in base alle leggi della riproduzione naturale dell’ereditarietà e dell’adattamento: qualcosa di simile insomma quanto si suppone accada per l’origine delle specie nei regni della creazione organica”[55].
Sarebbe però problematico, aggiunge Semper, interpretare tale sviluppo sulla scorta dell’assioma secondo cui la natura non fa salti e alla luce delle teorie evoluzionistiche di Darwin, dal momento che si trovano, ad esempio, nella storia dell’arte monumentale, prodotti paralleli o successivi che si fondano su forme culturali ed artistiche anche in opposizione fra loro.
In effetti, si incontrano in Semper riferimenti ad una storia evolutiva delle produzioni artistiche (intendendo naturalmente l’”artistico” in senso lato, comprendente l’artigianato e l’architettura), ma l’evoluzione è intesa come evoluzione delle risposte storicamente determinate alla costante domanda posta da una serie di bisogni fissi, statici, che, come è detto chiaramente nell’Entwurf del 1853, dettano tipi loro corrispondenti: “I tipi sono forme originarie prescritte dal bisogno”[56].
Nei “Prolegomena” allo Still leggiamo a tale riguardo che Semper si propone un tentativo di “portare allo scoperto la legge interna che domina il mondo delle forme artistiche come quello delle forme naturali. La natura, pur nella ricchezza che la distingue, è però semplice e parsimoniosa nei suoi motivi: in essa si nota un perpetuo rinnovarsi delle stesse forme elementari, che appaiono modificate in mille maniere – accorciate o allungate, qua ben definite, là appena accennate – a seconda dello stadio di sviluppo e delle condizioni di vita delle singole creature. La natura cioè ha la sua storia evolutiva, all’interno della quale, in ogni nuova formazione, riaffiorano sempre gli antichi motivi. Analogamente l’arte si fonda su un ristretto numero di tipi e di forme, che scaturiscono da una tradizione antichissima e che, pur nel loro costante ripetersi, offrono una infinita varietà espressiva. Anche questi tipi, come quelli naturali, hanno la loro storia: niente è frutto di arbitrio, tutto è il risultato di situazioni e circostanze precise.».[57]
Dopo ciò e dopo tanto materialismo dialettico di cui è improntato il pensiero di Semper, che razza di materialismo poteva essere quello respinto dall’architetto sassone se non quello meccanico del XVIII secolo.[58] già pienamente superato nella metà dell’ottocento?
Ma, dice Marx: «Come il materialismo cartesiano va a finire nella scienza naturale vera e propria, cosi l'altro orientamento del materialismo francese sfocia direttamente nel socialismo e nel comunismo». Ecco allora essere questo il “materialismo” risolto, quello che praticamente si aggira per l’Europa come la bestia nera dei poteri politici, da cui l’esiliato architetto delle barricate di Dresda della fallita rivoluzione tedesca del 1848 voleva forse prendere le distanze per non compromettere la propria esistenza e il futuro del suo lavoro teorico.
«.Come molti architetti del suo tempo, Semper possiede una coscienza unificatrice delle diverse branche delle arti » – commenta Herrmann; ma noi potremmo estendere questa coscienza ben oltre i limiti dell’architettura e riconoscerla, ad esempio, come una tendenza riduzionista [59], un portato dell’estendersi del pensiero scientifico e del diffondersi di approcci empirici e verifiche sperimentali in ogni branca delle attività sociali che nel corso dell’ottocento vivevano il loro apogeo industriale e storico senza esserne tuttavia soddisfatte.
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[1] . Friedrich Engels, Antidühring, Editori Riuniti, Roma 1968, pag. 47.
[2] . L’usignolo vola senza conoscere l’aerodinamica, così come l’uomo cammina senza conoscere la propria anatomia e fisiologia, e parla senza conoscere la linguistica. D’altronde, il materialismo, avendo rimesso l’uomo nella giusta posizione, cioè con i piedi in terra e la testa tra le nubi, ci dice che prima viene l’azione e in seguito la coscienza che, con lavoro millenario, ha continuato a diradare dalle nebbie dell’opinione – d’altronde la coscienza non è ancora conoscenza. Quello che di questo lavoro millenario della specie non ci sorprende è l’impulso dell’uomo a conoscere realtà e verità della natura; la difficoltà invece consiste nel comprendere come solo ad un determinato sviluppo delle forze produttive al conoscere si è posta la necessità di conoscere sé stesso, di aprire il cofano del modo stesso con il quale l’uomo giunge praticamente, materialmente e scientificamente, a conoscere.
[3] . Neppure Dalì è arrivato a tanto dopo cinque secoli. Ed è per dire sulle determinazioni storiche che sottomettono il singolo.
[4] . Karl Marx, Il Capitale, Libro III, sez. settima, cap. 48. la formula trinaria III, edizioni Rinascita, Roma 1956, pag. 228 seg.. [cit., ed. UTET, Torino 2013, pag. 1008].
[5] . L’intero paragrafo è una parafrasi da Ibidem, pag. 230.
[6] . Marx, Lineamenti, cit., pag. 5.
[7] . In nømade n° 20, pag. 67. La citazione prosegue: …
[8] . Susanne K. Langer, Feeling and Form (1953), it. Sentimento e forma, ed. Feltrinelli, Milano (1965) 1975, pag. 77 e seg..
[9] . Ibidem, pag. 79. Prosegue: “Il disegno decorativo puro è una diretta proiezione del sentimento vitale in forme visibili e colori. La decorazione può essere molto varia o molto semplice; ma ha sempre quello che una forma geometrica, per esempio un grafico illustrativo in Euclide, non ha: moto e stasi, unità ritmica, interezza. In luogo della forma matematica, il disegno ha – o piuttosto è – forma “viva” per quanto non debba di necessità rappresentare nulla di vivente, sia pure piante di vite o fiori di pervinca. Linee e zone decorative esprimono vitalità in ciò che esse sembrano ‘fare’: quando rappresentano una creatura che realmente potrebbe fare qualcosa – un coccodrillo, un uccello, un pesce – quella creatura può benissimo (specie in certe tradizioni) stare tanto in quiete che in moto. Ma il disegno in se stesso esprime comunque vita.”
[10] . Massimo Carboni, Estetica dell’ornamento, Aestethica Preprint, Palermo 1996, pag. 8 seg.
[11] . Wolfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (1915); it. Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondida, Milano 2017. pag. 25. “…Ma restiamo solo all'architettura. Il concetto centrale del Rinascimento italiano è il concetto di proporzione perfetta. Quest'epoca ha cercato di vincere in architettura ciò che ha fatto in figura: l'immagine della perfezione che riposa in se stessa. Ottieni ogni forma come un'esistenza compiuta in se stessa, agile di articolazioni; solo parti che si incoraggiano. Le colonne, le mensole di un muro, il volume dell'articolazione spaziale o dell'insieme, le masse della costruzione della sua totalità sono strutture che fanno sentire all'uomo un'esistenza soddisfatta, oltre la misura umana, ma accessibile sempre alla fantasia. Con infinito piacere, quest'arte percepisce il significato come immagine di un'esistenza alta e libera, alla quale è data la grazia di partecipare. Il barocco utilizza lo stesso sistema di forme; ma non dà più ciò che è completo e perfetto, ma ciò che è mosso e in genesi; non il limitato e apprensibile, ma il limitato e colossale. L'ideale della bella proporzione scompare: più che essere, l'interesse viene mantenuto quando accade. Le masse si mettono in moto: masse gravi, fortemente articolate. L'architettura cessa in larga misura di essere quello che era nel Rinascimento: un'arte agile. L'organizzazione degli organi costruttivi, che in precedenza dava l'impressione di massima libertà, lascia il posto a una folla di parti prive di vera indipendenza. Questa analisi non esaurisce l'argomento, senza dubbio, ma può essere sufficiente per indicare in che modo gli stili sono espressione del tempo. È un nuovo ideale che parla nel barocco italiano, e se abbiamo messo l'architettura al primo posto perché incorpora in modo più sensato quell'ideale, anche i pittori e gli scultori contemporanei dicono lo stesso nella loro lingua, e che vorrebbero ridurre a concetti i fondamenti psichici del cambiamento in stili, forse troverà qui la parola decisiva prima che tra gli architetti. Il rapporto tra l'individuo e il mondo è variato; si è aperto un nuovo regno senziente; l'anima cerca la salvezza nella sublimità del colossale e dell'infinito. "Emozione e movimento a tutti i costi", ecco la caratteristica di quest'arte, secondo la breve formula di Cicerone (l’autore si riferisce alla guida d’Italia Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens, di Jacob Burckhardt, 1855). Con gli schemi dei tre esempi di stile, individuale, nazionale e d'epoca, abbiamo chiarito le finalità o le finalità di una storia dell'arte che si concentra sulla prima linea di stile come espressione: come espressione di un tempo e di un sentimentalismo nazionale come espressione di un temperamento personale. È evidente che con tutto ciò la qualità artistica della produzione non è stata toccata. Il temperamento non fa opere d'arte, certo, ma costituisce quella che può essere definita la parte materiale dello stile, nel senso ampio di abbracciare anche l'ideale speciale della bellezza (sia individuale che collettiva). Le opere storico-artistiche di questa natura sono ancora molto lontane dal grado di perfezione a cui possono aspirare, ma il compito è allettante e promettente…”
[13] . Cfr. qui a pag. 42, Engels, lettera a Franz Mehring del 14 luglio 1893, in Lettere di Engel sul materialismo, cit..
[15] . A tale proposito, riferendosi all’estetica crociana Amadeo Bordiga ci ha lasciato un commento: “Non che questi [Benedetto Croce] sia tanto banale da ricusare di ammettere le influenze da noi indicate tra creazione artistica e ambiente di condizioni naturali e sociali, e decorrere di storici eventi: sol che questo complesso di elementi relativi gira intorno ad un dato assoluto senza del quale quelli restano inerti, e quindi appare spiegabile che un simile quid sia contenuto e venga a splendere misteriosamente in quell'unico Cranio. Quando si tratta poi di stabilire chi scorge il Vero e il Grande, allora l'autore ripiega sui Saggi, gli Eletti, i Nobili, che soli possono assurgere a tanto. Ed allora riduce la lotta storica, del cui contenuto nulla ha capito, ad una affannosa ricerca della grande Guida, dell'alta Figura, cui affidare i destini di una povera umanità.” (Fantasime carlayleane, in Il Programma comunista, n.9. 7-21 maggio 1953)
[16] . Per lo studioso svizzero queste cinque coppie fondamentali sono: lineare-pittorico, superficie-profondità, forma chiusa-forma aperta, molteplicità-unità, chiarezza assoluta-chiarezza relativa…
[17] . Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit. pag.89.
[20] . Ibidem, pag. 94 seg.
[21] . Proprio così – riferisce Susanne Langer – sembra aver detto una volta Whitehead riferendosi al pragmatismo di William James.
[22] . E’ anche per quest’ultima ragione di “economia” che Walter Benjamin dedica gli ultimi anni della sua vita a un’opera monumentale che resterà incompiuta: i Passages parigini, costruita come un vero e proprio “montaggio” di citazioni e frammenti provenienti da un’epoca del passato collegati tra loro con rapidi commenti come in un immenso collage cubista o surrealista? E’ a partire dal suo saggio su Le affinità elettive (1921) che la tecnica procedurale delle citazioni aveva presso a svolgere una funzione centrale in ogni opera successiva, fin quasi a diventare preponderante…
[23] . (Amadeo Bordiga) Fantasime carlayleane, in Il Programma comunista, n.9. 7-21 maggio 1953.
[24] . (Amadeo Bordiga) Politica e costruzione, da "Prometeo", serie II, n. 4 del luglio-settembre 1952 (sottolineature nostre).
[25] . Ibidem. – “La rigorosa verticalità deriva dall'uso del materiale tradizionale, dal cumulo di pietre che lavorano solo resistendo bene alla pressione normale, tanto che già fu audacia andare dalla piramide a base immensa all'edifizio prismatico.”
[26] . Ibidem., sottolineatura nostre.
[27] . Da sempre vilipeso dalla nostra corrente (e anche dai situazionisti…)
[28] . Ibidem. … Ma, “il colpevole non è il nuovo materiale, o le regole della sua meccanica matematica da cui si traggono volta per volta le prescritte misure esecutive. Colpevole è il tornacontismo speculativo, il conto economico in termini mercantili, che vuole ridurre la spesa di esercizio per esaltare il profitto, ridurre quella di impianto per alleggerire l'anticipazione e l'interesse passivo…”
[29] . Cemento armato (o Calcestruzzo a.), 1879. - Con Baxandall abbiamo già mostrato che c’è una continuità tra pratiche produttive diffuse di un’epoca e linguaggio artistico coevo… Allora era il mercante colto e devoto che costruiva con pietra, marmo e laterizi tagliati e sagomati; ora è il grande industriale che dispone di materie plasmabili da gettare in stampi e dare forma ad una forma: ecco mostrarsi la forma come contenuto di una forma… in una dialettica svelata dalla positività del negativo (nella fotografia e in edilizia). Certo questo accadeva anche quando si fondeva una campana o una statua equestre. Ma rimaneva un’esperienza eccezionale soffocata di stupore; diversamente avviene nelle mastodontiche acciaierie, nei cantieri a cielo aperto dei lavori pubblici, nelle stamperie dei rotocalchi, o nei retrobottega dei fotografi lungo i boulevards …
[30] . E’ alla fine del primo quindicennio del secolo scorso che Heinrich Wölfflin formula questo dualismo nei termini di una complessità soggiacente di azioni reciproche interdipendenti: “Ricorrendo a un’immagine, ho sopra paragonato le forme della rappresentazione a un recipiente, in cui viene raccolto un determinato contenuto, o una rete su cui gli artisti intessono le loro variopinte immagini: e tali paragoni servono a porre in rilievo l’elemento puramente schematico di questi concetti formali e a dimostrare che essi non equivalgono al concetto di «stile», pieno di un più ricco contenuto espressivo; eppure eviterei qui di ricorrere ad essi, perché rendono troppo meccanico il concetto della forma e possono insinuare la convinzione errata che forma e contenuto siano due elementi da distinguere nettamente l’uno dall’altro. Ogni forma di visibilità ha come premessa un oggetto della visione e v’è da chiedersi sino a che punto l’uno dipenda dall’altra.” (Wolfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondita, Milano 2017, pag. 291).
[31] . (Amadeo Bordiga) Elementi della questione spaziale, da “il programma comunista” n.4. 1960 (ora in Scienza e rivoluzione vol.2, Quaderni Internazionalisti, Torino 2000, pag. 91.
[32] . D’Arcy Thompson, On Growth and Form, Cambridge at University Press 1917, pages 793 - titolo italiano Crescita e forma.
[33] . "aliae ex aliis aptae et necessitate nexae" (Cicerone), “alcune [altre cause] d’altre catene adatte e inevitabili”.
[34] . D’Arcy Thompson, Crescita e forma (1917), it. Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 9.
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[37] . Fantasime carlayleane, in Il Programma comunista, n.9. 7-21 maggio 1953.
[39] . Wolfflin, cit. pag. 280.
[40] . Karl Marx, dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), ed. Newton Compton, Roma 1972, pag. 32.
[41] . FORMALIZZAZIONE . Nella teoria marxista della conoscenza è, molto in generale, il processo di astrazione che rende conto della realtà meglio di quanto la raccolta di dati sulla sua molteplicità di aspetti minuti possa fare. A rigore questo non è un metodo introdotto da Marx ma è già presente in Galileo (Dialogo dei massimi sistemi); ciò che Marx ha aggiunto è l’eliminazione della frattura fra filosofia della natura, scienze fisiche e scienze sociali, tramite l’introduzione di un programma tratto dal reale cammino dell’umanità verso un’unica scienza (un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente: il solo processo che merita il nome di comunismo). Ogni linguaggio formale si serve di simboli e procedimenti che possono essere rapportati a concetti di algoritmo, e quindi a veri e propri algoritmi, utili a bonificare la conoscenza da ogni significato soggettivo, da ogni ambiguità di linguaggio dovuta a interpretazione (cioè opinione). Tutti i problemi della formalizzazione non possono essere dissociati da quelli dell’assiomatizzazione, cioè l’insieme di regole che, in ogni particolare epoca stabilisce i limiti entro cui un dato problema può essere trattato senza che si sconfini nella fantasia o nella metafisica. D’altra parte ogni rivoluzione sociale, cui si accompagna una rivoluzione scientifica (e dal punto di vista comunista le due cose non possono essere separate), spezza le barriere che si frappongono fra l’antica e la nuova conoscenza, rendendo obsoleti i vecchi assiomi e facendone scaturire di nuovi… (Dal Glossario dei termini utilizzati nei due volumi di Scienza e rivoluzione, supplemento al n.1 della rivista n+1, Torino, settembre 2000).
[42] . Fare, dire, pensare. Corollari alla teoria rivoluzionaria della conoscenza, in rivista n+1, n. 38, Torino dicembre 2015, pag. 56.
[43] . Ibidem, cfr. a pag. 54.
[44] . Vedi in nømade n.17.2019 Due oggetti osservati a memoria, note 1 e 2 di pag. 40.
[45] . Wolfgang Herrmann, Gottfried Semper, ed. Electa, Milano 1990 pag. 74-75: “…Queste riflessioni sono la risposta a tutto ciò che [ßemper]ha visto nella mostra, in bene e in male; esse si sviluppano negli anni seguenti, in un progetto per un libro di vasti intenti, che cominci non già con i principi e le leggi che governano l’architettura, ma con una disamina particolareggiata di quei principi seguiti istintivamente dagli artigiani delle cinque branche dell’arte industriale – tessili. Ceramica, carpenteria, falegnameria e lavorazione dei metalli… Adottando il metodo dell’antico artigiano, Semper restringe il suo campo d’indagine a tre fattori: le proprietà dei materiali usati, il procedimento tecnico impiegato e la funzione che l’oggetto deve svolgere…La studio che Semper conduce sull’arte industriale è così vasto che, quando conclude con l’ultima delle arti applicate, la lavorazione dei metalli, il libro si è sviluppato in due volumi, destinati – nelle intenzioni – a formare la base per una parte conclusiva riservata all’architettura. Quando esce il secondo volume, nel 1863, Der Stil è ben accolto… Semper… non odia le macchine come Ruskin, né crede che la salvezza stia nel ritorno al sistema di produzione dell’artigiano medievale. Sarebbe un errore, scrive in Der Stil, ‘ignorare con altezzosa signorilità il presente e le sue invenzioni e offrire come solo unico modello le perfette realizzazioni del passato’(p. 192). Talora si appella a ciò che chiama un codice stilistico molto liberale che ha favorito le condizioni create dai nuovi processi di lavorazione. E’ convinto che il gusto e la sensibilità estetica debbano migliorare, qualora si acquisti padronanza dei nuovi mezzi. Se ciò si verifica e se la macchina impara ad essere subordinata alle proprietà naturali del materiale, avrà allora un effetto benefico sulle arti “ (pp. 112-119).
[46] . Ci riferiamo alla nota argomentazione per cui “la società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione… L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia… L’economia borghese così fornisce la chiave per l’economia antica ecc. Ma non certamente al modo degli economisti, che cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le forme di società vedono la società borghese” (Karl Marx, nel Quaderno M degli appunti per la critica dell’economia politica, ora in Lineamenti fondamentali…, ed. La Nuova Italia, Firenze 1968, lib. I, pp. 32-33).
[47] . Gottfried Semper, manoscritto 179, foglio 10 (1856, Uber die formelle Gesetzmässigkeit des Schmuckes), cfr. anche ms 117, foglio 4 (1851), riportato in Wolfgang Herrmann, Gottfried Semper, cit., pag. 75.
[48] . “L'uomo moderno … dice corbellerie giganti tutte le volte che tenta di decifrare la sua infanzia. È capace di guardare una pittura rupestre ed esclamare: Oh, com'è moderna!; di scoprire i percorsi preistorici dell'ossidiana o dell'ocra rossa e scrivere un articolo sui "mercati" di trentamila anni fa e sull'uso di "moneta" di scambio; di scavare una sepoltura paleolitica con segni di attività funeraria (colorazione con ocra, presenza di pollini di fiori, allineamento di sassi, ecc.) e non resistere alla tentazione di proclamare al mondo che l'uomo è sempre stato religioso. Ma che razza di teoria della conoscenza ci si può aspettare dall'uomo borghese, se non sa fare altro che proiettare sé stesso e la propria ideologia?” [Un mondo d'infinite relazioni, nella rivista n+1 n.33.2013].
[49] . Così ad esempio troviamo riassunta l’attività teorica di Riegl: “Critica del concetto di originale e studio dei falsi, considerazione del rapporto tra forme artistiche e forme di produzione (forme precapitalistiche, industria artistica), critica del paradigma tecnico materiale di derivazione semperiana (Kunstwollen), analisi del rapporto tra storia dell’arte e storia della cultura (Weltanschauung), rivalutazione delle arti cosiddette minori e dell’arte popolare in quanto campi privilegiati della ricerca dell’innovazione artistica, grammatologia come analisi delle forme artistiche, critica del concetto di decadenza nello sviluppo artistico e rivalutazione dell’arte tardoromana, barocca e ottocentesca, riconsiderazione dei rapporti tra centro e periferia nella produzione artistica, considerazione del ruolo dell’osservatore nella strutturazione dell’opera (estetica della ricezione).” Sandro Scarocchia in Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti (1903), ed. Abscondita, Milano 2017, pag. 79.
[50] . “Mentre nel XIX secolo, da un accenno di Kant e passando per Schelling fino a Carl Gustav Carus ed Eduard von Hartmann, si sviluppava una filosofia dell’inconscio, la fisica elaborava l’idea di campo fisico, dalla concezione intuitiva di Faraday fino alle leggi di Maxwell del campo elettromagnetico. Come il pensiero associava a questo campo una realtà indipendente,considerando quale fatto secondario, l’essere il campo reso visibile o no, mediante un mezzo appropriato (corpi carichi, limatura di ferro, aghi magnetici ecc.), così all’inconscio fu attribuita una realtà, quale strato marginale di ‘contenuto’, che, pur essendo subliminale, era in grado di influire considerevolmente, in certe circostanze, sui processi che hanno luogo nella coscienza. […] L’inconscio rivelò presto un struttura più complessa di quanto originariamente si fosse supposto. In particolare Jung mostrò che esso è composto solo in piccola parte da ciò che è stato rimosso dal cosciente; esso consiste in parte essenziale di un contenuto arcaico, collettivo, che non era mai stato prima nella coscienza, e che condizionava anche l’autonomia e l’indipendenza dell’inconscio. Nel frattempo anche il concetto fisico di campo aveva prodotto nuovi problemi. Se i corpi di prova utilizzati come mezzi di osservazione (per esempio limatura di ferro) indicano fedelmente il campo quale esisteva già prima della loro utilizzazione, e cioè non lo disturbano sensibilmente, la situazione è piuttosto semplice. Ma quando si ha a che fare con groppuscoli atomici…” ecc.. Wolfang Pauli, Aspetti scientifici e gnoseologici del problema dell’inconscio (1954), in W. Pauli, Fisica e conoscenza, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 125 e 126.
[51] . W. Herrmann, op. cit., pp. 100-101.
[52] . Andrea Pinotti, Il corpo dello stile, 1998, ed. Mimesis, Milano 2001, cfr. pagg. 9-12, 17-41.
[53] . K. Marx, poscritto alla seconda edizione (1873) de Il Capitale, lib. I, vol.1, cit. p. 23.
[54] . A. Pinotti, Il corpo dello stile, cit., p. 36 seg..
[55] . G. Semper, Degli stili architettonici, cit., p. 98
[56] . Cit. da G. Semper.
[57] . G. Semper, Lo stile, cit. Prolegomena, pag. 6
[58] . «Per parlare con precisione e nel significato prosaico», l'illuminismo francese del secolo XVIII, e specialmente il materialismo francese, non è stato solo una lotta contro le istituzioni politiche esistenti, contro la religione esistente e la teologia esistente, ma è stato anche una lotta aperta, esplicita contro la metafisica del secolo XVII e contro ogni metafisica, specialmente contro la metafisica di Descartes, di Malebranche, di Spinoza e di Leibniz. Si è contrapposta alla metafisica la filosofia, così come Feuerhach, nella sua prima decisa presa di posizione contro Hegel, ha contrapposto alla speculazione ubriaca la filosofia sobria. La metafisica del secolo XVII, la quale è stata messa fuori combattimento dall’illuminismo francese e specialmente dal materialismo francese del secolo XVIII, ha vissuto la sua restaurazione vittoriosa e sostanziale nella filosofia tedesca e specialmente nella filosofia speculativa tedesca del secolo XIX. Dopo che Hegel ha unito in modo geniale questa filosofia con tutta la metafisica che c'era stata fino allora e con l'idealismo tedesco, e ha fondato un regno metafisico universale, all'attacco alla teologia è corrisposto nuovamente, come nel secolo XVIII, l'attacco alla metafisica speculativa e ad ogni metafisica. Quest'ultima soccomberà definitivamente dinanzi al materialismo, ora completato dal lavoro della stessa speculazione e coincidente con l’umanismo. Come Feuerbach nel campo teorico, il socialismo e il comunismo francesi e inglesi hanno rappresentato nel campo pratico il materialismo coincidente con l’umanismo. «Per parlare con precisione e nel significato prosaico», si hanno due orientamenti del materialismo francese, di cui uno trae la sua origine da Descartes, l'altro da Locke. Questo secondo è prevalentemente un elemento della cultura francese e sbocca direttamente nel socialismo. Il primo, il materialismo meccanico, va a finire nella scienza naturale francese vera e propria. Entrambi gli orientamenti si incrociano nel corso del loro sviluppo. Non è nostro compito addentrarci qui nella considerazione del materialismo francese che deriva direttamente da Descartes, né della scuola francese di Newton e dello sviluppo della scienza naturale francese in generale”. - Karl Marx, in Engels-Marx, La sacra famiglia, ed. Riuniti, II ed. I. ristampa, Roma 1972 (trad. cura e note di A.Zanardo), pp.162-176 - cap. La critica assoluta ovvero la critica come signor Bruno.
[59] . In epistemologia il termine “riduzionismo” rispetto a qualsiasi scienza sostiene che gli enti, le metodologie o i concetti di tale scienza debbano essere ridotti al minimo sufficiente a spiegare i fatti della teoria in questione. In questo senso il riduzionismo può essere inteso come un'applicazione del cosiddetto "rasoio di Occam" (o "principio di economia"), secondo cui non bisogna aumentare senza necessità le entità coinvolte nella spiegazione di un fenomeno [voce in Wikipedia].
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