L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro comune . 2021
arteideologia raccolta supplementi
made n.20 Giugno 2023
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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pagina
Elementi e complementi . (appunti III.4)

Non è dall’oggi al domani che il proletariato ha fatto del marxismo il suo metodo, e attualmente è ben lungi dal servirsene integralmente. Questo metodo serve ora principalmente e quasi esclusivamente a scopi politici. Il largo impiego come metodo di conoscenza e lo sviluppo metodologico del marxismo dialettico appartengono ancora all’avvenire. Soltanto nella società socialista il marxismo cesserà di essere lo strumento unilaterale della lotta politica, per divenire il metodo della creazione scientifica, l’elemento e lo strumento essenziale della cultura spirituale. (Trotsky '23)

...Siamo qui, come attorno ad un bivacco notturno. Alla luce di un fuoco che a sprazzi illumina la radura qualcuno ci intrattiene parlando più o meno di arte. Ma più sul meno riesce a dire, lasciando oltretutto cadere i fili continui del suo discorso. E così, chi paziente l’ascolta si sforza di ravvisare, oltre l’ombra che avvolge il gruppo, la completezza degli argomenti che lui vorrebbe illuminare senza però mai raggiurgerli…  

RICOGNIZIONI SUL FORMALISMO 4

L’estetica, l’arte, la scienza e lo stile

Nessun biologo dubita oggi che gli organismi siano sistemi chimico-elettro-meccanici. Il nostro problema è che, diversamente da altri campi del mondo fisico in cui poche forze forti dominano i fenomeni, l’organismo è il punto di convergenza di un grandissimo numero di sentieri causali di debole forza determinante, che rendono estremamente difficile fornire spiegazioni complete. (Richard Lewontin, Il sogno del genoma umano (2000), it. Ed. Laterza 2002, introd. p. XVII) 

In una antologia che raccoglie una scelta selezione di scritti di Marx sulla “generale creatività nel lavoro e nelle forme espressive”, è riportata anche la stesura della voce Estetica [1], compilata da Marx nel 1859 per la New American Cyclopaedia di New York.
«E’ sintomatico che la voce Estetica (scritta nello stesso anno della Prefazione alla Critica dell’economia politica, che è il luogo dove Marx delinea sinteticamente i rapporti fra struttura e sovrastruttura e dichiara la funzione predominante della “base” economica) ammetta che le leggi del gusto possono divenire oggetto di una sistemazione scientifica, al pari della logica e dell’etica » – commenta uno dei curatori l’antologia, prima di riassumerne il contenuto:

L’estetica come scienza è ancora alla sua infanzia [sostiene Marx]. Gli studiosi che hanno finora affrontato il problema della scienza del bello si possono dividere in due categorie, osserva Marx: i sostenitori del metodo “a priori” (partire dalle “nozioni estetiche proprie della mente” e costruire in base ad esse un sistema astratto cui gli artisti vengono invitati a conformare le loro opere) ed i sostenitori del metodo “a posteriori” (partire dalle opere conosciute per ricercare in esse i loro motivi di validità e indicare agli artisti regole pratiche da seguire per imitarle). Nella prima direzione si sono mossi, tra gli altri, Pitagora, Platone, Kant, Hegel. Nella seconda, Aristotele, Lessing, eccetera.
Dopo aver analizzato i contributi di questi filosofi alla scienza estetica, Marx nota come sia mancato lo studio di un elemento molto importante, “la teoria delle proporzioni”. Pitagora, che aveva iniziato a muoversi in codesta direzione, non ha trovato continuatori. « Noi non conosciamo che cosa sia la “linea della bellezza”, in architettura, in scultura, in pittura, e neppure da quali tratti di similarità essa operi sulle simpatie della mente ». Al fine di integrare la nostra conoscenza in materia è necessario – sostiene Marx – che ci procuriamo “una migliore psicologia su base matematica, come quella di Herbart”, riconoscendo giusta l’esigenza di indagare la natura dei nostri processi percettivi e mentali; ma è necessario, altresì, che ad ogni migliore conoscenza di noi stessi si accompagni una “completa analisi delle forme artistiche fino ai più minuti dettagli e per ogni branca dell’arte”; è indispensabile, cioè, fare una vera storia sistematica dell’arte a partire dai suoi primordi.[2]       

E’ evidente – scrive Marx – che nessuno dei metodi, “a priori” o “a posteriori”, seguito unilateralmente, possa giungere a ciò cui aspira, e cioè a stabilire una scienza del bello riguardante i processi percettivi e mentali (psicologia scientifica su base matematica) senza fondarla su un ricco patrimonio di osservazioni sperimentali appropriate, dovute ad analisi complete fino ai più minuti dettagli delle realizzazioni artistiche.
Sembra proprio che qui si avanzi per l’estetica la richiesta non solo di una sua autonomia dalla filosofia, ma anche, all’interno di questa autonomia generale, l’autonomia specifica di ognuna delle diverse branche dell’arte.
Nell’introduzione del 1972 ad una antologia [3] di testi dedicati al rapporto della scienza con l’arte, il semiologo Ugo Volli, scrive:

L’idea di una ricerca scientifica intorno ai fenomeni artistici non è certo nuova nella nostra tradizione culturale, fin dalla Poetica di Aristotele e dai canoni di proporzioni presenti nelle arti figurative greche. In sostanza una scienza dell’arte ha come presupposto principale la fiducia che i fenomeni estetici siano analizzabili razionalmente o, almeno, non siano totalmente e irriducibilmente irrazionali. Per tutto un lungo periodo della cultura occidentale non c’è rigida distinzione tra arte, scienza e filosofia: la filosofia è scienza per Aristotele e per tutti gli scolastici (questo concetto è talmente diffuso che il nome della moderna scienza sperimentale al suo sorgere sarà “Filosofia naturale, e così continuerà a chiamarla, ad esempio, Newton; ma la scienza è interpretazione immaginativa, essenzialmente non quantitativa del mondo, e quindi si avvicina moltissimo alla prassi estetica; a sua volta l’arte è recta ratio factibilium e l’estetica tende a confondersi con la scienza nella fisica della luce. Ovviamente questa indistinzione non è mai stata totale, e si possono trovare molti esempi che la smentiscono…
E’ solo con il XVII secolo che una tale opposizione prende ad affermarsi, con la nascita della scienza sperimentale, da un lato, e dall’altro con l’affermarsi delle poetiche dell’ingegno, del gusto, del sentimento. Si verifica cioè, all’apparenza, una scissione decisiva tra prassi scientifica ed estetica, che proseguono sulla propria strada, l’una attuando un progetto sempre più rigoroso ed esplicito di comprensione razionale e matematica dell’universo, l’altra esaltando la soggettività dell’artista. Non è certo questo il luogo per tentare un’analisi delle vicissitudini, dell’affermarsi e delle crisi di queste tendenze, e delle loro profonde motivazioni sociali ed economiche.
La distinzione tra ambito artistico e scientifico viene comunque vissuta sempre più come opposizione, tanto che i tentativi ottocenteschi d’applicare in qualche modo la metodologia scientifica non alla pratica, ma solo allo studio dei fenomeni estetici comportarono una notevole carica polemica, come risulta dal saggio di B. Rauen[4].
I temi dell’opposizione, teorizzati in maniera complessiva dalle filosofie romantiche e idealistiche da Schelling a Croce, sono entrati nel patrimonio dei luoghi comuni della nostra cultura: l’artista, libero creatore, divino artefice, genio sregolato agisce senza metodo rispondendo solo a se stesso del suo operare, mentre lo scienziato, con la sua metodologia pubblica, coglie gli schemi della realtà, senza infingere ipotesi, e quindi in qualche modo impoverisce la realtà per studiarla.
Si tratta d’immagini del tutto banalizzate e povere di contenuto, che non hanno mai corrisposto alla realtà dei fatti o alla coscienza dei più avveduti fra artisti e scienziati, ma che sono state lungamente vendute dai mezzi di comunicazione di massa. Anche su questo piano una polemica è senza dubbio superflua, e tali schemi sono in via di dissoluzione.[5] 

Nonostante questa conclusione ottimistica degli anni settanta del secolo scorso a noi sembra che nell’intendere più comunemente diffuso specialmente tra il pubblico delle arti, le banalità romantiche e idealistiche che avrebbero dovuto dissolversi completamente siano poi giunte quasi inalterate fino ai nostri giorni.
Ma non ci occuperemo di questo aspetto retroattivo. Piuttosto del rapporto tra arte e scienza vogliamo limitarci a mettere in evidenza un punto di convergenza, vale a dire lo “sperimentalismo”, il quale segna al contempo il punto del loro distacco.

Come la scienza moderna, da Bacone e soprattutto da Galileo, abbia preso il suo carattere essenziale dall’ipotesi sottoposta ad esperimento, così, dalla seconda metà del secolo XIX, l’arte viene ad essere costruita sulla sperimentazione [6] – anche se tale suo carattere essenziale sarà riconosciuto e dichiarato esplicitamente soltanto nei primi decenni della seconda metà del secolo successivo.[7]

Naturalmente non basta il fatto che una medesima parola venga utilizzata tanto per l’arte che per la scienza a rendere arte e scienza delle attività tra loro equivalenti, o variamente commensurabili e commutabili.
Proprio recentemente abbiamo letto questa precisa affermazione: “Già prima che comparissero i sapiens, i chimici dunque erano al lavoro”. Che gli uomini del neolitico che dipinsero sulle pareti delle grotte di Altamira dei capolavori fossero già degli “artisti”; e che poiché impiegavano l’ossido di ferro (ematite rossa), l’ossido idrato ferro (ocra gialla) e il carbone o l’idrossido di manganese per rendere il nero, fossero dunque dei “chimici”, è una bizzarra conclusione che indica fin dove possono arrivare le sciocchezze quando il pensiero borghese estende all’intero arco temporale dell’evoluzione della specie umana il modo di produzione capitalistico, e specificatamente la moderna divisione sociale del lavoro.
Dell’esistenza di analogie e falsi punti di contatto tra arte e scienza si è accennato in precedenza citando uno degli studi metastorici di Thomas Kuhn del 1969, da cui adesso estraiamo un brano che riguarda appunto certe nozioni come sperimentalismo, innovazione o avanguardia, comunemente usate parlando di arte o di scienza, spesso omettendo la diversità degli scopi e dei compiti dell’una e dell’altra.

La funzione delle crisi nelle scienze è quella di segnalare la necessità di una innovazione, di dirigere l’attenzione degli scienziati verso l’area dalla quale possono derivare fruttuose innovazioni, e di suggerire indicazioni sul tipo di innovazioni. Proprio perché la disciplina possiede questo sistema intrinseco di avvertimento, la stessa innovazione non è necessariamente un valore primario per lo scienziato, e l’innovazione fine a se tessa può venire condannata. La scienza ha le sue élite e può avere delle retroguardie, coloro che producono cose kitsch. Ma non vi è una avanguardia scientifica, e la sua esistenza sarebbe una minaccia alla scienza.
Nello sviluppo scientifico, l’innovazione deve restare una risposta, spesso riluttante, a precise sfide poste da rompicapi concreti [problemi tenaci]. Ackerman afferma che, anche  per le arti, la risposta contemporanea all’avanguardia esprime una minaccia, e può darsi che abbia ragione. Ma ciò non deve travisare la funzione storica che l’esistenza di una avanguardia rende manifesta. Sia come singoli che come gruppo, gli artisti cercano nuove cose da esprimere e nuovi mezzi di espressione. Essi fanno dell’innovazione un valore primario, ed hanno iniziato a fare ciò prima che l’avanguardia desse a questo valore una espressione istituzionale. Per lo meno sin dal Rinascimento questa componente innovativa dell’ideologia dell’artista (non è la sola componente, né è facilmente compatibile con le altre) ha fatto per lo sviluppo dell’arte una certa parte di ciò che le crisi interne hanno fatto per promuovere la rivoluzione nella scienza.
Dire con orgoglio, come dicono sia gli scienziati che gli artisti, che la scienza è cumulativa, e l’arte no, significa non comprendere il modello di sviluppo in entrambe i campi.
Tuttavia questa generalizzazione, spesso ripetuta, esprime quella che può essere la più profonda delle differenze che abbiamo esaminato: il valore radicalmente diverso che viene attribuito all’innovazione per l’innovazione dagli scienziati e dagli artisti.[8]   

Dunque ciò che l’esistenza istituzionalizzata di una avanguardia (storica) ha compiuto di notevole è aver reso manifesta la componente innovativa dell’arte – già presente però nell’arte almeno fin dal Rinascimento, sottolinea  Kuhn, e sarebbe come dire che, con le avanguardie, l’innovazione in quanto tale sale al rango principale. L’arte, come sistema dinamico complesso può, ad un certo grado di sviluppo, derivare dai propri assiomi una teoria e una sperimentazione come “l’arte per l’arte”; ma la scienza non ha come componente principale l’innovazione; e così, per quanto condotta con metodo scientifico, per la scienza una sperimentazione dell’innovazione per innovazione non ha senso, anzi gli è decisamente nemica.
Scopo e compiti nell’arte e nella scienza sono e rimangono diversi, anche se a volte la scienza può trovare nell’arte dei modelli per l’immaginazione scientifica quali ausili già bell’e fatti, degli aiuti al ragionare o all’esprimersi della scienza (come ha fatto più che abbondantemente Douglas Hofstadter per il suo famoso Gödel, Escher, Bach, ad esempio).
E’ un punto, quello messo in chiaro da Kuhn, che rende manifesto il differenziarsi dell’arte dalla scienza, comunemente intesa come ricerca della verità. Per quanto la verità rimanga qualcosa difficilmente definibile, rimarrebbe da chiedersi come possono verificarsi certi scambi di informazione – spesso reciproci e del tutto concreti – tra questi due differenziati sistemi: la scienza e l’arte.
Non ci metteremo a rispondere direttamente alla questione, per noi ancora controversa, anche se crediamo di poter dire qualcosa al proposito con la banalità di intendere l’arte e la scienza come due modalità storicamente determinate della conoscenza sociale – che sarebbe qualcosa simile al general intellect , il knowledge, o il sapere sociale generale [9] di Marx?

L’arte e la scienza si costituiscono entrambi con le forme che le rispettive modalità del conoscere attualizzano per le diverse sensitività umane: l’immagine per l’occhio, la musica per l’orecchio… la logica per il cervello. Ora, però [10], possiamo considerare che come esiste un conoscenza generale non di meno esiste anche una non-conoscenza generale, autonomamente attiva e reattiva, efficace ed efficiente, sottratta al controllo della coscienza e della volontà dei singoli; un substrato (inconscio) nel quale, ad esempio, l’arte e la scienza affondano le indistinte radici in un unico humus tanto più sprofondato e putrido quanto più fertile e potente.
La nostra è una considerazione che potrebbe essere di un qualche aiuto per tentare di capire anche certi aspetti specifici, locali e singolari, che sfuggono all’arte e all’estetica. Specificità che magari non hanno alcuna influenza primaria nel generale sviluppo delle forze produttive immediate per le condizioni e i processi della vita reale, e che tuttavia alla vita reale immediata fanno ricorso e riconducono.
Potremmo fare degli esempi concreti per intenderci meglio, ma preferiamo lasciare alla sensibilità del relatore l’opportunità di sceglierli, limitandoci a ricordare il già citato Lucian Blaga che, anche lui come Kuhn, può dirci qualche altra cosa di generale circa la crisi del pensiero e della forma, la rivoluzione e le avanguardie, il formalismo e lo sperimentalismo, lo stereotipo e l’innovazione, senza mancare di mantenere tutto ciò al tempo reale storico, sociale e culturale dell’attualità in cui svolge le sue riflessioni sul concetto di “stile” e trarre diagnosi per il futuro.

L’ortodossia [11] [che per Blaga rappresenta il “modo elementarizzante”, ma noi possiamo intenderla come “formalismo” riduzionista] possiede il significato ideale di un’entità astratta elementare ed ecumenica, la quale, realizzata come tale, non dovrebbe permettere a nessuno di uscire dallo schema della sua totalità cristallina. Questa organizzazione elementarizzante dovrebbe difendersi da qualsiasi velleità individualistica e rifiutare come “peccato” [noi possiamo intenderlo come “errore”] anche la più inoffensiva deviazione dalle forme in cui essa si fosse assettata. Con l’istituzione della scomunica, essa si è creata, del resto, un sistema di difesa del suo carattere elementarizzante e universale. L’ortodossia però non si è realizzata mai, in realtà, completamente. Essa è un sistema aperto, con movimento involutivo o evolutivo, secondo i tempi e le circostanze.
Apriamo qui una parentesi in margine ad una discussione intermittente, ora ripresa, ora abbandonata. Qualcuno ha espresso l’opinione che nel giro dell’ortodossia non fosse più possibile ormai né forma, né pensiero nuovo. E’ un errore: un errore che si deve all’idea sbagliata che l’ortodossia sia un sistema chiuso.
Non diversamente dalle altre organizzazioni a carattere elementarizzante [come la scienza e soprattutto la matematica], l’ortodossia, costituita nei suoi principî [assiomi e teoremi], è un sistema che permette l’innovazione, a patto che la “novità” si trovi sulla linea interiore dell’ecumenico e dei suoi principî. Entro i confini dell’ortodossia l’originalità dell’individuo creatore è ammessa, non nel senso della individualizzazione, è vero, ma comunque nel senso della rivelazione dell’inedito entro l’ecumenico virtualmente fissato.
L’idea dell’ecumenico [dell’universale] e la vita creativa non si escludono e, quando si accompagnano, non sono condannate senz’altro allo stereotipo. Lo stereotipo sorge solo dopo l’esaurimento di tutte le virtualità di un pensiero o di una forma. Del pericolo dell’esaurimento è minacciata, in definitiva e ugualmente, ogni iniziativa, per quanto promettente sia in principio. […]
Ad un dato momento ogni forma e ogni pensiero si esauriscono: il tempo ha virtù emollienti. Ma, a un dato momento, pure ogni pensiero e ogni forma, ritenute esaurite o morte, possono, grazie ad una favorevole situazione spirituale [dello spirito, non dell’anima], rinascere (dal 1907 al 1925 circa, le rivoluzioni letterarie e artistiche si sono susseguite ininterrottamente, accavallandosi a vicenda, finché la stessa idea di “rivoluzione artistica” si è consumata [come l’Arcadia di Poussin nel barocco?]: tanto che oggi e per qualche tempo ancora, nessun’idea è più fuori uso e vieta di quella di “rivoluzione artistica).[12]

Non vogliamo lasciar credere che il pensiero estetico di questo filosofo e poeta romeno stia prendendo un peso determinante in questa ricognizione sul formalismo. Elaborato negli anni trenta del secolo scorso, il suo studio ci è sembrato subito il meno “scolastico” (intendendo il termine nel senso peggiore) tra quegli altri che hanno avuto una popolarità e un successo tuttora pregnante la letteratura e la storia delle arti.
Noi non possiamo dire di aver compreso il pensiero di Blaga e le sue eventuali insidie; ma di fatto è accaduto che in Orizzonte e stile abbiamo ravvisati certi argomenti e temi, raramente affrontati e mai più trattati, che risuonavano di strani accordi con la nostra “ortodossa” linea di pensiero.
E’ difficile spiegarci meglio, ma proviamo ad aiutare tutti proponendo qualche pagina di un interessante studio storico sulla nozione di "stile" [13], nel quale la concezione dello studioso romeno viene esposta in una maniera certamente più ordinata e comunicativa di quanto sappiamo fare noi.

L’inconscio non è un caos, ma assomiglia a un cosmo, “ha un carattere cosmotico”, la cui autonomia va preservata da qualsivoglia riduzione al conscio; quindi «nulla è nell’incosciente che non sia stato prima nella coscienza, se non l’incosciente stesso». Spiegare, come fa la psicoanalisi, la creazione spirituale come deviazione e sublimazione di una libido sessuale insoddisfatta, è per Blaga assolutamente insufficiente. Inoltre, riportare le creazioni spirituali [artistiche] alle determinazioni di precoci comportamenti infantili è attribuire a questi la funzione di causa, mentre essi sono a loro volta solo simboli, espressione di tipi [di stili] individuali. Il rapporto tra inconscio e coscienza deve essere indagato alla luce della “personanza”: “Si tratta di quella proprietà che permette all’inconscio di penetrare, con le sue strutture, le onde e i suoi contenuti, fin sotto le volte della coscienza”. E’ questo per-sonare che aiuta a comprendere il fenomeno dello stile, costituendo il canale di comunicazione tra origine inconscia e manifestazione stilistica consapevole. Blaga ricorre a una metafora botanica per illustrare il radicamento dello stile nell’inconscio: «Albero liminare con le radici in un’altra terra, lo stile vi raccoglie, incontrollato, la sua linfa». Esso deriva dalla “natura naturans”, non certo dalla consapevole “volontà della forma” manifestata consciamente dall’artista. E’ questo che, secondo Blaga, distingue il suo concetto di “nisus formativus” dal “Wille zur Form” [volontà di formare] degli storici dell’arte come Riegl e Worringer. Già in Filosofia dello stile, del 1924, Blaga aveva preso in esame questo concetto tratto dalla biologia teoretica, commettendo però l’errore di ritenere la tendenza formativa la determinazione unica dello stile. In Orizzonte e stile … il nisus viene definito come l’«appetito della forma, l’invincibile tendenza a imprimere forme articolate, con spirito di consequenzialità insistente, a tutte le cose che giacciono nella zona delle creazioni umane e che giungo a contatto con le nostre virtù plastiche: a tutte le cose, cioè, del nostro orizzonte immaginario». Il nisus formativus di Blaga appartiene alla tradizione goethiano-humboldtiana, in cui viene sottolineata, più che la forma finale e il risultato statico, la formazione, cioè il processo dinamico attraverso il quale si giunge alla forma. Se Goethe poteva scrivere: «Lo stesso organo che, come la foglia, si espande dal fusto e prende forme straordinariamente diverse, si contrae poi nel calice, torna ad espandersi nei petali, si contrae negli organi riproduttivi, per riespandersi infine come frutto», dal canto suo Blaga afferma che «lo stile è costituito non soltanto di petali visibili, ma anche di sepali coperti, di un torso di forme, possiamo dire, sotterraneo e del tutto nascosto». Ma se Goethe, fenomenologo ante litteram, invitava a non cercare nulla dietro i fenomeni, poiché essi stessi sono già la teoria, Blaga non si accontenta della apparenza nel senso di Erscheinung, ma cerca lo sprofondamento nel mistero dell’inconscio, cerca dietro al fenomeno stilistico – o meglio “sotto” di esso – una matrice inconscia che lo determini, eventualmente operando anche in conflitto con la coscienza individuale: una matrice anonima. L’ascesa alla forma stilistica, Gestaltung o Bildung dello stile, deve quindi essere compresa a partire dalla discesa all’altro regno...

Proprio a questo punto della “discesa all’altro regno”, una nota dell’Autore ci informa che «Anche Banfi, pur riconoscendo una notevole importanza alle analisi stilistiche di Blaga, aveva mostrato significative riserve nei suoi confronti, parlando, nell’introduzione a Orizzonte e stile di “leggero e a volte ingenuo velo mitico”, di “procedere rapsodico e intuitivo”, di “scene grevi e bituminose di una metafisica neoromantica”.
Noi però, come contrappunto a questi giudizi di gusto letterario, siamo più interessati a tener presente le parole di Blaga: «…l’inconscio non è solamente un centro metafisico invisibile, che presiede alle formazioni organiche e che dirige la vita fisiologica e cosciente, come crede la maggior parte dei romantici, da Schelling fino a Carus e Hartmann… non è un semplice sottosuolo della coscienza, in cui verrebbero a cadere ininterrottamente, per effetto di una severa scelta, elementi della coscienza. Noi immaginiamo l’inconscio come un’ampia realtà psichica, con struttura, dinamica e iniziative proprie: una realtà dotata di una sua sostanza, organizzata secondo leggi immanenti… come una realtà psichica di grande complessità, con funzioni sovrane, e un ordine e un equilibrio interiore che fanno di esso un fattore più autonomo della stessa coscienza» (pp.53,54); a cui aggiungiamo l’argomento sulle energie (deboli) con la metafora della cloaca massima e i trasformatori (cfr. pp.60-62); ed infine, quasi alla conclusione di Orizzonte e stile, traiamo l’enunciazione, ben chiara e rafforzata, per cui «In ogni arte, di qualsiasi carattere formativo, si esprime innanzi tutto, un “fatto vissuto”. L’arte elementarizzante esprime un “fatto vissuto” nella stessa misura in cui lo esprimono l’arte individualizzante e l’arte tipicizzante, solo che in ognuno dei tre casi si tratta di specie differenti di “fatti vissuti”…» (p.202). E con ciò intendiamo annotare che l’autore di Orizzonte e stile ci sembra controllare criticamente la sua “metafisica neoromantica”, ed è consapevole di sferrare un colpo micidiale all’idealismo, precipitando l’individuo, la coscienza e la volontà nella cloaca massima del suo “altro regno” anonimo.[14]

...Tale mondo blaghiano inconscio è poietico [creativo] in senso forte – continua a riassumere Pinotti –. In questo senso nulla ha a che fare con il concetto di imitazione, del tutto inadeguato a comprendere il problema dello stile. Lo stile [15] non è una traduzione, più o meno fedele, più o meno distorta di un mondo che, per così dire, c’è già, oggettivamente e neutralmente determinato. Lo stile costituisce il suo mondo, è a priori rispetto ad esso. Su questo punto Banfi [il prefattore di Orizzonte e stile] vide una affinità tra l’impostazione blaghiana e la teoria purovisibilistica di Konrad Fiedler [16], il quale configurò il rapporto arte-natura-verità in modo opposto a quello dei teorici dell’imitazione, polemizzando contro il concetto mimetico dell’arte. Ma lo stesso Blaga prese le distanze da questa concezione fiedleriana: Fiedler, scrive Blaga, intende l’arte «come una ‘conoscenza comprensiva’ nella stessa misura in cui la scienza è conoscenza, sebbene si tratti di conoscenza realizzata con mezzi diversi nei due casi… A noi invece l’arte non sembra affatto ‘conoscenza’ né realizzazione ‘intuitiva’ di certe idee, né conquista della realtà stessa». L’arte e la scienza, spiega Blaga, coincidono solo nel loro fallimento a comprendere il mistero dell’altro regno: «Il termine comune più generale che racchiude le analogie tra l’arte e la conoscenza non è quello della conoscenza bensì quello della ‘costruzione’, oppure quello dei propositi di rivelare (che però sono sempre limitati dalle categorie abissali). Fiedler non ha sospettato nemmeno l’esistenza delle categorie abissali».      

Non lasciatevi sedurre, non lasciatevi ingannare, non lasciatevi consolare. Le parole non dovrebbero andarsene tristi verso una buona notte…
Giusto per ridurre la vaghezza di certi termini, in generale è raccomandabile accogliere nell’aura dei loro significati   anche la concretezza fisica che alcuni termini possono attingere dall’uso che ne fa la Fisica.
Così, ad esempio, che energia è una grandezza fisica che misura la capacità di un corpo o di un sistema fisico di compiere lavoro, o anche una proprietà posseduta dal sistema che può essere scambiata fra i corpi attraverso un lavoro; che le forze (o interazioni) fondamentali sono la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza (nucleare) forte, e la forza (nucleare) debole.
Riguardo poi ai corpi, li abbiamo di astronomici e di planetari, di organici e di inorganici, solidi, liquidi e gassosi, di macroscopici e di microscopici, e di ancor più sottili ed ineffabili nel modello standard della fisica delle particelle – che dopo aver aggregato fotone, elettrone, protone, positrone e neutrone, ha visto successivamente presentarsi il muone e vari neutrini, i pioni, i kaoni, le lambda, i sigma, l’omega-meno, l’antiprotone e l’antineutrone.
E non finisce qui: «Vi sono nuove specie di entità, note come quark, gluoni, bosoni W e Z; vi sono vaste moltitudini di particelle la cui esistenza è così effimera che non sono mai osservate direttamente e a cui si fa riferimento solo come risonanze. Il formalismo dell’attuale teoria esige anche entità transitorie, chiamate particelle “virtuali”, e anche quantità note come “ghost” (fantasmi), che sono persino più lontane da una possibile osservazione diretta. Vi è un numero sbalorditivo di particelle – non ancora osservate – che sono previste da certi modelli teorici, ma che non sono assolutamente conseguenze della struttura generale dell’accettata fisica delle particelle… Vi è anche la misteriosa particella di Higgs… essenziale per l’attuale fisica delle particelle, perché il relativo campo di Higgs è ritenuto responsabile della massa di tutte le particelle»[17].
Sembrerebbe che – parafrasando Blaga – neppure la realtà sensibile sia poi un semplice centro fisico, un semplice suolo su cui la vita e la conoscenza riposa, ma un abisso in cui sprofonda.

 
Intermezzo della grossa zolla con Dürer e Goethe

Padova, 27 settembre 1786 – ... E’ piacevole e istruttivo aggirarsi in mezzo ad una vegetazione che non si conosce. Le solite piante, come  qualsiasi oggetto che ci è noto da tempo, non ci suscitano alcun pensiero, e a che cosa vale guardare senza pensare? Qui invece, in questa varietà che mi viene incontro sempre nuova, acquista nuova forza la congettura che tutte le forme vegetali abbiano potuto svilupparsi da un’unica pianta. Solo su questa base sarebbe possibile determinare esattamente i generi e le specie, il che, mi sembra, finora si è fatto arbitrariamente. A questo punto della mia filosofia botanica mi sono arenato, e non vedo ancora in che modo districarmi.
E’ un problema che mi appare non meno profondo che vasto.
(p.63)

Palermo, martedì 17 aprile 1787 – ... Stamane andai al giardino pubblico col risoluto e calmo proponimento di tener dietro ai miei sogni poetici, quando fui afferrato alla sprovvista da un altro fantasma che già da qualche giorni mi inseguiva furtivo. Molte piante … crescono qui felici sotto il libero cielo … Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria. E’ impossibile che non esista! Come riconoscerei altrimenti che questa o quella forma è una pianta, se non corrispondessero tutte ad un unico modello? Mi sforzai dunque a indagare in che cosa si distinguessero tante diverse specie; e le trovavo sempre più somiglianti che differenti, e se volevo applicar loro la mia terminologia botanica vi riuscivo abbastanza bene, ma non me ne veniva alcun frutto: non facevo che accrescere il mio rovello senza progredire d’un passo. Vedevo sconvolti i miei piani poetici; il giardino d’Alcinoo scompariva e mi si schiudeva invece un giardino universale. Perché mai siamo così distratti, noi gente d’oggi? Perché inseguiamo chimere al di là della nostra portata, delle nostre capacità? (pp. 295-6)

Napoli, 17 maggio 1787. (lettera ad Herder) – ... Inoltre ho da confidarti che oramai sono prossimo a scoprire il segreto della genesi e dell’organizzazione delle piante, e che si tratta della cosa più semplice che si possa immaginare. Sotto questo cielo sono possibili osservazioni bellissime. Il punto fondamentale in cui si cela il germe, l’ho scoperto nel più chiaro e indubitabile dei modi; tutto il rimanente lo vedo nel suo insieme e soltanto pochi punti sono da definire meglio.
La pianta originaria sarà la più strabiliante creazione del mondo, e la natura stessa me l’invidierà. Con questo modello e con la relativa chiave si potranno poi inventare piante all’infinito, che debbono essere coerenti fra loro: vale a dire che, anche se non esistono, potrebbero esistere, e non sono ombre o parvenze pittoriche o poetiche, ma hanno un’intima verità e necessità. E la medesima legge potrà applicarsi a ogni essere vivente.
(p. 359) [18]

Estetismo ed autonomismo

La peinture est plus fort que moi, elle me fait faire ce qu’elle veut.
P. Picasso (in un quaderno del 27 marzo 1963) [19]

Nel giudizio di Trosky sui formalisti russi troviamo traccia di un equivoco ricorrente generato dall’equiparare in arte  “estetismo” e “formalismo”, entrambi condannati a trascinarsi dietro le valutazioni critiche e i giudizi espressi nei confronti del movimento letterario post-romantico dell’art-pour-l’art, nel quale affonderebbero le loro comuni radici.

…che si debba andar cauti nel riconoscere all’art pour l’art  un potenziale eversivo o un carattere anticonformista è ben dimostrato dal rovesciamento dei fronti che avrà luogo nel Novecento. Se all’epoca di Gautier art pour l’art  poteva suonare un motto di sfida nei confronti della società, nel secolo che si è appena chiuso [il XX], che è stato anche il secolo dell’arte politicamente schierata, dell’arte come impegno sociale e presa di posizione contro l’organizzazione borghese della vita, l’arte per l’arte è stata invocata spesso come una garanzia di ordine e come un principio di non-ingerenza. Arte per l’arte ha voluto [anche] dire: ognuno se ne stia al suo posto, e gli artisti non facciano politica. E a dirlo non sono stati i bohémiens, gli artisti senza radici e senza legittimazione, ma i più ligi difensori dell’ordine costituito. Perché “arte per l’arte” è un ombrello molto largo, sotto il quale possono ripararsi molte cose. Per questo chi vuole passare dall’arte per l’arte per capire l’estetismo non può credere di aver trovato la chiave che apre tutte le porte e deve invece moltiplicare l’attenzione.[20]

“L’arte per l’arte” – che pur veniva già professata (specialmente dai conservatori e dai dilettanti) nel periodo romantico tra le due grandi rivoluzioni borghesi – rinunciava agli ideali derivati dalle virtù del giacobinismo, alla fede romantica nella potenza dello spirito e alle teorie estetiche che avevano ratificato l’unità dell’arte con la missione sociale, soltanto dopo che le rivoluzioni del 1848 distrussero le speranze romantiche della grande rinascita dell’uomo.[21]
Se il “romanticismo” si era prefisso di far come la natura, di fondersi cioè con tutte le creature senza mescolarle, di fondere l’ombra con la luce, il grottesco con il sublime, il corpo con l’anima, l’animale con lo spirituale, e significava dare un più alto significato alle cose comuni, una parvenza di infinito al finito, e nella concretezza dell’oggetto artistico era da vedersi l’idea spirituale che si rilevava non all’occhio esteriore ma all’occhio interiore [22], l’arte per l’arte reagisce a tutto questo con la separazione dell’arte dalla natura, dalla società e dalle sue stesse tradizioni, e finirà per dare finitezza all’infinito e consegnare ai sensi l’oggetto artistico e, a fortiori,  all’arte l’arte stessa.
Che poi in un primo tempo il beneficiario più appariscente di queste separazioni e inversioni di simmetrie sia stato l’individuo, la persona e l’io , può attribuirsi all’imperversare per tutta l’epoca delle idee del genio, della libertà o della bellezza, che il pensiero borghese si era cucite addosso ed elargiva scioccamente anche a tutte le epoche del passato con la medesima indifferenza con cui confezionava sia il panciotto da poco prezzo che il dandy  che l’indossava.
Sorta nell’epoca dell’affermazione sociale e del consolidamento politico ed economico della borghesia moderna, “l’arte per l’arte” manifestava sostanzialmente il bisogno di altri rendimenti artistici, potenzialmente meno aleatori, più sicuri, stabili e stabilizzanti come le conquiste scientifiche che intanto modificavano incessantemente l’esistenza e lo stile di vita. La qualità di tali rendimenti e il loro sviluppo al momento non ci interessa.
Ciò che invece ci interessa notare è appunto il bisogno dell’arte che, giunta ad un certo grado di sviluppo, inizia a separarsi dalla sua tradizionale unitarietà con le funzioni sociali per autoorganizzare una sua distinta autonomia.
E’ un processo che si svolgerà in tutta Europa per quasi l’intero Ottocento e oltre, la cui base naturale è da ravvisare nel generale processo storico di separazione cui abbiamo accennato in precedenza [23].

Sebbene vengano spesso confusi l’una con l’altra, l’estetismo e l’autonomia dell’arte sono due tesi distantissime, addirittura opposte. Possono essere scambiate tra di loro solo se la tesi dell’autonomia dell’arte viene male interpretata e ridotta a significare che l’arte serva solo a se stessa, sia un gioco senza scopo e privo di rilevanza, laddove autonomia dell’arte significa proprio il contrario, ossia significa che l’arte, o meglio l’esperienza estetica di cui ciò che chiamiamo arte è solo una delle manifestazioni, anche se la più cospicua e, nelle nostre condizioni di cultura, la più evidente, è una componente decisiva della nostra esperienza, una condizione essenziale del nostro conoscere e del nostro agire, anche se non si identifica con essi, anzi proprio perché non si identifica immediatamente con essi. […] L’autonomia dell’arte mira a distinguere e a separare i campi di esperienza non perché ritenga che l’esperienza estetica non agisca in altri ambiti oltre in quello in cui dà vita a prodotti anche materialmente distinti, ma perché solo riconoscendola come tale [autonoma] può assegnare all’esteticità una funzione non surrogabile, anche laddove essa entra a comporre esperienze diverse; l’estetismo, che apparentemente vorrebbe assegnarle [all’arte] la funzione suprema, in realtà non gliene assegna nessuna, e perciò è così pronto a vederla dappertutto. […] (L’esteta) vuole piuttosto far debordare l’esperienza estetica in quella morale, politica, pratica, conoscitiva. Vuole togliere i limiti, non ribadirli; confondere i piani, non tenerli distinti.Vuole giudicare le altre esperienze come fossero esperienze estetiche, la politica come un’opera d’arte, non come politica, la vita come un fatto estetico, non come un problema pratico. E’, per molti versi, il più acerrimo nemico della'autonomia.[24]           

Trotsky tuttavia sapeva di cosa parlava e non confondeva i due termini fra loro.
Come è rappresentata ora da Shklovsky, da Zhitmunsky, da Jakobson e altri, essa [la scuola formalista russa] è estremamente arrogante e immatura. Dichiarata la forma l’essenza della poesia, questa scuola riduce i suoi compiti a un’analisi (essenzialmente descrittitiva e semistatistica) dell’etimologia e della sintassi dei poemi, a un conteggio delle vocali e delle consonanti che si ripetono, delle sillabe e degli epiteti. Questa analisi che i formaliti considerano l’essenza della poesia, o poetica, è indubbiamente necessaria e utile, ma si deve comprenderne il carattere parziale, frammentario, sussidiario e preparatorio. Come è utile per un poeta o uno scrittore fare a proprio uso e consumo delle liste di sinonimi e aumentarne il loro numero per estendere la tastiera delle sue parole, così è utile e addirittura necessario per un poeta valutare una parola non solo per il suo intimo significato ma anche per la sua acustica, perché una parola si trasmette prima di tutto tramite l’acustica. I metodi del formalismo, mantenuti entro i limiti legittimi, possono aiutare a chiarire le peculiarità artistiche e psicologiche della forma (la sua economia, il suo movimento, i suoi contrasti, il suo iperbolismo, ecc.). Ciò può, a sua volta, aprire una via – una delle tante – a una comprensione artistica del mondo e può facilitare la scoperta delle relazioni di un singolo artista o di una intera scuola artistica con l’ambiente sociale che lo circonda. Nella misura in cui abbiamo a che fare con una scuola contemporanea e viva ancora in fase di sviluppo, ha un significato immediato nel nostro periodo transitorio esperimentarlo con i mezzi dell’analisi sociale e chiarirne le radici di classe in modo che non solo il lettore, ma la scuola stessa possa orientarsi, cioè conoscersi, purificarsi, controllarsi. Ma i formalisti non si accontentano di attribuire ai loro metodi un significato puramente sussidiario, sul piano della tecnica e dell’utilità – analogamente al  significato che la statistica ha per le scienze sociali o il microscopio per la biologia. No, essi vanno assai più il là.[25]  

Trotsky certamente aveva le sue buone ragioni per bacchettare la tendenza formalistica, specialmente sulla base di enunciazioni che si spingevano più in là del proprio specifico terreno, ossia al di là delle analisi sistematiche delle forme di espressione; pretendere di più fin dall’apparire del “formalismo” era troppo, pretendere di meno troppo poco. Noi oggi, dopo oltre un secolo, quelle ragioni non l’abbiamo più.
«I metodi dell’analisi formale sono necessari, ma insufficienti» [26], confermava Trotsky nel medesimo scritto.
Allora noi possiamo rivendicare brutalmente solo i risultati acquisiti da quelle necessità storiche e tenere in nessun conto quanto magari il formalismo ha dovuto dire di se stesso per sgombrare il terreno dell’arte dalle eteronomie morali, etiche, politiche, eccetera, che impedivano da troppo tempo alla filosofia (critica) dell’estetica e dell’arte di vedere e studiare l’oggetto delle sue proprie analisi e prendere l’analisi come oggetto d’analisi.
Il resto della frase che completa il giudizio di Trotsky, ossia che lo “sforzo di rendere l’arte indipendente dalla vita, di dichiararla una forza autosufficente” che “devitalizza e uccide l’arte” [27], addebbitato ai formalisti russi, ci sembra appartenere più all’estetismo che al “formalismo”, il quale, raggiunta nel tempo la sua maturità teorica, ha precisato sempre meglio la specificità delle sue ricerche e offerto contributi importanti per lo sviluppo degli studi scientifici dei fenomeni artistici.

Qualcuno che con noi prepara questi appunti, non ritiene conveniente inserire dei commenti giustificativi del nostro lavoro mostrandone i limiti. Tuttavia ci rendiamo conto di sottoporre la vostra attenzione ad una prova tormentosa, continuando ad affastellare argomenti e temi che magari dovrebbero proporsi ordinatamente per venire sistematicamente svolti senza la concitazione con cui invece ve li riversiamo addosso. Sembra proprio però che questi argomenti e temi continuino a presentarsi così fluenti alle nostre coscienze per prendere voce solo così affastellati come da un’urgenza, e non riusciamo a venirne a capo se non scrivendone senz’altro, rassegnati a sperare che ci sarà poi qualcun altro in grado di mettere ordine a tutto questo guazzabuglio.[28]
Ed è pertanto che, a questo punto, assecondiamo l’impulso di “incollare” proprio qui di seguito una pagina che descrive il lavoro di uno studioso (solo indirettamente collegato al pensiero critico del formalismo russo), nella quale contiamo che anche voi possiate trovare quegli stessi nessi che noi vi abbiamo trovati collegati con il pensiero della nostra corrente, la quale fin da Marx si muove sul filo di un tempo potentemente teso nel futuro – ed è ovvio che su un tale filo Bachtin medesimo, quale singola persona, si scolora sotto la paletta del suo stesso pensiero…                
Proprio perché dotato di un pensiero autonomo, Bachtin è lungi da quel dogmatismo ingenuo e arrogante che crede che vi possa essere un unico metodo valido per studiare il fenomeno letterario, qualunque poi questo metodo sia.[29]
«.Si deve sottolineare – scrive Bachtin in un breve intervento del 1970 – che la letteratura è un fenomeno troppo complesso e multilaterale e che la scienza della letteratura è ancora troppo giovane perché si possa parlare di un solo metodo “salvatore”. Sono giustificati e persino assolutamente necessari vari punti di vista, purchè siano seri e scoprano qualcosa di nuovo nel fenomeno della letteratura ». Questo pluralismo non è eclettico, perché è intrinseco al modo stesso in cui Bachtin imposta la sua ricerca critico-teorica, ricerca che trova la sua caratteristica più generale in quella che si potrebbe chiamare la massima dilatazione dell’orizzonte spaziale e temporale. Bachtin, infatti, si pronuncia contro il sociologismo che vuole spiegare l’opera letteraria riducendola al suo ambiente storico immediato. Ai formalisti egli aveva obiettato che la letteratura, pur fornita di un suo essenziale momento specifico, è tuttavia parte della cultura e che soltanto una teoria generale della cultura e della sua storia può rendere ragione della letteratura nella sua specificità differenziale. Ma, contro la sociologia marxista-positivista, egli afferma «.non si deve chiudere il fenomeno letterario nell’epoca della sua creazione.». Questo studio (quello dell’opera nel suo tempo e luogo immediati) è necessario ma non sufficiente, anzi è necessario solo a patto di riconoscerne l’insufficienza, poiché  «.esso non può abbracciare tutta la pienezza del fenomeno studiato.» in quanto «.un’opera affonda le sue radici nel lontano passato.» ed è preparata dai secoli, mentre nell’epoca della sua creazione «.sono colti soltanto i frutti maturi di un lungo e complesso processo di maturazione.». Per cui se «.cercheremo di capire e di spiegare un’opera soltanto a partire dalle condizioni della sua epoca, cioè del tempo prossimo, non penetreremo mai nelle sue profondità semantiche. Il chiudersi in un’epoca non permette di capire neppure la vita futura dell’opera nei secoli successivi, e allora questa vita sembra un paradosso. Le opere spezzano i confini del loro tempo e vivono nei secoli, cioè nel tempo grande, e spesso (e le grandi opere sempre) di una vita più intensa e piena che nella loro età contemporanea.». Questo concetto di “tempo grande” (che in un certo senso si può associare alla “lunga durata” di Braudel) supera di colpo tutta la minisociologia che fa di un’opera letteraria il “rispecchiamento” di una situazione storica determinata. In polemica con questo ristretto orizzonte metodologico e intellettuale Bachtin dice che se così fosse, un’opera che “rispecchiava” la servitù della gleba e la lotta contro di essa, ad esempio, dovrebbe perdere significato quando la servitù della gleba cessa di essere una realtà storica. Ma ci sono opere (si pensi alle Anime morte) che invece acquistato una universalità proprio quando è scomparso il fenomeno storico specifico, al quale esse sembravano collegate e al quale le collegava la critica del tempo. Il fatto è che queste opere vivono nel “tempo grande”, cioè hanno un futuro perché si sono nutrite del passato. «.Tutto ciò che appartiene soltanto al presente, muore con esso.».[30] 

Parrebbe che infine, con il contributo indiretto di Bachtin, le posizioni arroganti, estremistiche e infantili dei “formalisti” (sempre meglio comunque di posizioni senili) si siano in qualche modo maturate per raggiungere o avvicinarsi a quelle posizioni auspicate da Trotsky; o quantomeno che si siano potute aprire ad un orizzonte (d’universo) più largo e complesso di quello inizialmente riservato esclusivamente alle competenze assodate della figuratività artistica.
Il paradosso di Bachtin per cui “il chiudersi in un’epoca non permette di capire neppure la vita futura dell’opera nei secoli successivi”, assieme al paradosso di Marx sul godimento dell’opera nei secoli successivi [31], ci sembra situare la forma e l’opera nel campo di forze che le connette a tutte le altre forme ed opere esistenti, nel flusso continuo di un tempo che dal passato punta verso la forma di produzione superiore di un futuro produrre... Ed è questa, ci sembra, una visione del divenire storico abbastanza simile a quella che conosce la nostra corrente (inoltre, come vedremo più avanti, rappresentata in diagrammi che ci sono familiari – ma anche quest’ultima osservazione, come tutto quanto andiamo dicendo, non va presa come una risposta e una soluzione, piuttosto come una domanda ancora da impostare nei nostri giusti termini [32]).

La forma, la merce e la parola nel XIX secolo

Prima che il prodotto del lavoro dell’uomo (e l’opera d’arte) potesse considerarsi come forma del tempo  (Kubler 1961) la forma doveva prender vita propria (es. Focillon 1934), crescere e trasformarsi sulla base delle sue stesse configurazioni fisiche, geometriche e matematiche (es. Thompson 1917) per condividere con l’uomo la medesima organicità che lo lega all’intero arco temporale della sua vita materiale di specie. E non è per caso che l’avvio di questo percorso di studio dell’arte è stato favorito a partire da problemi posti dal guscio (Semper 1849) e dall’ornamento (Riegl 1893) – come vedremo più avanti.
Diciamo così che, tolto di mezzo il pregiudizio antropico, ci si trova a contatto diretto con l’oggetto isolato, solo con le emergenze alle superfici (guscio) del proprio specifico contenuto; il quale agisce materialmente su tale limite (membrana, rivestimento) dando forma sensibile (visibile e tattile) ad una varietà di oggetti che stabiliscono rapporti solo con sé stessi e tramite attributi che gli sono propri (motivi geometrici,  decorazioni lineari, ecc.). Da questa primaria astrazione (riduzione) sembra essere praticamente partita – come vedremo – la linea “puro visibilista” o “formalista” dello studio e della critica dell’arte, che è andata, per così dire, precisando sempre più l’analisi descrittiva del fenomeno artistico in generale, della storia dell’arte, dell’estetica e della pratica o tecnica artistica.
Presentato in questo modo, sembra proprio che se l’ornamento o la decorazione potessero parlare ripeterebbero parole simili a quelle che Marx immagina in bocca alle merci: « Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio »[33]… e la serialità con cui si producono entrambe (merce e ornamento), oltre che contribuire a rendere plausibile l’accostamento ne stabilisce la storicità, collocando in qualche modo il formarsi del pensiero “puro visibilista” necessariamente nell’epoca della maturazione industriale e mercantile europea, che si accompagnava con lo sviluppo di tutte le scienze nel corso dell’intero Ottocento.
L’architetto sassone Semper, dopo aver partecipato all’Esposizione Universale di Londra del 1851 [34], commenta con queste parole la situazione in cui si trovava l’arte industriale:    

…la scienza non è solo l’educatrice del presente, ma condiziona anche le pratiche future. Ampliando ogni giorno l’ambito delle loro conquiste, le scienze naturali e le teorie consimili arricchiscono continuamente la pratica con la scoperta di nuovi materiali, e di sorprendenti forze naturali con nuovi procedimenti e strumenti tecnici, con nuovi utensili e macchine […] …come conseguenza delle invenzioni, l’industria e la speculazione, più attive che mai, svolgono funzione di mediazione tra conoscenze pratiche e consumo. I risultati più ardui e faticosi l’industria li raggiunge manipolando gli strumenti presi a prestito dalla scienza: il porfido più duro e il granito si spezzano come gesso, l’avorio viene ammorbidito e compresso in forme (procedimento tecnico del resto già noto ai tempi di Fidia, ma allora giustificato dal fatto che lo si usava per le gigantesche statue eburnee); il caucciù e la guttaperca subiscono un processo di vulcanizzazione per venire poi impiegati in ingannevoli imitazioni di incisioni su legno; metallo e pietra travalicano di molto i limiti naturali del materiale imitato. Il metallo non viene più fuso o battuto, bensì deposto con metodo galvano-statico grazie a forze naturali fino a poco tempo fa sconosciute. Al dagherrotipo segue la fotografia, e la prima è già bell’e dimenticata. Le macchine cuciono, lavorano a maglia, ricamano, intagliano, dipingono, penetrano in profondità nel terreno dell’arte, umiliando le umane capacità.[35]

Per non fraintendere il senso delle sue parole, è bene dire subito che Semper non è ostile nei confronti delle macchine e dei nuovi materiali; piuttosto si rammarica che l’accelerato ciclo di produzione dell’industria non concede tempo necessario per la conoscenza dei bisogni dei materiali e delle pratiche sociali del lavoro. Così, ad esempio, «...gli artisti ricercano e scoprono solo in relazione ai bisogni: un tempo il graduale processo della scienza procedeva mano nella mano con la padronanza della materia e con la coscienza delle sue applicazioni»[36]. E ancora, nel suo fondamentale testo Der Stil del 1860, dirà che la burocrazia e la ricerca del profitto dei padroni d'industria, le macchine e la schiavitù dei proletari hanno del tutto escluso l'operaio disegnatore dalle questioni dell'arte; e deplora che anche chi li sostituisce non sempre soddisfa quanto ci si sarebbe aspettati da loro per innalzare il livello produttivo e migliorare il gusto, attribuendone il motivo soprattutto alla diffusa convinzione tra i disegnatori (progettisti, diremo oggi) dell’inutilità di essere guidati, nelle loro creazioni originali, da una precisa conoscenza delle proprietà delle materie prime e delle procedure meccaniche utilizzate nei diversi rami dell'industria moderna.
Nel capitolo sulle macchine e grande industria del Capitale Marx scrive che « la rivoluzione del modo di produzione in una sfera dell’industria porta con sé la rivoluzione del modo di produzione nelle altre sfere.».
« Gli sviluppi delle scienze sociali furono rivoluzionari allo steso modo della chimica: furono cioè la conseguenza pratica di progressi che in teoria erano stati già compiuti », dice Hobsbawm parlando del periodo compreso tra le due rivoluzioni borghesi [37]; ed aggiunge che una realizzazione completamente nuova e originale « fu la scoperta della “storia” come processo di evoluzione logica, e non come pura e semplice successione cronologica di avvenimenti », e che – ed è questo che a noi qui interessa soprattutto mettere in evidenza – «.L’introduzione della storia fra le scienze sociali produsse i suoi effetti … soprattutto in una scienza completamente nuova, la filologia… Lo stimolo apparente che diede impulso alla filologia fu la conquista delle società extra-europee da parte dell’Europa… Ma in realtà la filologia non si limitava a scoprire, a descrivere e classificare … essa divenne la seconda scienza sociale propriamente detta, cioè la seconda che scoprì l’esistenza di leggi generali applicabili a un campo apparentemente instabile qual è quello delle relazioni umane (la prima fu l’economia politica). Ma a differenza delle leggi dell’economia politica, quelle della filologia erano fondamentalmente storiche, o meglio evoluzionistiche »[38].
E su queste leggi della filologia l’Autore fa un rapido riepilogo, molto comodo per noi:

Il loro fondamento fu la scoperta della correlazione esistente tra le diverse lingue di un vasto gruppo, quello indo-europeo, integrata dalla constatazione evidente che tutte le lingue scritte esistenti in Europa si erano palesemente trasformate nel sorso dei secoli e presumibilmente continuavano a subir mutamenti. Il problema non era soltanto quello di dimostrare e classificare queste relazioni mediante studi comparati, con un metodo cioè che allora veniva ampiamente applicato nei campi più disparati (per esempio da Cuvier nell’anatomia comparata). Si trattava anche, e soprattutto, di spiegare la loro evoluzione storica partendo da quella che doveva essere stata una lingua originaria comune. La filologia fu la prima scienza che considerò l’evoluzione come il perno fondamentale della sua stessa esistenza. […] …la filologia era avvantaggiata anche perché, sola fra tutte le scienze sociali, non si occupava direttamente degli esseri umani, resi diffidenti dal timore latente che le loro azioni siano determinate da qualcosa di ben diverso dalla loro libera volontà, ma di parole, che non hanno preconcetti di sorta. Conseguentemente essa potè affrontare liberamente quello che è tuttora il problema fondamentale delle scienze storiche, il problema cioè di derivare l’immensa e spesso apparente capricciosa varietà di individui della vita reale, operando su leggi generali e immutabili. […] [Ad i primi filologi (es. Franz Bopp, 1791-1867, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm,1785-1863, ecc.)] si debbono un certo numero di generalizzazioni induttive sui valori relativi delle trasformazioni di diversi elementi linguistici e alcune generalizzazioni storiche di vastissima portata, quale la “legge dei Grimm” (che dimostrava come in tutte le lingue germaniche si fossero manifestati certi spostamenti di consonanti, e come, parecchi secoli più tardi, analoghi spostamenti si fossero manifestati in un certo gruppo di dialetti germanici). Ma già al tempo di quelle primissime esplorazioni, essi non dubitarono mai che lo studio dell’evoluzione delle lingue non consistesse unicamente nello stabilire una sequenza cronologica o nell’annotare le variazioni avvenute, ma che dovesse invece spiegare questa evoluzione mediante leggi linguistiche analoghe a quelle scientifiche.[39]   

Ed è poi nei primi decenni del Novecento che anche gli studi scientifici della letteratura avranno una loro specifica forma grazie alla teoria della relatività ristretta che, traslata nel formalismo dello spazio-tempo di Minkowski, assume una forma particolarmente maneggevole, concisa ed elegante che, diciamo così, troviamo trasposta per la prima volta negli studi di letteratura da Michail Bachtin tra il 1937 e il ’38 [40].

Il processo, attraverso il quale la letteratura si è impadronita del tempo e dello spazio storici reali e dell’uomo storico reale che in essi si manifesta, ha avuto un decorso complicato e discontinuo. La letteratura si è impadronita dei singoli aspetti del tempo e dello spazio, accessibili in una determinata fase storica dello sviluppo dell’umanità, e ha formato nella sfera dei generi i corrispondenti metodi di riflessione ed elaborazione artistica degli aspetti di realtà padroneggiati. Chiameremo cronotopo (il che significa letteralmente “tempospazio”) l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente. Questo termine è usato nelle scienze matematiche ed è stato introdotto e fondato sul terreno della relatività (Einstein). A noi non interessa il significato speciale che esso ha nella teoria della relatività e lo trasferiamo nella teoria della letteratura quasi come una metafora (quasi, ma non del tutto); a noi interessa che in questo termine sia espressa l’inscindibilità dello spazio e del tempo (il tempo come quarta dimensione dello spazio). Il cronotopo è da noi inteso come una categoria che riguarda la forma e il contenuto della letteratura (non ci occupiamo qui del cronotopo nelle altre sfere di cultura).

In una nota qui Bacthin ci fa sapere che nell’estate del 1925 assistette ad una relazione sul cronotopo nella biologia tenuta dal fisiologo russo Alexei Alexeyevich Ukhtomsky, che nella relazione toccò anche problemi di estetica; quindi prosegue:

Nel cronotopo letterario ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. Il tempo qui si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia. I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo à senso e misura. Questo intersecarsi di piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo artistico. Il cronotopo nella letteratura ha un essenziale significato di genere. Si può dire senza ambagi che il genere letterario e le sue varietà sono determinati proprio dal cronotopo, con la precisazione che il principio guida del cronotopo letterario è il tempo. Il cronotopo come categoria della forma e del contenuto determina (in notevole misura) anche l’immagine dell’uomo nella letteratura, la quale è sempre essenzialmente cronotopica.[41] 

Ci limitiamo qui ad appuntarci che nello stesso periodo (1937-38) in cui Bahctin unifica tempo e spazio letterari nel modello fisico del cronotopo di Minkovskji, Blaga da parte sua aveva già in qualche modo unificato il tempo e lo spazio (coscienti e incoscienti) nella nozione culturale della matrice stilistica poietica [creatrice], per la quale, nell’orizzonte (dell’universo) subcosciente, il tempo prende forme che dipenderebbero, “in ultima analisi, dall’accento che il subcosciente stesso poggia sull’una o l’altra delle dimensioni del tempo. Secondo che l’accento cade sul presente, sul passato o sul futuro, s’immaginano orizzonti temporali di profilo differente”[42], dei quali i principali sono da lui denominati metaforicamente come il tempo-zampillo, il tempo-cascata e il tempo-fiume, quando l’accento cade rispettivamente sul futuro, sul passato e sul presente.
Trentacinque anni dopo, nel 1973, Bachtin riprenderà il proprio testo per aggiungere, ai nove paragrafi che lo costituivano originariamente, un decimo paragrafo di Osservazioni conclusive, del quale vi proponiamo il brano iniziale solo per cercare di aggiungere polpa e concretezza alla nozione artistica del cronotopo.  

Il cronotopo determina l’unità artistica dell’opera letteraria nel suo rapporto con la realtà. Perciò esso comprende sempre un momento valutativo, che può essere separato dall’intero cronotopo artistico soltanto in un’analisi astratta. Nell’arte e nella letteratura tutte queste determinazioni spazio temporali sono inseparabili l’una dall’altra e hanno sempre una coloritura valutativo-emozionale. Il pensiero astratto può, naturalmente, pensare il tempo e lo spazio nella loro separatezza e prescindere dal loro momento valutativo-emozionale. Ma la viva intuizione artistica (che, s’intende, è piena di pensiero, ma non di pensiero astratto) nulla divide e da nulla prescinde. Essa coglie il cronotopo in tutta la sua integralità e pienezza. L’arte e la letteratura sono impregnate di valori cronotopici di vario grado e estensione. Ogni motivo, ogni momento individuale dell’opera d’arte è un valore di questo tipo.[43] 

Se finora abbiamo compreso qualcosa di tutto ciò, crediamo di poter dire che se Fiedler col suo “purovisibilismo” non ha neppure sospettato l’esistenza delle categorie abissali [44] e l’azione del contenuto sensorio nell’opera, nemmeno Bachtin (o il “formalismo”?) ci sembra averle tenute in particolare considerazione [45] – anche se possiamo ipotizzare di averle soltanto trascurate mescolandole con tutti gli altri ingredienti presenti nel doppio vortice conico del tempo e nella linea di orizzonte del cronotopo… (D’altronde, quando noi ripetiamo che l’insieme è più della semplice somma delle parti, diciamo, con questa semplice frase, qualcosa di più di quanto essa si limita a formulare; e particolarmente diciamo, quanto meno, di non conoscere tutte le parti e i dati che costituiscono l’insieme… e magari che neppure siamo certi se proprio alla semplice somma e non ad altra diversa operazione complessa dovremmo piuttosto ricorrere).
“Ogni romanzo è uguale davanti allo spazio-tempo”, sembra dire Batchin... “Ogni cittadino è uguale davanti alla legge”, aveva proclamato il diritto giuridico borghese; “Ogni cosa è uguale davanti al denaro” dice l’etica del mercato; “Ogni oggetto è uguale davanti alla luce”, concludeva Apollinaire per la pittura cubista... (e viaggia alla stessa velocità della luce prima di colpire l’occhio e fermarsi)… E forse dovremmo aggiungere anche il concetto per il quale “il mezzo è il messaggio”, ovvero che “ogni mezzo è uguale davanti al messaggio”?
Sono tutte sineddoche utili a dire il vero senza mai darlo completamente. E magari per questa via si arriva pure a trasformare il mezzo non solo in messaggio ma addirittura in progetto.
«La più accurata descrizione del ruolo del DNA vede in esso il portatore dell’informazione che viene letta dal meccanismo della cellula nel processo produttivo. Insensibilmente da portatore di informazione il DNA viene poi di colpo trasformato in DNA come progetto, come piano, come disegno di costruzione, come molecola maestra. … Ci sono anche delle inclinazioni ideologiche che si fanno sentire qui… E'’ il trasferimento nell’ambito della biologia della credenza nella superiorità del lavoro mentale su quello puramente fisico, del pianificatore e disegnatore sull’operaio generico della catena di montaggio », avverte il genetista Richard Lewontin a pagina 113 del citato Sogno del genoma umano.
Quasi inavvertitamente anche noi continuiamo ad oltrepassare ogni argomento in cui ci imbattiamo, ma non andremo oltre nella trattazione di Bachtin dell’evento letterario. D’altronde, in verità, al momento ci interessava soltanto ciò che il testo di Bachtin annuciava già dal titolo, ossia “le forme del tempo” e il “cronotopo” nel romanzo (forse meglio “le forme del tempo o il cronotopo” nel romanzo), e non tanto per il suo significato raffigurativo [46] quanto per la possibile figurabilità formale (sensibile, oculare, geometrica) stessa di questo significato.
Scrive il matematico Penrose: «La rappresentazione dello spazio-tempo è stata introdotta da Hermann Minkowski, un bravissimo e originale matematico. Per caso, fu anche uno degli insegnanti di Einstein al politecnico di Zurigo, negli ultimi anni del 1800. In effetti, la stessa idea di spaziotempo è dovuta a Minkowski che scrisse nel 1908, “d’ora in avanti lo spazio in sé, e anche il tempo in sé, sono destinati a svanire come pure ombre, e soltanto uno loro specie di unione preserverà una realtà indipendente”. A mio parere – commenta Penrose –, la teoria della relatività speciale non era ancora completa, nonostante le meravigliose intuizioni fisiche di Einstein e i profondi contributi di Lorentz e Poincaré, finché Minkowski non fornì il suo fondamentale e rivoluzionario punto di vista: lo spaziotempo »[47].
Da parte nostra ci sarebbe subito da notare come, curiosamente, la “completezza” di una teoria fisica abbia atteso, per essere raggiunta, dalla sua figurabilità sensibile, oculare.
E’ la vecchia storia: in principio si trascura sempre la forma a favore del contenuto –  direbbe di nuovo Engels.  Allora noi stavolta, questa forma trascurata vogliamo proprio mostrarla brutalmente .

Il cono luce specifica la fondamentale velocità della luce. Storie di fotoni per un punto dello spaziotempo (evento) p. (a) In termini puramente spaziali, il cono di luce (futuro) è una sfera che si espande verso l’esterno a partire da p (fronti d’onda). (b) Nello spaziotempo, le storie di fotoni che incontrano p spazzano il cono di luce in p. (c) Poiché più avanti dovremo prendere in esame spazi-tempo curvi, è meglio pensare il cono – spesso chiamato cono nullo in p – come una struttura locale nello spaziotempo, vale a dire nello spazio tangente Tp in p.

Spiega Penrose: «Si noti che il cono di luce … ha due parti, il cono passato e il cono futuro. Possiamo pensare che il cono passato rappresenti la storia di un lampo di luce che implode in p, cosicché tutta la luce converge simultaneamente nel singolo evento p; il cono futuro, in modo equivalente, rappresenta la storia di un lampo di luce di un’esplosione che ha luogo nell’evento p.».
Si noti pure – aggiungiamo noi – come questo modello dello spazio-tempo ha medesima forma e contenuto dell’antica clessidra, spesso utilizzata come simbolo iconografico del fluire del tempo. 

Noi non osiamo suggerire le possibili analogie tra i caratteri del modello fisico del cono di luce di Minkowski e il cronotopo letterario di Bachtin. Non siamo competenti quasi in nulla, e certamente non in matematica, né in scienze fisiche o letterarie, e quindi diamo ai nostri commenti una validità contingente, mentre affidiamo la sostanza della comunicazione principalmente alle informazioni relative alle fonti originali cui fanno riferimento gli argomenti di volta in volta evocati. Possiamo però al momento aiutare la vostra immaginazione a stabilire delle possibili conformità tra la forma di Minkowski e il contenuto di Bachtin alla luce di qualche enunciazione avanzata da quest’ultimo – osando appena suggerire che l’evento fisico p potrebbe intendersi anche come un’opera (di letteratura, di musica o di pittura) o anche un evento specifico, della narrazione o nel piano pittorico. 

In che consiste il significato dei cronotopi da noi esaminati?
Prima di tutto, è evidente il loro significato d’intreccio.
Essi sono centri organizzativi dei principali eventi d’intreccio del romanzo.Nel cronotopo si allacciano e si sciolgono i nodi dell’intreccio. Si può dire esplicitamente che ad essi spetta il significato principale nella formazione dell’intreccio. Inoltre balza agli occhi il significato raffigurativo del cronotopo.
Il tempo acquista in essi un carattere sensibilmente concreto: nel cronotopo gli eventi di intreccio si concretizzano, si rivestono di carne, si riempiono di sangue.
Un evento si può comunicare e, nel corso dell’informazione, si possono dare indicazioni esatte circa il luogo e il tempo del suo compimento. Ma l’evento non diventa un’immagine. Il cronotopo invece fornisce il terreno essenziale per la raffigurazione degli eventi. E questo proprio grazie alla particolare condensazione e concentrazione dei connotati del tempo – del tempo della vita umana e del tempo storico – in determinati parti di spazio.
E’ questo che crea la possibilità di raffigurare gli eventi nel cronotopo (intorno al cronotopo). Esso serve da punto principale per il dispiegamento delle “scene” nel romanzo, mentre gli altri eventi “connettivi”, che si trovano lontano dal cronotopo, sono dati in forma di arida informazione e comunicazione. […]
Il cronotopo, dunque, come materializzazione principale del tempo nello spazio è il centro della concretizzazione e dell’incarnazione raffigurativa di tutto il romanzo. Tutti gli elementi astratti del romanzo – generalizzazioni filosofiche e sociali, idee, analisi delle cause e degli effetti, ecc. – gravitano attorno al cronotopo e, per il suo tramite, prendono carne e sangue, partecipano cioè alla figuratività artistica. Tale è il significato raffigurativo del cronotopo.[48]

Si tratta indubbiamente di un punto di vista molto complesso che si è concretato nella forma esplicativa di un modello geometrico, che tuttavia rimane celato alla scrittura, senza mai presentarsi alla coscienza e alla volontà – “inabissato” (direbbe Blaga) nel “contenuto sensorio” (direbbe Leontjev[49]) – per preservare anche alle forme dell’arte quanto la natura ripone in tutte le sue altre infinite forme: le condizioni per la loro perenne mutazione
Come per la fisica, anche per la letteratura dobbiamo notare che la “completezza” di una particolare teoria letteraria abbia dovuto attendere di essere raggiunta dalla sua figurabilità sensibile, oculare?

Spostandoci dalle forme dell’arte a quelle della vita sociale, già da secoli circolava tra gli uomini una comunissima forma cronotopica: il denaro, ovvero un mezzo di scambio e circolazione dei valori d’uso, che però soltanto nella sua fase morfologicamente più sviluppata (il capitale), nell’epoca della rivoluzione industriale e con la nascita del partito comunista, si rende manifesta come forma fenomenica tascabile del tempo (generale di lavoro) nella linea d’universo delle merci…

Ognuno sa, anche se non sa nient’altro, che le merci posseggono una forma di valore, che contrasta in maniera spiccatissima con le variopinte forme naturali dei loro valori d’uso, e comune a tutte: la forma di denaro. Ma qui si tratta di compiere un’impresa che non è neppure stata tentata dall’economia borghese: cioè di dimostrare la genesi di questa forma di denaro, dunque di perseguire lo svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci, dalla sua figura più semplice e inappariscente, fino all’abbagliante forma di denaro. Con ciò scomparirà anche l’enigma di denaro. Il rapporto di valore più semplice è evidentemente il rapporto di valore d’una merce con un’unica merce di genere differente, qualunque essa sia. Il rapporto di valore fra due merci ci fornisce dunque la più semplice espressione di valore per una merce… L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di essa…[50]
Le merci esistenti come valori d’uso si procurano prima di tutto la forma sotto cui apparire l’una all’altra idealmente come valori di scambio, come quantità determinata dal tempo di lavoro generale oggettivato. […] Il valore di scambio della merce esiste come materializzazione dello stesso, uniforme tempo di lavoro; la grandezza di valore della merce è rappresentata in modo esaustivo, in quanto il rapporto secondo cui le merci sono equiparate all’oro, le equipara anche l’una all’altra. Nell’equivalente aureo si manifesta da un lato il carattere generale del tempo di lavoro contenuto nelle merci, dall’altro la sua quantità. Il valore di scambio delle merci espresso come equivalenza generale e contemporaneamente come grado di questa equivalenza in una merce specifica, ovvero in un’unica equazione delle merci con una merce specifica, è il prezzo. Il prezzo è la forma mutata in cui il valore di scambio delle merci appare nel processo di circolazione. [51]

– “L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di questa forma semplice …” – dice Marx.
– “In principio si trascura sempre la forma sensibile a favore del contenuto – si rammarica Engels.
La primissima vera e propria difficoltà sta dunque nel rendere visibile la semplice forma con la quale appaiono i valori prima di intraprenderne l’analisi”.
Come per Leontjev il libro fa valere la sua forma quando si squaderna o strappa, e solo allora si rende manifesto alla coscienza il contenuto sensorio, concreto, materiale di cui è fatto il romanzo, così la critica dell’economia politica si fa valere ogni volta che le crisi economiche e sociali mostrano il contenuto sensorio di cui realiter son fatte le forme del modo di produzione capitalistico e dello stato delle cose attuali… E questo lo dimostrano le oramai innumerevoli capitolazioni del pensiero borghese davanti al comunismo.

(La ricognizione continua nel prossimo almanacco).

Vogliamo ricordare che la pubblicazione di questi appunti era prevista per i primi mesi del 2021 e che da allora essi non hanno subìto modifiche. A distanza di due anni ci teniamo invece ad aggiungere soltanto quanto profilato da una nostra compagna in un più recente scambio di messaggi riguardanti la meccanica quantistica in particolare e la posizione della nostra corrente rispetto all’attuale pensiero scientifico.
L’argomento della scienza e dei suoi limiti nella crisi dell’attuale modo di produzione non può che presentarsi doppiamente. Da un lato, perché non abbiamo la capacità (né secondo me la priorità come compito di partito) di scegliere e sviluppare una delle interpretazioni della scienza quantistica contro l’altra, né tanto meno di spiegare i problemi posti dal comportamento del mondo subatomico… Da materialisti, comprendiamo che la conoscenza non è un elemento indipendente dal modo in cui produciamo e riproduciamo la nostra esistenza sociale. Comprendiamo anche che, sebbene questo sapere sia il prodotto del modo di produzione capitalistico, non diventa per questo qualcosa di congiunturale che scomparirà con il sistema che lo ha creato. Invece fa parte del patrimonio storico della nostra specie, che lo integrerà per superarlo attraverso un nuovo paradigma di conoscenza”.

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1] . K. Marx, Arte e lavoro creativo, scritti di estetica a cura di Giuseppe Prestipino, ed. Newton Compton, Roma 1976, pag. 148 seg.. Riproposta qui in Chiedi alla voce, a pag. 32. 

[2] . Ibidem, in Appendice II, schede che corredano i testi scelti di riferimenti e indicazioni riassuntive, a cura di Biagio Muscatello, pag. 254.

[3] . Ugo Volli, La scienza e l’arte, Nuove metodologie di ricerca scientifica sui fenomeni artistici, con i contributi di Birgid Rauen, Kurt Alsleben, Umberto Eco, Ernesto Garcia Camarero, Xavier Rubert de Ventos, ed. Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1972.

[4] . Ibidem, Birgid Rauen, pag. 18: “Quali sono dunque tali presupposti che stanno alla base delle indagini intraprese a partire circa dalla metà del secolo del 1800 e che consistevano nell’applicare concetti e metodi propri alle scienze esatte all’ambito della creazione artistica o, più in generale, del bello?... Sarà mio intento nelle pagine che seguono di mettere in luce i fattori comuni ai presupposti di Helmholtz, Fechner, Lipps e Birkhoff (per nominare i maggiori rappresentanti d’un’estetica scientifica del passato), per quanto diversi possano essere i metodi di cui i singoli studiosi si avvalgono e le conclusioni a cui giungono…”.
– Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821–1894) è stato un medico, fisiologo e fisico tedesco. Inventore dell’oftalmoscopio e dell’oftalmometro, scopritore di numerose leggi e particolarità del sistema neurofisiologico umano, diede contributi importanti anche alla fisica con i suoi studi sul principio di conservazione dell’energia e sulla termodinamica. Le sue indagini sulla fisiologia e psicologia della percezione visiva e quella uditiva lo condussero a questioni di natura estetica e gnoseologica. La sua  concezione sulle caratteristiche e lo svilupparsi dell’intuizione dello spazio accesero un violento dibattito tra i seguaci ortodossi di Kant e gli studiosi di fisiologia e matematica. Questa sua concezione (espressa nel famoso saggio del 1878 Die Thatsachen in der Wahrnehmung) assume infatti una posizione critica nei confronti di Kant intendendo dimostrare che gli assiomi della geometria euclidea non costituiscono l’unica intuizione necessaria a priori dello spazio, ma soltanto una tra le altre intuizioni possibili.
– Gustav Theodor Fechner (1801–1887) fu medico, fisiologo e fisico come Helmholltz, e come questi si occupò di numerosi altri problemi che esulavano dall’ambito di tali scienze. Egli è ritenuto il fondatore della fisiologia sperimentale dei sensi e dell’estetica psicologica. Nel 1860 ritenne di aver individuato un'equazione in grado di quantificare esattamente il rapporto tra stimolo fisico e sensazione (rapporto tra anima e materia), detta "formula di Fechner".
– Theodor Lipps (1851–1914), professore di filosofia e psicologia a Monaco, sostenitore di una psicologia intesa come analisi introspettiva delle forme nello spazio, si occupò soprattutto di psicologia estetica e empatia. Tra le sue opere fondamentali sono annoverate Grundtatsachen des Seelenlebens ("Fatti fondamentali della vita psichica", 1883) e Raumästhetik und geometrisch-optische Täuschungen ("Estetica spaziale e illusioni geometrico-ottiche", 1897).
– George David Birkhoff (1884–1944) è stato un matematico statunitense, professore alle università di Wisconsin, Princeton e Harvard, noto soprattutto per quello che oggi viene chiamato teorema ergodico (gran parte del lavoro chiamato oggi “teoria del caos” fu inizialmente prodotto da matematici e pubblicato con il nome di "teoria ergodica", poiché il termine "teoria del caos" fu introdotto solo alla metà del ventesimo secolo). Egli è noto anche per i suoi tentativi d’applicare la matematica non solo all’estetica ma anche all’etica. 

[5] . Volli, cit., introduzione pp. 9-11 (il contributo di Ugo Volli, E’ possibile una semiotica dell’arte, è da pag. 87 seg.).

[6] . Per farsene convinti sarebbe sufficiente, ad esempio, sfogliare  il catalogo della grande mostra retrospettiva del 1966 di uno solo dei più noti protagonisti della pittura del XX secolo, Pablo Picasso, e vedere che (benchè dichiarasse testualmente di non aver mai fatto aggressioni ed esperimenti) l’intero suo pluridecennale lavoro sembra sia consistito principalmente nel sottoporre a sempre nuove (e spesso estreme) condizioni esecutive le figure e le forme dell’intero repertorio storico dell’arte (non solo occidentale), come per una incessante verifica di “tenuta” di ogni singola opera pur sempre all’interno dello storico e generale sistema produttivo della pittura, il quale viene a delinearsi cognitivamente solo più recentemente e grazie appunto alla molteplicità dei dati sperimentali forniti di volta in volta, dalla produzione artistica contemporanea, al pensiero estetico ed artistico...

[7] . Volli, cit., introduzione p. 10.

[8] . Kuhn, La tensione essenziale, cit., pag. 387.

[9] . Cfr. Marx, Lineamenti…, cit. vol. 2, pag. 403.

[10] . Cioè sulla scorta di quanto riportato in questi nostri appunti del pensiero dello psicologo russo A. N. Leontjev (vedi qui pag. 30 e seg.), ossia sul filo degli studi della corrente psicologica storico-culturale, fondata in Russia alla fine degli anni venti del secolo scorso da Lev Semyonovic Vygotskij e sviluppata in seguito in tutto il mondo.

[11] . Blaga sta utilizzando un paragone religioso che vede distinti il protestantesimo da l’ortodossia, bizantina e cattolica.

[12] . Blaga, Orizzonte e stile (1936), cit., pp. 208, 209, 210 (corsivi e parentesi quadre nostre).  

[13] . Andrea Pinotti, Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl, Wölfflin, (1998), ed. Mimesis, Milano 2001, pp. 126-128.

[14] . Blaga, cit., p. 71 seg. – « A noi l’idea di un incosciente psichico sembra un bene guadagnato, per lo meno nel senso di un postulato teorico. Ci sarà, naturalmente, d’ora innanzi, da chiarire meglio, con passi cauti e di tappa in tappa, la struttura dell’inconscio. Attribuendogli contenuti non diversi da quelli della coscienza, si commette probabilmente un errore, che noi non siamo disposti a convalidare; un errore analogo all’antropomorfismo in religione. Nell’esame della struttura dell’inconscio si è proceduto, finora, indubbiamente per analogia con la coscienza. Ammettiamo, per esempio, che l’inconscio pensi. La domanda immediata è questa: pensa l’inconscio allo stesso modo del soggetto cosciente, o secondo norme del tutto diverse?... La psiche – quanto a orizzonti, attitudini, iniziative, forse anche a memoria, pensiero, immaginazione – è ben altrimenti costruita nella regione dell’inconscio che nella regione del cosciente ».   

[15] . Blaga, cit., p.29  seg. – «… non esiste un vuoto stilistico… […] Solo molto tardi l’uomo ha scoperto di vivere costantemente entro coordinate stilistiche… […] Lo stile è come un giogo supremo sotto il quale viviamo, ma che soltanto raramente sentiamo come tale. Chi si accorge del peso dell’atmosfera o del movimento della terra? I fenomeni più schiaccianti ci sfuggono, sono inafferrabili, poiché vi siamo integrati. Così è anche dello stile. E non desti meraviglia il ricorso a tali grossi termini di paragone. Presto ci convinceremo, nel corso delle nostre ricerche, che lo stile è effettivamente una forza che ci sorpassa, ci avvince, ci penetra e ci soggioga. Di solito notiamo prima lo stile altrui, così come avvertiamo il movimento astronomico degli altri pianeti prima di quello del pianeta nel cui spazio e movimento siamo noi stessi implicati. Per mettere in luce e rilevare un’unità stilistica è necessario anzitutto uscire dalle sue coordinate, allontanarsene. Il distanziamento dal fenomeno è condizione elementare per ottenere quel sistema di punti di riferimento che è indispensabile alla descrizione e alla classificazione del fenomeno.» –

[16] . Pinotti, cit., p. 128, N.d.A. – “Banfi ravvisò la regione di questa affinità nel momento conoscitivo: “L’arte come rivelazione del filosofo romeno si avvicina all’arte come conoscenza del reale  – in senso kantiano – di Fiedler” (Introduzione, cit. p. 21).

[17] . Roger Penrose, La strada che porta alla realtà (2004), it. Rizzoli 2011, p. 681).

[18] . J. W. Goethe, Viaggio in Italia, ed. negli Oscar Grandi Classici Mondadori, Milano 1999.

[19] . Dal catalogo della mostra Hommage a Pablo Picasso, Grand Palais e Petit Palais, Parigi novembre 1966 – febbraio 1967, ed. Ministère des Affaires Culturelle, Paris 1966.

[20] . Paolo d’Angelo, Estetismo, ed. il Mulino, Bologna 2003, pag. 82 segg..

[21] . Eric J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, cit., pag. 354: L’arte per l’arte era ancora un fenomeno minoritario perfino fra gli artiti romantici, una reazione all’ardente impegno politico e sociale dell’era delle rivoluzioni, resa più intensa dalle amare delusioni del 1848, il grande moto che aveva trascinato via con sé tanti spiriti creativi. L’estetismo non divenne una moda borghese prima dei tardi anni Settanta e Ottanta. Gli artisti creativi erano dei saggi, dei profeti, dei maestri, dei moralisti, delle fonti di verità. Sforzo era il prezzo pagato per ottenere il giusto compenso da una borghesia fin troppo disposta a credere che ogni cosa di valore (finanziaria o spirituale) esigesse, all’inizio, astensione dal piacere. Le arti erano integrate in questa tensione umana. Il fatto di coltivarle la coronava. 

[22] . Rispettivamente per Victor Hugo, Novalis e Hegel. Cfr. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., pgg. 356-57.

[23] . Cfr. qui al paragrafo [separazioni]

[24] . Paolo d’Angelo, Estetismo, cit.,  pag. 32 segg..

[25] . Trotsky, La scuola poetica formalista e il marxismo, 1923, da Letteratura arte libertà, cit., pag. 39.

[26] . Trotsky, La scuola poetica formalista e il marxismo, 1923; in Letteratura arte libertà, cit., pag. 51.

[27] . Ibidem. – D'altronde il formalismo stesso si dichiara debitore di una viva realtà dell’arte, come quella dei pittori e poeti futuristi, una realtà cioè preesistente ogni loro teorizzazione…      

[28] . Per mettervi ordine abbiamo provato ad affidare ad uno di noi il compito di mitigare questo flusso continuo dividendolo, per comodità di lettura, in paragrafi i cui titoli risentono tuttavia delle approssimazioni dovute ad un intervento adottato solo post factum

[29] . E’ questo un punto presente anche nella voce “Estetica” redatta da Marx.

[30] . Clara Strada Janovic, Introduzione a Michail Bachtin, Estetica e romanzo, 1975; it. ed. Einaudi, Torino 1979, pag. XII seg..(corsivi nostri).

[31] . “Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili.” - Karl Marx, dal Quaderno M dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, (Grundrisse der Kritik politischen Okonomie,1857-1858), in Lineamenti…, cit., p. 39-40.

[32] . Cfr. qui parte 5.2,

33] . Marx, Lineamenti, cit., pag. 5; e, “Ogni merce equivale alla oggettivazione di un determinato tempo di lavoro”, si legge a pag. 75.

[34] . Engels e Marx (che si era trasferito a Londra nel 1849) commentano che con tale esposizione la borghesia inglese aveva adunato per un importante esame tutti i suoi vassalli, dalla Francia fino alla Cina. Con questo “congresso mondiale di prodotti e produttori” in cui era posta in mostra, concentrata in un piccolo spazio “l’intera massa delle forze produttive dell’industria moderna”, gli organizzatori intendevano esibire la supremazia inglese nell’ambito dello sviluppo industriale. – Vedi, Marx-Engels. Neue Rheinische Zeitung-Politisch-Okonomische Revue. Rassegna (maggio-ottobre1850):
«...La prosperità industriale riceverà ulteriore impulso dalla recente apertura delle colonie olandesi, dall'imminente realizzazione di nuove linee di comunicazione nell'Oceano Pacifico, di cui parleremo in seguito, e dalla grande esposizione industriale del 1851. Questa esposizione fu annunciata, con il più impressionante sangue freddo, dalla borghesia inglese già nel 1849, proprio in un momento in cui l’intero continente ancora faceva sogni rivoluzionari. Per questa esposizione essa convoca tutti i suoi vassalli, dalla Francia alla Cina, per un grande esame in cui essi devono dimostrare come hanno utilizzato il loro tempo; e lo stesso onnipotente Zar di Russia non può esimersi dall’ordinare ai suoi sudditi di partecipare numerosi a questo grande esame. Questo grande congresso mondiale di prodotti e produttori ha ben altra importanza dei congressi assolutistici di Bregenz e Varsavia, che costarono tanta fatica ai nostri ottusi borghesucci democratici del continente, o da quelli democratici europei, continuamente progettati dai vari governi provvisori in partibus infidelium* per la salvezza del mondo. Questa esposizione è una chiara testimonianza della forza concentrata della grande industria moderna, che ovunque abbatte le barriere nazionali e cancella a poco a poco le caratteristiche locali della produzione, dei rapporti sociali e della natura di ogni singolo popolo. Nel momento in cui essa espone, concentrato in un spazio esiguo, l’insieme delle forze produttive dell’industria moderna, e proprio in un momento in cui la società borghese moderna viene minata da tutti i lati, essa espone anche il materiale che, pur in questi tempi turbolenti, si è prodotto e si produce giorno per giorno per la costruzione di una nuova società. Con quest’esposizione la borghesia mondiale innalza nella Roma moderna il suo Pantheon, in cui con compiaciuto orgoglio esibisce in mostra gli Dei che essa stessa si è creati per sé. Con ciò dà quindi una prova pratica del fatto che “l'impotenza e il disagio del cittadino”, che gli ideologi tedeschi vanno predicando da anni, sia in realtà solo l’impotente incapacità di questi gentiluomini a capire il movimento moderno, e la loro irritazione di fronte a questa stessa impotenza. La borghesia celebra la sua festa più grande nel momento in cui il collasso del suo ordine sociale in tutto il suo splendore è imminente; un crollo che dimostrerà, con evidenza mai vista, come le forze che ha creato siano sfuggite al suo controllo. In un’esposizione futura, forse la borghesia figurerà non più come proprietaria di queste forze produttive, ma solo come loro cicerone**.». [Nostri corsivi]
La traduzione eseguita con il traduttore automatico ci è parsa migliore di quella disponile in italiano, pertanto abbiamo preferito combinarla con le seguenti versioni tratte da: Karl Marx-Friedrich Engels Werke (MEW) I-XXXII, 1961-65 Dietz Berlin, VII, 1960, pp. 430-431, e Marx-Engels, Opere complete, Vol. X, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 511,12.] – [*Nelle terre dei non credenti - espressione favorita di Marx, presa dal titolo di vescovi cattolici nominati in territori non cristiani dove non potevano risiedere, e qui applicata agli impotenti governi in esilio formati dopo il sconfitta delle rivoluzioni del 1848, generalmente da parte dei profughi democratici. – **L'uso comune del termine cicerone, come guida turistica, nasce dal legare l'eloquenza dell'antico oratore romano Marco Tullio Cicerone e la parlantina delle improvvisate guide locali che accompagnavano i visitatori tra le meraviglie archeologiche di Roma.]

[35] . Gottfried Semper, > vedi qui la Prefazione a Theorie des Formell-Schönen, confrontata con i manoscritti del 1856-59 del Semper-Archiv. Sull'architetto sassone Gottfried Semper vedi altro in almanacco nømade n.17–2019 (Lettera dal carcere n.26, N.d.R. 1).

[36] . Lo storico dell’architettura Nikolaus Pevsner precisa che Semper negava che l’invenzione delle macchine potesse essere ritenuta responsabile della decadenza dell’arte industriale: “egli fa differenza fra l’uso indiscriminato e l’uso ragionevole della macchina: un atteggiamento giudizioso si dovrebbe contrapporre alla incondizionata condanna dell’industria meccanica lanciata da Ruskin e Morris. Ciò che il Semper depreca è il modo in cui la macchina può imitare qualsiasi cosa e fare apparire gli oggetti come se fossero quello che non sono”. Pevsner, Le accademie d’arte, 1940; it.  ed. Einaudi, Torino 1982, pag. 275 seg.

[37] . Eric John Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, ed. Il Saggiatore, Milano 1963, pag.390.

[38] . Hobsbawm, cit.,  pag.391 seg.. – Che l’economia politica non avesse ancora leggi storiche o evoluzionistiche non ci sorprende affatto: le scoverà e gliele darà a breve la critica dell’economia politica

[39] . Ibidem, pag. 292 seg. corsivi nostri. Trattando sempre la filologia, l’Autore segnala che essa si sviluppò inizialmente in Germania, e di passaggio nota che è una pura coincidenza il fatto che Marx fosse tedesco (come anche Engels, aggiungiamo).

[40] . Michail Bachtin, Formy vremeni i chronotopa u romane. Ocerki po istoriceskoj poetike , it. Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica, in Bachtin, Estetica e romanzo, ed. Einaudi, Torino 1979, pag 231 segg..

[41] . Ibidem. La nota posta qui dall’A. dice: «Nella sua Estetica trascendentale (una delle parti principali della Critica della ragion pura, Kant definisce lo spazio e il tempo come forme necessarie di ogni conoscenza, cominciando dalle percezioni e rappresentazioni elementari. Noi cogliamo la valutazione kantiana del significato di queste forme nel processo della conoscenza, ma, a differenza di Kant le intendiamo non come “trascendentali”, bensì come forme della realtà. Cercheremo di coprire la loro funzione nel processo della conoscenza (della visione) artistica concreta nell’ambito del genere romanzesco».

[42] . Blaga,  Orizzonte e stile 1936, cit., p.117 seg., e in generale il capito VI: Orizzonti temporali.

[43] . Bactim, cit., pag. 390.

[44] . In Orizzonte e stile, Blaga sottopone ad una critica severa la visione dell’inconscio nella teoria psicoanalitica freudiana (cfr. p. 62 seg.) e del pensiero di Ludwig Klages contro la teoria dell’inconscio (cfr. p.66 seg.). 

[45] . Si può qui dire di averlo tentato il Surrealismo in pittura. Con il suo ricorso alla psicoanalisi esso manipola tuttavia solo ciò che la coscienza è già pronta a diagnosticare, e difatti preferibilmente recupera alla pittura la figura umana e la mitopoiesi, il sonno e il sintomo.

[46] . Bachtin, cit., pag. 397.

[47] . Roger Penrose, La strada che porta alla realtà, 2004, it. ed. Rizzoli, Milano 2005 e 2011, pag. 444.

[48] . Bachtin, Estetica e romanzo, cit., dalle Osservazioni conclusive del 1973, pag. 397 seg.. Altre Osservazioni conclusive su Le forme del tempo…, pgg. 398, 399, 400: «.I cronotopi da noi esaminati hanno un carattere tipico dal punto di vista del genere letterario e si trovano alla base di determinate varietà del genere romanzesco che si è formato e sviluppato del corso dei secoli. […] Ma cronotopica è ogni immagine letteraria. Essenzialmente cronotopica è la lingua come tesoro di immagini. Cronotopica è la forma interna della parola, cioè il tratto mediatore grazie al quale gli originari significati spaziali sono trasferiti ai rapporti temporali (nel senso più ampio) […] Nell’ambito di un’opera e della creazione di un autore osserviamo un gran numero di cronotopi e, tra essi, complessi rapporti, specifici per una data opera o un dato autore; ma di solito uno di questi cronotopi è onnicomprensivo e dominante… I cronotopi possono inserirsi l’uno nell’altro, coesistere, intrecciarsi, succedersi, confrontarsi, contrapporsi o trovarsi in più complessi rapporti reciproci… Il carattere generale di questi rapporti è dialogico (nell’accezione ampia di questo termine)… Questo dialogo entra nel mondo dell’autore e dell’esecutore e nel mondo degli ascoltatori e dei lettori. Anche questi modi sono cronotopici. Come ci sono dati i cronotopi dell’autore e dell’ascoltatore-lettore? Prima di tutto ci sono dati dall’esistenza materiale esterna dell’opera e nella sua composizione puramente esterna. Ma il materiale dell’opera non è morto, bensì parlante, significante (o segnico)… da qualsiasi testo, a volte passando attraverso una lunga serie di anelli di mediazione, in ultima analisi arriviamo sempre alla voce umana e, per così dire, cozziamo sull’uomo… Nello spazio-tempo perfettamente reale, dove risuona l’opera e dove si trova il manoscritto o il libro, si trova anche l’uomo reale che ha creato il linguaggio risonante, il manoscritto o il libro, e si trovano gli uomini reali che ascoltano o leggono il testo. Naturalmente questi uomini reali – autori e ascoltatori-lettori – possono trovarsi (e di solito si trovano) in diversi spazi-tempi, a volte divisi da secoli e da distanze, eppure essi si trovano in un unitario mondo storico reale e incompiuto, che un confine netto e rigoroso separa dal mondo raffigurato nel testo… Per quanto immancabile sia la presenza di un confine rigoroso tra di essi, essi sono indissolubilmente legati tra loro e si trovano in un rapporto di costante azione reciproca, simile all’ininterrotto metabolismo tra l’organismo vivente e l’ambiente che lo circonda: finché l’organismo è vivo esso non si fonde con questo ambiente, ma se lo si stacca dall’ambiente, esso muore… Anche questo processo metabolico, s’intende, è cronotopico: esso si compie prima di tutto nel mondo sociale che storicamente si sviluppa, ma si compie senza staccarsi dallo spazio storico che muta. Si può persino parlare di un particolare cronotopo creativo, nel quale avviene questo metabolismo tra l’opera e la vita e si compie la particolare vita di un’opera.»

[49] . Riportiamo Leontjev, cit.: “Proprio il contenuto sensorio (la sensazione, la sensitività, le forme di percezione, le rappresentazioni) crea la base e la condizione di ogni coscienza… Esso è una specie di tessuto materiale che conferisce la ricchezza e il carattere estremamente pittoresco alla riflessione cosciente del mondo…” (a ben vedere il cronotopo di Minkowski/Bachtin può essere anche come un modello per la psicologia di Leontjev (conscio/inconscio) e per la matrice stilistica di Blaga…).

[50] . Karl Marx, Il Capitale, lib. I, sez.1.1, ed. Rinascita, Roma 1951, pag. 60; (ed. UTET 1974/2013, cit., vol.1, pag. 154).

[51] . Karl Marx, Per la critica dell’economia politica (1859), it. Newton Compton, Roma 1972, pp. 80 e 81. Più avanti (p.101) Marx precisa che «La teoria del tempo di lavoro come unità di misura immediata del denaro è svolta per la prima volta sistematicamente da John Gray” nel 1831 e nel 1848; e al proposito in una nota riporta: “Dopo la rivoluzione di febbraio Gray indirizzò al governo provvisorio francese un memoriale in cui lo avverte che la Francia non ha bisogno di una “organisation of labour” bensì di una “organisation of exchange”, e che il piano di quest’ultima si trova, perfettamente elaborato, nel sistema monetario da lui Ideato. Il bravo John non sospettava che 16 anni dopo la pubblicazione del suo Social System  [1831] un brevetto per la stessa scoperta sarebbe stato dato all’ingegnoso Proudhon.»

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