L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro comune . 2021
arteideologia raccolta supplementi
made n.20 Giugno 2023
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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pagina
Elementi e complementi . (appunti IIi.2)

Non è dall’oggi al domani che il proletariato ha fatto del marxismo il suo metodo, e attualmente è ben lungi dal servirsene integralmente. Questo metodo serve ora principalmente e quasi esclusivamente a scopi politici. Il largo impiego come metodo di conoscenza e lo sviluppo metodologico del marxismo dialettico appartengono ancora all’avvenire. Soltanto nella società socialista il marxismo cesserà di essere lo strumento unilaterale della lotta politica, per divenire il metodo della creazione scientifica, l’elemento e lo strumento essenziale della cultura spirituale. (Trotsky '23)

...Siamo qui, come attorno ad un bivacco notturno. Alla luce di un fuoco che a sprazzi illumina la radura qualcuno ci intrattiene parlando più o meno di arte. Ma più sul meno riesce a dire, lasciando oltretutto cadere i fili continui del suo discorso. E così, chi paziente l’ascolta si sforza di ravvisare, oltre l’ombra che avvolge il gruppo, la completezza degli argomenti che lui vorrebbe illuminare senza però mai raggiurgerli…
RICOGNIZIONI SUL FORMALISMO 2

Eliminare il soggettivo

La ricordata esigenza generalissima di eliminare dalla scienza il “soggettivo” (che in precedenza abbiamo esteso anche come “antropomorfismo”) potremmo in qualche modo riscontrarla opportunamente perseguita anche tramite la soppressione (teorica) dell’utilità dell’oggetto (prodotto) per i bisogni e le necessità immediate dell’uomo così da astrarne la forma (sensibile) per osservarla in quanto tale – per non parlare di Galileo che astrae la forma in termini matematici, quantitativi. E’ cioè per noi interessante, al momento, notare come per raccogliere l’intera produzione delle cose prodotte dall’uomo-industria sia Kubler che Marx condividono una stessa osservazione di partenza circa l’uso e l’utilità che interferirebbero con la comprensione essenziale, umanamente profonda, di tutte le “cose” che possiamo osservare e studiare per come si presentano di fronte a noi nelle loro svariatissime forme, vuoi  nel libro aperto della natura (Galileo), in quello dell’industria dell’uomo (Marx) come in quello dell’arte (Kubler).
Difatti leggiamo:

Ciò [far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte] apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’«uso», giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la desiderabilità delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care...[1]

… ci dice Kubler.

Si vede come la storia dell’industria … sia l’aperto libro delle forze essenziali umane, la psicologia umana sensibilmente presente, che finora non fu vista nella sua connessione con l’essenza dell’uomo, ma sempre solo come un esteriore rapporto di utilità perché – muovendocisi entro l’alienazione – si seppe vedere come realtà delle forze essenziali umane e atti dell’uomo come ente generico soltanto l’esistenza generale dell’uomo, la religione, o la storia nella sua essenza generale-astratta, come politica, arte, letterature etc…[2]

… aveva detto Marx. Lui, ovviamente per andare oltre un semplice criterio atto ad estendere la famiglia delle cose proprie di una antropologia “non aristocratica”, reale  e quindi scientifica.
Ed infatti questa negazione dell’utilità in Marx non appare come una trovata del pensiero, un’espediente dell’idea, ma come un portato storico concreto della vita reale nel modo di produzione capitalistico:

La proprietà privata ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato etc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzi di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata, lavoro e capitalizzazione. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursi l’ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza.[3]            

Ecco allora come solo nel capitalismo, dominio della proprietà privata, la povertà di “tutti i sensi fisici e spirituali” dell’uomo porta alla luce la sua intima ricchezza umana, e tuttavia, “muovendocisi entro l’alienazione” tale ricchezza rimane anch’essa alienata.
Così, se Marx procede verso il futuro con la negazione pratica della proprietà senz’altro [4], intanto Kubler accede al presente con un programma immediato critico di una storia dell’arte, tradizionalmente intesa e tuttora diffusa, ossia allineata (e alienata) alla (e dalla) proprietà – quantunque variopintamente specificata.           

Il contributo particolare dello storico è la scoperta delle molteplici forme del tempo… Il tempo, come la mente, non è conoscibile in quanto tale. Possiamo conoscere il tempo soltanto indirettamente, attraverso quanto in esso avviene: osservando cioè mutamento e permanenza, segnando la successione di eventi con riferimenti a punti fissi e notando il contrasto dei vari ritmi di mutamento….
In massima parte la nostra conoscenza dei tempi più antichi si basa su testimonianze visibili della durata fisica e biologica. Seriazioni tecnologiche di ogni tipo e sequenze di opere d’arte, dalle più umili alle più alte, offrono una più esatta scala cronologica che si sovrappone alla documentazione scritta…
L’orologio culturale ha preceduto tutti i metodi fisici di misurazione del tempo. Esso è quasi altrettanto esatto e permette un’indagine più profonda dei nuovi metodi assoluti, i quali spesso necessitano una conferma ottenuta con mezzi culturali, specialmente quando le prove sono di natura mista. Il funzionamento dell’orologio culturale si basa però su frammenti sbocconcellati di materiale rinvenuto in depositi di detriti e cimiteri, in città abbandonate e villaggi sepolti. Solamente le arti di natura materiale sono sopravvissute: della musica e della danza, della lingua parlata e dei riti, di tutte le arti estemporanee di qualsiasi paese al di fuori di quelli mediterranei niente praticamente è rimasto, salvo alcuni residui di tradizione in gruppi etnici isolati. La prova ultima dell’esistenza di quasi tutti i popoli antichi sarà quindi per noi di ordine visivo ed è da ritrovare nella materia e nello spazio più che nel tempo e nel suono. Per una conoscenza più profonda del passato umano dobbiamo quindi appoggiarci soprattutto ai prodotti visivi dell’industria dell’uomo…[5]

 Dunque: “la sensibilità (vedi Feuerbach) - annota il giovane Marx - dev’essere la base di ogni scienza”; ed in seguito conclude che “la scienza naturale comprenderà un giorno la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo comprenderà la scienza naturale: non ci sarà che una scienza”.
Anche la nostra corrente si è espressa più volte su questi argomenti:

Noi diciamo che arte e religione anticiparono la scienza [che conosciamo] di millenni e millenni; esse erano la scienza unica e si manifestarono ben più vere dei primi conati scientifici dei pitagorici, degli atomisti o degli eleatici; conati transitori, caduti sotto le successive conquiste fino all’inizio della società borghese, con le sistemazioni ben diverse di Galileo, di Newton, di Lavoisier. Oggi tutto è ancora rivoluzionato con nuove teorie, vantate dagli ultra-modernisti, mentre invece gli antichi risultati dell’arte-religione-scienza sono rimasti stabili [6]. Non riteniamo, evidentemente, che l’arte sia esatta e potente come mezzo analitico quanto la scienza; ma come mezzo di sintesi ha certo anticipato la scienza, è stata una prima apparizione della scienza. Lo stesso possiamo dire della mistica antica, la quale si confonde con l’arte… Forse il canto è nato prima della frase articolata, così come la poesia è nata prima della prosa, l’arte e la religione sono nate prima della scienza. Nulla di tutto questo è stato inutile.[7] 

E’ in questa futura prospettiva unificatrice della conoscenza che, in un certo modo, possiamo collocare anche il lavoro svolto da Kubler (non importa se inconsapevole) per ampliare il tradizionale criterio di “arte” all’intera industria come reale antropologia prima che anche l’arte si risolva (e dissolva?) nella futura scienza naturale dell’uomo (nella quale i nomi dei singoli rimarranno solo come delle impersonali coordinate spazio-temporali del corso della conoscenza umana delle “cose”, materiali o immateriali che siano).
Già nei manoscritti giovanili di Marx troviamo che “la sensibilità dev’essere la base di ogni scienza” ed i sensi sono i suoi immediati teorici [8]. E sono asserzioni  che non emanano dal mondo delle idee ma conseguenti all’osservazione del tutto concreta e argomentata sulle peculiarità dei sensi umani e dei loro oggetti [9], con passaggi per noi significativi, quali, ad esempio: «Non solo col pensiero, ma bensì con tutti  i sensi, l’uomo si afferma quindi nel mondo oggettivo … i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale », etc.; e soprattutto:

E’ soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacché non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l’amore etc.), in una parola la umana sensibilità, l’unità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo.

Dunque: l’occhio e il suo oggetto…? 
Sembra proprio che per Marx l’occhio volante albertiano [10] non viaggi soltanto nello spazio ma soprattutto nel tempo…
«Il modo di vedere o, come preferiamo dire, della rappresentazione visiva, non è neppure ovunque identico, avendo, come tutto ciò che vive, una sua evoluzione…» - dirà Wölfflin [11] solo all’inizio del XX secolo - «La forma della rappresentazione visiva non è ovviamente qualcosa di esteriore, ma ha un’importanza determinante anche per il contenuto della rappresentazione…». 
La nota definizione Quattrocentesca dell’Alberti della pittura come “intersezione della piramide visiva” e il posto centrale della visione prospettica nei trattati e nelle esercitazioni di alcuni artisti dell’epoca, sono indici chiari di una poetica delle arti figurative orientata verso la forma e la visibilità.
Quando poi Leonardo definisce la pittura come scienza asserendo che la pittura “con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità della forma” sembra anticipare quello che nel XIX secolo sarà il fondamento della filosofia dell’arte di Fiedler: l’arte come conoscenza delle qualità visibili delle cose.
Ma secondo molti storici dell’arte la fonte primaria dell’esame estetico della forma e della teoria visibilistica dell’arte risale al formalismo filosofico, psicologico e pedagogico, di Herbart [12], che definisce il Bello come un sistema di rapporti di forma, di linee, di colori o anche di pensieri; dove però ciò che conta dal punto di vista estetico è esclusivamente la forma, intesa appunto come coerenza di rapporti formali.
E a tal proposito è interessante per noi notare che nella voce Estetica della New American Cyclopaedia di New York redatta da Marx nel 1859 [13], viene fatta particolare menzione proprio all’impostazione del pensiero di Herbart

…allo scopo di completare gli elementi trascurati [dall’estetica] [14] dobbiamo procurarci una migliore psicologia su base matematica, come quella di Herbart, ma al contempo fondata su un ricco patrimonio di osservazioni sperimentali appropriate; dobbiamo condurre una completa analisi delle forme artistiche fino ai più minuti dettagli e per ogni branca dell’arte, e in ultima istanza, ma non definitiva, una storia sistematica dell’arte, dai suoi stadi più primordiali e semplici. La realizzazione di questi compiti richiederà un lungo periodo di preparazione dei materiali per l’edificazione della scienza dell’estetica.

Dunque: la scienza e la sua propria lingua: la matematica!
Un concetto che fu basilare tra i princìpi metodici dei pensatori che, con Galileo, Keplero, Cartesio diedero origine al pensiero scientifico moderno, prima che quest’ultimo imboccasse il labirinto dell’incertezza stigmatizzata da Bordiga negli anni Sessanta del secolo scorso.
Ma è ancora Galileo, in una lettera a Fortunio Liceti, a fornirci una ripetizione più estesa circa le varie forme dell’alfabeto con i quali la natura ha scritto il suo proprio libro.   

Ma io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi agli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi e altre figure matematiche, attissime per tal lettura.[15]

Occorre qui notare come i “caratteri” di questo libro sono astrazioni geometriche di fenomeni naturali osservati, come potevano essere, ad esempio nel campo dell’astronomia, le forme sferiche degli astri, le orbite dei pianeti, i coni d’ombra della Luna e della Terra etc..
Vengono cioè derivati con un procedimento simile a quello di cui abbiamo parlato (con Kubler e Marx) a proposito del raccogliere le “cose” dell’industria come arte astraendole dal loro uso  immediato e dalle fortuità; così la medesima procedura di riduzione viene applicata ai fenomeni naturali osservati (sempre visivamente) per ricavarne tramite analogia, degli elementi iconici primari (figure della geometria), capaci di combinarsi tra loro in dispositivi di diversa utilità, ossia dei “modelli” analogici tramite i quali osservare meglio (come in laboratorio) il fenomeno stesso di cui sono un riflesso misurabile.
Modelli, dispositivi o “macchine” iconiche che, appunto nel Saggiatore, accompagnano le argomentazioni [16].
Dopo Galileo e Keplero vennero Newton e Cartesio… ma anche Leibniz, e con lui ecco che, tra gli storici tentativi di lettura e scrittura del “libro aperto della natura”, si presenta l’esigenza di una lingua capace di leggerlo e scriverlo con un unico alfabeto.

Leibniz oltre che matematico era anche un filosofo; per questa ragione, il suo più importante contributo matematico, dopo il calcolo infinitesimale [che condivide con Newton], fu il campo della logica.
Così come nel calcolo ciò che maggiormente lo interessò fu il suo aspetto di universalità, lo stesso orientamento presentavano i suoi sforzi nel campo della logica.
Era sua ambizione ridurre tutte le cose a un ordine universale: per ridurre le discussioni logiche a una forma sistematica, progettò di sviluppare una caratteristica universale che sarebbe servita come una sorta di algebra della logica. Il suo primo scritto matematico del 1666 era stato una dissertazione sull’analisi combinatoria, e fin da allora egli aveva avuto l’intuizione di una logica simbolica formale.
Per esprimere i pochi concetti fondamentali necessari al pensiero si dovevano introdurre simboli universali o ideogrammi, mentre le idee composte avrebbero dovute essere formate da questo “alfabeto” di concetti, esattamente come le formule sviluppate nella matematica.
Lo stesso sillogismo avrebbe dovuto essere ridotto a una sorta di calcolo espresso in un simbolismo universale comprensibile in tutte le lingue.
La verità e l’errore si sarebbero ridotti allora semplicemente a una questione di calcoli esatti o errati all’interno del sistema, e si sarebbe posto fine a tutte le controversie filosofiche. Inoltre le nuove scoperte avrebbero potuto essere dedotte per mezzo di operazioni corrette, ma più o meno meccaniche, effettuate sui simboli secondo le regole del calcolo logico…. il suo progetto di un’algebra della logica fu ripreso nel XIX secolo, e ha avuto un ruolo molto efficace nel corso degli ultimi cento anni.[17] 

Tra quelli che forse più hanno tratto ispirazione al costrutto metaforico del “libro aperto” di Galileo, è dunque da annoverare Leibniz, la cui idea di una lingua universale (veridica), basata sulla logica formale di simboli “matematici”, lo ha fatto recentemente riconoscere come uno dei padri del sistema di calcolo binario, e di conseguenza dei linguaggi informatici usati dagli attuali computer (calcolatori) in grado di leggere tutti gli universali algoritmi [18] di ogni classe di problemi appositamente formalizzati e quindi di risolverli anche per l’occhio o l’orecchio del XXI secolo, così come già si proponeva la nostra invariante corrente di pensiero nel XX secolo.  

[…] Il puro apprezzamento qualitativo contenuto in giudizi e indagini comunicati in parole del linguaggio comune, serba l'impronta personale in quanto le parole e i loro rapporti assumono valore diverso da uomo a uomo secondo le precedenti tendenze e predisposizioni materiali emotive e conoscitive. Sono quindi personali e soggettivi tutti i giudizi e i principi morali estetici religiosi filosofici politici comunicati e diffusi a voce e per iscritto. I sistemi di cifre e le relazioni di simboli matematici (algoritmi) con cui hanno poca familiarità anche molte persone che si affermano colte, tendono a stabilire risultati validi per tutti i ricercatori, o almeno trasferibili in campi più vasti senza che siano deformati facilmente da particolari interpretazioni. Il passaggio, nella storia della società e delle sue conoscenze, non è certo semplice; è duro e difficile e non privo di ritorni e di errori, ma in questo senso si costituisce il metodo scientifico moderno.
Di alto interesse a tal uopo, e al fine di dare un valore oggettivo reale e materiale alla conoscenza umana, sarà l'esame di “algoritmi” moderni che hanno raggiunto tale potenza da lavorare e camminare “per conto loro” in certo senso fuori della coscienza e dell'intelligenza, e come vere “macchine” per conoscere. La loro scienza diviene non più fatto dell'io, ma fatto sociale.
L'io teoretico, come quello economico e giuridico, deve essere infranto!
Volle Marx trattare con metodo scientifico anche i fatti economici umani, analogamente a quanto scienza e filosofia borghese avevano fatto per i fenomeni della natura fisica.
Non usò esplicitamente un algoritmo perché pensava e lavorava, esponeva e combatteva al tempo stesso; ed oltre alle armi del tempo nuovo doveva e seppe usare quelle con cui resisteva il nemico: la polemica, l’eloquenza l’invettiva, il sarcasmo sotto cui prostrò tante volte i contraddittori.
E' nel fragore di questa battaglia che si è costruita la scienza nuova della società e della storia.
Ora è da superare un primo punto: per fare scienza del valore, piaccia o non piaccia agli economisti ideologisti e filosofanti, occorre introdurne una misura, come Galileo e Newton poterono fare scienza della gravità misurando masse accelerazioni e forze.
La fecondità del nuovo metodo, pur dando soluzioni suscettibili di futuri più grandiosi sviluppi e non conducendo ad “assoluti veri” estranei alla scienza, sbaragliò e seppellì per sempre le impostazioni sbagliate del passato su tali problemi.[19]

Pur di dire qualche cosa in più riguardo il significato che diamo a certe parole (che a trattarle meriterebbero dei volumi) forse ci stiamo perdendo in divagazioni.
Tuttavia, come l’atomo di carbonio ha dovuto prendersi il tempo per arrivare alla vita organica, così dovevamo dar tempo anche alla forma e al tempo per arrivare a conoscerli e farcene un’idea non troppo pigra per poterle connettere in qualche modo alla nostra letteratura.
E’ probabile che magari così ci siamo impastoiati da soli lasciandovi disorientati; ma non crediamo affatto di smarrire l’impresa generale che ci siamo proposti se insistiamo proponendovi una pagina della dissertazione dottorale di Marx sulle differenze tra le filosofie naturali di Democrito ed Epicuro del 1841, nella quale troviamo già raccolte e sistemate potentemente molte di quelle parole che noi fin qui ci eravamo limitati a menzionare – quali, ad esempio, forma, tempo, mutamento, astrazione, immagine, occhio, sensi, oggetto, fenomeni, sistemi, natura, eccetera.

Poiché insomma il tempo è la forma astratta della percezione sensibile, così, stante la forma atomistica della coscienza epicurea, è necessario che esso venga fissato come una natura dotata di una particolare esistenza nella natura stessa.
La mutevolezza del mondo sensibile, dunque, in quanto mutevolezza, il suo cambiamento in quanto cambiamento, questa riflessione del fenomeno in se stesso, che del tempo costituisce il concetto, ha la sua esistenza a sé nella sensibilità cosciente.
La sensibilità umana è pertanto il tempo che ha preso corpo, la riflessione esistenziale del mondo sensibile in sé.
[…] [per Epicuro]… la percezione sensibile riflessa è … la fonte del tempo e il tempo stesso. Il tempo perciò non può essere determinato per analogia, né di esso può predicarsi altro, ma va ammessa l’evidenza stessa; giacché, essendo la percezione sensibile riflessa lo stesso tempo, non è dato trascenderla.
In Lucrezio, Sesto Empirico e Stobeo invece l’accidente dell’accidente, il mutamento che in sé si riflette è determinato come tempo.
La riflessione degli accidenti nella percezione sensibile e la loro riflessione in se stessi sono poste quindi come un tutt’uno.
In virtù di questo nesso tra il tempo e il sensibile anche gli είδωλα [eídola, “immagini”], che si trovano parimenti in Democrito, assumono una posizione più conseguente. Gli είδωλα sono le forme dei corpi naturali, le quali come superfici si desquamano, per così dire, da essi e ne determinano la fenomenizzazione.
Queste forme delle cose fluiscono costantemente dalle medesime, e penetrano nei sensi, e appunto così fanno apparire gli oggetti. Nell’udito pertanto la natura ode sé stessa, nell’olfatto odora sé stessa, nella vista vede sé stessa. La sensibilità umana è dunque il mezzo nel quale, come in un punto focale, i processi naturali si riflettono e si accendono alla luce della fenomenicità. [20]

Il Tempo sarebbe dunque scandito dal mutamento della forma “sensibile”, ossia, resosi sensibile per il corpo…
Certamente: allora era il 1841; ma in un importante testo redatto giusto un secolo dopo da due matematici di primo piano, si potevano ancora leggere sostanzialmente le stesse cose, dato che sussiste tuttora l’oggetto e chi l’osserva, sui quali per di più oramai sappiamo – con Bohr – che dall’osservazione fisica dell’oggetto (e dunque anche dai suoi eídola) non se ne trae il trascendente (analogo, come dal segno di croce un Dio di passione e compassione), ma piuttosto che ad avere effetti fisici significativi sull’oggetto osservato è lo strumento osservante (corporeo o extracorporeo): talché la “croce in sé” non ha più voce in capitolo e scolora come un falso problema sotto la chiara paletta del tempo… 

Qualunque possa essere il nostro principio filosofico, per quanto riguarda l’osservazione scientifica un oggetto si esaurisce nella totalità delle relazioni possibili con il soggetto o con lo strumento che lo percepiscono.
Naturalmente la sola percezione non costituisce conoscenza e indagine; essa deve essere coordinata e interpretata in rapporto ad una certa entità sottostante, a una “cosa in sé”, che non è oggetto di osservazione fisica diretta ma appartiene alla metafisica [e alla teologia].
Nel procedimento scientifico gli elementi di carattere metafisico vanno messi da parte, e si devono sempre considerare i fatti osservabili come la fonte ultima delle nozioni e delle costruzioni.
La rinuncia a comprendere la “cosa in sé”, a conoscere la “verità ultima”, a svelare la più riposta essenza del mondo, sarà forse psicologicamente ardua per gli ingenui entusiasti, ma è in realtà uno degli atteggiamenti più fruttuosi del pensiero moderno.
La coraggiosa determinazione di eliminare la metafisica [la teologia, l’etica e le moralità] ha valso come premio la scoperta di alcuni dei più importanti risultati della fisica.[21]

In una conferenza del 1932, ecco come Heisenberg [22] riassumeva alcuni punti dei progressi della conoscenza fisica della natura:

A lui [Platone] sembrano in primo luogo importanti le leggi naturali matematiche nascoste dietro le apparenze, non la variopinta vicenda delle apparenze stesse.
E’ importante e caratteristico che Platone metta così fortemente in rilievo questo lato “formale” della spiegazione della natura, come diremmo oggi. Platone parla per esempio dei pitagorici e delle loro ricerche sulle vibrazioni delle corde e sulle armonie; in questi esperimenti è importante per il filosofo solo il pensiero dei rapporti numerici nascosti dietro le armonie, le apparenze stesse restano per lui un accessorio privo di importanza.
[…] La storia ci insegna che da Talete fino ad oggi si è sempre accresciuta la visione della natura, la διάνοια [la dianoia, la ragione]; ma fa anche nascere in noi che queste due specie di conoscenza, ἐπιστήμη [episteme, scienza] e διάνοια [23], per quanto in un certo senso dipendano una dall’altra, tuttavia si escludono vicendevolmente. Infatti, quanto più vasto è il campo della fisica, la chimica e l’astronomia ci rivelano, tanto più noi sogliamo sostituire l’espressione “spiegazione” della natura con la più modesta espressione “descrizione” della natura, e tanto più chiaro diventa che questo progresso non è dato da un sapere diretto, ma da una comprensione analitica.
[…] Newton scompone per primo la luce, bianca per la nostra sensazione, nello spettro multicolore; Huygens sostituisce alla luce i movimenti ondulatori di un mezzo ipotetico detto etere; Maxwell infine interpreta questo movimento ondulatorio come vibrazione d’intensità del campo elettrico e magnetico nello spazio vuoto. Anche qui vediamo chiaramente che la scienza rinuncia sempre più a rendere vivo il fenomeno direttamente rivelatoci dai sensi, e fa sgusciare fuori soltanto il nocciolo matematico-formale del processo…

Per comprendere in che consiste questa “rinuncia” dobbiamo probabilmente tornare a Platone, per il quale gli altri due stadi della conoscenza sono la πίστις (pistis, “fede”, dice Heisemberg, ma anche “fiducia”, “fidabilità” o “credito”... che si darebbe alla immediatezza dei sensi), e la εἰκασία (eikasia, “supposizione”, dice Heisenberg, ma anche “immaginazione” - rappresentazione per immagine, compara-zione, confronto, congettura, presunzione… dovuta all’attività del pensiero)… Sono questi i due stadi inferiori della conoscenza - che stanno ai due superiori come il credere sta al conoscere - a venire sacrificati per dare alla scienza la possibilità di una spiegazione della natura fisica, che però ci lascia insoddisfatti.

Questa rinuncia alla vitalità e all’immediatezza, che fu la premessa dei progressi della scienza da Newton in poi, è anche il vero motivo dell’aspra lotta che Goethe nella sua Dottrina dei colori condusse contro l’ottica fisica di Newton. Sarebbe superficiale dimenticare questa lotta come irrilevante; ha pure un senso il fatto che un uomo di tanta levatura abbia impiegato tutte le sue forze per contrastare i progressi dell’ottica di Newton.

Le apparenze, cioè, reclamano ogni volta di tornare a far parte dell’integrità del fenomeno dal quale scienza e ragione hanno fatto sgusciar fuori il nocciolo della sua comprensione analitica; scalpitano di tornare ad essere quel fenomeno unitario che i nostri sensi rendono immediatamente indubitabile e necessario alla vita stessa dell’uomo nonostante lo sappiano e lo vedano spesso vacillare e flettersi verso la sfinge e l’enigma. Tuttavia...

… la perseveranza con cui la scienza astratta prosegue nella stessa direzione nonostante tutte le obiezioni è un chiaro indice della sua forza e della sua intima logicità; questa forza, però, nasce in parte, non lo si può dimenticare, dalla possibilità di dominare tecnicamente il mondo con l’aiuto della scienza astratta.

Non si tratta qui di stabilire cosa intendere precisamente con i termini di realtà e di verità dei fenomeni fisici, ma di non dimenticare che per conoscere si sono separati la pelle dal corpo, la buccia dalla polpa, o – diciamo pure così – la forma dalla sostanza, ovvero le leggi che li regolano dalle forme con le quali si manifestano ai sensi umani. 

Conclusosi lo studio della meccanica per opera di Newton, quello dell’elettrologia e dell’ottica per opera di Maxwell, sviluppatasi rigogliosamente la chimica al principio del secolo scorso [il XVIII] la scienza si vide riproposto il problema della materia…
La teoria atomica di Democrito rinacque: già Gassendi, nel Seicento, aveva posto in pericolo la propria vita insegnando pubblicamente la teoria atomica, I suoi successori spiegarono i diversi stadi di aggregazione ammettendo che nello stato solido gli atomi stiano uno accanto all’altro in fitte file; nello stato liquido siano accatastati insieme ma corrano attorno disordinatamente; nello stato gassoso, simili a uno sciame di mosche, frullino attorno nello spazio a grande distanza uno dall’altro. Così la densità, la forma e la mobilità diventano qualità riconducibili a configurazioni geometriche.
Nel secolo scorso a queste qualità si aggiunse…il calore… riguardato ora come l’energia di movimento degli atomi materiali… che [muovendosi più rapidamente di quelli di un corpo freddo] provoca in noi la sensazione del “caldo”.[24]

Se ci è consentito dare alla scienza episteme e dianoia, allora consentiteci di dare pistis ed eikasia all’arte e dire che tanto più astraiamo dalle apparenze della natura per fare scienza, tanto più le apparenze dovranno astrarre da sé stesse per fare arte.
E’ forse questo il segreto dell’arte moderna?
Che farsene cioè del cumulo delle forme apparenti sacrificate alla conoscenza scientifica della natura se non trattarle con lo stesso metodo analitico e ricondurre la loro particolarità a configurazioni geometriche e matematiche…?
Nel 1870 Benjamin Peirce aveva dato la sua famosa definizione: «La matematica è la scienza che trae conclusioni necessarie»; e suo figlio, C.S. Peirce volle precisare che matematica e logica non sono la stessa cosa: «La matematica è puramente ipotetica: essa presenta soltanto proposizioni condizionali. La logica, al contrario è categorica nelle sue asserzioni».
Quest’ultima distinzione doveva diventare oggetto di intense discussioni nell’intero mondo matematico della prima metà del XX secolo. Difatti, nel 1893, il logico e matematico tedesco F.L.G. Frege, non condividendo affatto l’opinione di C.S. Peirce che la matematica e la logica fossero due cose nettamente distinte, affrontava l’impresa [25]  di derivare i concetti dell’aritmetica da quelli della logica formale.
Poi, al Congresso di Parigi del 1900, dove Hilbert presentò i suoi problemi [26], Poincaré lesse una relazione nella quale metteva a confronto i ruoli rispettivi della logica dell’intuizione nel campo della matematica.
«Da allora in poi – commenta Boyer – si è soliti raggruppare i matematici in due o tre scuole di pensiero, a seconda delle loro concezioni circa i fondamenti della loro disciplina. Quelli che adottarono concezioni affini alle idee di Poincaré formarono un gruppo dai contorni indefiniti caratterizzato dalla predilezione per l’intuizione [mentre] Hilbert venne considerato il massimo esponente di una scuola di pensiero “formalista”. Alcuni dei suoi seguaci svilupparono tale posizione fino alle sue estreme conseguenze, giungendo alla conclusione che la matematica non è altro che un gioco privo di significato in cui si gioca con contrassegni privi di significato secondo certe regole formali concordate in partenza.»[27].
Privare dei significati (quasi inevitabilmente antropomorfi) un particolare gruppo di fenomeni fisici ci offre l’esperienza tangibile di vederli letteralmente nella loro autonoma esistenza e vitalità autometabolica, e poter includervi anche il principio evolutivo.
Ma evidentemente per scrollarsi di dosso certe visioni del mondo già superate l’uomo doveva arrivare praticamente all’alienazione totale della propria vita reale, così come la pone il modo di produzione capitalistico; non solo, cioè, astraendo il sentimento dall’oggetto, rendendoli solo indifferenti uno all’altro, ma rendendo universalmente ostili e nemici tanto l’oggetto che il sentimento stessi.[28] 
Così, ad esempio per i fenomeni musicali, si doveva necessariamente superare la metà dell’Ottocento per esprime, con Hanslick, il concetto che “la musica può simboleggiare, nella sua autonomia, la forma del sentimento, cioè il suo movimento dinamico, il suo crescere e diminuire, il suo rafforzarsi e addolcirsi, ma nulla più[29].
La riprova di questa affermazione si può avere alterando il testo della celebre aria di Gluck ”J’ai perdu mon Eurydice…”, da tutti citata come un esempio di espressione musicale di drammatica collera, in “J’ai trouvé mon Eurydice…”. La musica accompagnerà ugualmente bene i due testi opposti, proprio perché in realtà la musica non esprime la collera di Orfeo che ha perduto Euridice, ma null’altro che un movimento rapido e appassionato che può adattarsi altrettanto bene alla collera come ad una intensa gioia [30].

L’opera lirica, ad esempio, può venire ora intesa come un prodotto “ibrido” che interseca il principio drammatico e quello musicale e vive di compromessi – e la stessa idea del Bello e del Vero, musicale o poetico, inizia così ad assumere una nuova concretezza con cui poter finalmente venire alle mani: “Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara. E l’ho ingiuriata. Mi sono armato contro la giustizia“ …scrive Artur Rimbaud, nel 1873, dopo la parigina stagione all’inferno della Comune.
Il fortunato saggio di Hanslick sembra aver attinto alla filosofia di Herbart, per il quale – riassume Fubini –

…l’arte è forma e non più espressione, e il suo valore consiste nelle relazioni formali presenti all’interno dell’opera, e individuabili empiricamente, mentre tutti gli altri contenuti emotivi o sentimentali presenti nell’opera d’arte non devono influenzare il giudizio estetico fondato unicamente sulla forma… In ogni arte si dovrà cercare solamente quegli elementi formali propri di quell’arte, abbandonando nel giudizio aggettivi come “patetico”, “nobile”, “grazioso”, “solenne”, che si richiamano unicamente a generiche emozioni soggettive e non colgono la specificità delle forme artistiche (cfr. Introduzione alla filosofia, 1813).[31]

L’arte, dunque, è null’altro che forma. Anche se – tiene a precisare Hanslick – non bisogna confondere questo concetto con la rappresentazione di sentimenti indeterminati, dato che ciò sarebbe una contraddizione in termini, poiché ogni attività artistica “consiste nell’individuare, nel plasmare il definito dall’indefinito, il particolare dal generale”. E questo, in termini non filosofici, e per intenderci meglio tra noialtri, vale l’ovvietà per cui ogni attività artistica consiste pur sempre nel realizzare un oggetto per il soggetto, così come ogni particolare lavoro (materiale o immateriale) consiste nel realizzare un particolare prodotto (materiale o immateriale) determinato dal suo proprio particolare uso…
Se «la musica può simboleggiare, nella sua autonoma specificità, la forma del sentimento … ma nulla più », e se «il contenuto essenziale della forma è un contenuto formale» (Focillon), che dire allora dell’arte figurativa nella sua propria “specificità” d’uso visivo e nulla più?  Ovvero – per dirla con Klee – che la pittura non consiste più nel render conto del visibile, ma nel rendere visibile?
E magari sarà pure stata l’immagine della mano di Albert von Külliker esposta ai raggi X di Röntgen (1896) ad ispirare Klee nel riassumere in tal modo il programma dell’arte figurativa del ventesimo secolo, ma simili episodi dimostrano ancora troppo timidamente la connessione tra arte e scienza, e piuttosto la banalizzano sulla base di dualismi che non ci servono più [32].
A questo punto si può anche porre la domanda: rendere visibile che cosa?
Dunque, se non più un determinato sentimento allora cos’altro se non il quadro stesso, in quanto tale?
Crediamo che in qualunque altro modo si risponda non si possa che arretrare alla mimesi, all’imitazione delle forme e alla ibridazione con ogni altra arte, dato che sembra che ora il punto non è tanto il che cosa ma il come rendere visibile. E’ un problema nuovo che si pone per la scienza e per l’arte in un’epoca già pronta a risolverlo – e che risolverà (per quanto possibile) concentrandosi sugli oggetti specifici dei rispettivi ambiti di analisi – e lasciateci dire per semplicità: la scienza con la fisica dell’atomo, l’arte con la fisica dell’immagine – entrambe aiutate pure da una nuova idea di bellezza ampliata dalle forze produttive all’immaginazione scientifica (es. Einstein, Dirac e altri, come abbiamo visto).
Per comodità noi in seguito useremo il termine “formalismo” in un senso forse anche troppo esteso; in un senso più generale di come ne abbiamo già parlato in questi nostri racconti (cfr. nømade 15.2018), e che ora stiamo tentando di approfondire per poter legare indissolubil-mente lo sviluppo dell’arte con quello della conoscenza, dei sensi e dei sentimenti….
Ci sembra qui opportuno riportare l’osservazione di Marx – per il quale nell’udito la natura ode sé stessa, nell’olfatto  odora sé stessa, nella vista vede sé stessa, e la sensibilità umana è il mezzo nel quale i processi naturali si riflettono e si accendono alla luce della fenomenicità [33] – e così completare la serie con il geografo anarchico Elisée Reclus, per il quale nella conoscenza la natura conosce sé stessa.

Giunti a questo punto, crediamo di avere tutto, o quantomeno abbastanza di quanto ci può servire per continuare la nostra “discesa libera” sulla pista delle faccende dell’arte passando per la porta costituita dal tempo e dalla forma.
In seguito noi con “formalismo” intendiamo indicare l’attitudine sistematica e scientifica di tutte o di ognuna di quelle correnti del pensiero sull’arte che hanno (grosso modo) come oggetto delle loro analisi principalmente (quando non esclusivamente) gli elementi fenomenici (materiali, sensibili, quantitativi) e il funzionamento (comunicativo, tecnico, algoritmico) di un qualche particolare sistema di segni (linguaggio) con capacità “autoformativa” (evolutiva) indipendentemente dal significato (informativo, valutativo, semantico, simbolico, morale, etico, politico etc.).

Il “formalismo” politicizzato

Qualcuno di noi tra i più vecchi, ricordano ancora che negli anni seguenti il secondo dopoguerra si dibatteva animatamente sulla contrapposizione tra la concezione (borghese) dell’arte-per-l’arte e quella (proletaria) del realismo socialista : idealista e reazionaria e quindi biasimevole la prima, materialista e rivoluzionaria e quindi lodevole la seconda. Ancora nel 1965, Roman Jakobson ricordava le parole che il poeta Kirsanov pronunciò nel 1934 a Mosca durante il primo congresso degli scrittori sovietici:

Non si possono toccare problemi come quelli della forma poetica, delle metafore, della rima o dell’epiteto, senza provocare come reazione immediata la risposta: addosso ai formalisti ! Su ognuno grava la minaccia di crimine formalista. Questo termine è divenuto un punging-bag con cui si esercitano i bicipiti critici. Ogni accenno a “iterazioni foniche” o alla “semantica” è automaticamente seguito da uno sgarbato: dàgli al formalista ! Taluni critici cannibali han fatto di questa parola d’ordine un grido di guerra in difesa della loro ignoranza su tutto iò che riguarda teoria e pratica dell’arte poetica, e per scotennare chiunque osi turbare il wigwam del loro oscurantismo.[34]    

Alcuni di noi riconoscevano tuttavia, nella linea storica del pensiero “formalista” post-1848 (da “l’art pour l’art” al “puro visibilismo”, al “formalismo” russo, ecc.) oltre che la difesa dell’autonomia di ogni singola arte tra tutte le forme dell’attività (industria) umana e del pensiero filosofico, soprattutto la ferma rivalutazione del mezzo tecnico e del materiale concreto [35] e la problematicità dei differenti ritmi di sviluppo delle diverse arti e delle differenti produttività artistiche nelle varie epoche e aree geografiche, ecc..
Insomma, eravamo in imbarazzo, e neppure le parole di Trotsky (verso cui il fronte unificato della “sinistra” alimentava la massima diffidenza) erano di aiuto per cavarci fuori da quell’egemonia precettistica della bolscevizzazione intellettuale dell’epoca (che ci promettiamo di affrontare in altra occasione [36]). 
«Victor Shklovsky – scrive dunque Trotsky – è il teorico del futurismo [russo] e al tempo stesso il capo della scuola formalista [russa]. Secondo questa teoria, l’arte è sempre stata opera di pure forme autosufficienti e ciò è stato riconosciuto per la prima volta dal futurismo. Così il futurismo è la prima arte cosciente della storia, e la scuola formalista è la prima scuola scientifica dell’arte. In virtù degli sforzi di Shklovsky (e questo è un merito niente affatto insignificante) la teoria dell’arte, e parzialmente l’arte stessa, si è alla fine elevata dalla condizione dell’alchimia a quella della chimica. L’araldo della scuola formalista, il primo chimico dell’arte dà degli schiaffi poco amichevoli a quei futuristi “conciliatori” che cercano un ponte verso la rivoluzione e che tentano di trovare questo ponte nella concezione materialistica della storia. Un simile ponte non è necessario: il futurismo è in grado di badare a se stesso».[37]
Noi non tratteremo affatto la critica che, nelle contingenze determinate dalla rivoluzione, Trotsky rivolse ai formalisti russi nel 1923. Ciò che nel brano interessava segnalarvi è limitato 1) al riconoscimento del carattere sistematico e scientifico con cui il “formalismo” sottomette il materiale artistico, 2) al merito di aver preparato il terreno ad una nuova poetica, che è 3) autonoma nel suo proprio sviluppo, ossia: in grado di badare a se stessa.
Ognuno di questi punti potrebbe aprire una discussione, ma la loro connessione vuol mettere in rilievo che ad un fatto teorico e rilevante come il pensiero “formalistico” in arte, corrispondevano dei fatti altrettanto rilevanti della realtà, ossia le concrete espressioni artistiche prodotte dal futurismo, dal cubismo, dal dadaismo o dall’astrattismo; dunque pensieri e fatti storicamente determinati, ossia sviluppati e connessi tra loro organicamente [38] e non semplicemente prelevati dal magazzino della volontà, sia pure quella armata dalle forze di uno Stato (sia pur “sovietico”).
James Joyce o il realismo socialista?”, si intitola la settima parte della relazione di Radek al Primo Congresso degli scrittori sovietici nell’agosto del 1934. “La cosa più strana – commenta Strada – è che mentre Joyce esisteva realmente, il realismo socialista, soprattutto nel 1934, non esisteva se non nei pii desideri dei suoi teorici. Ma esistendo nella mente dei teorici, secondo una buona logica idealista, doveva esistere anche nella realtà”.
Anche quelle istanze che ad un certo svolto storico iniziano a presentarsi, ripetutamente e per lungo tempo, come delle incalzanti “pretese” di autonomia dell’arte, non sono passate dalle teste degli uomini o dai testi scritti alla realtà, bensì dalla realtà oggettivata dei prodotti dell’arte (o dell’industria dell’uomo) alle teste o ai libri – e semmai si tratterà di spiegarne le modalità.[39]



Il Tempo in parola

Tuttavia, se i fatti sono cocciuti le idee sembrano non essere meno cocciute nel voler passare dalle teste alla realtà dei fatti; così alla forma del tempo i pensatori rispondono col tempo della forma, all’arte come forma del tempo con l’arte come tempo delle idee sull’arte.[40]    

Il tempo come principio cosmico universale è stato descritto, in poesia, dall’inno orfico di Edna St Vincent Millay e Aldous Huxley, in filosofia da Zenone ad Einstein e Weyl, nell’arte da scultori e pittori dall’antichità classica a Salvador Dalì. Una concezione grandiosa che fonde l’immagine del Tempo sviluppata dagli illustratori di Petrarca con le visioni dell’Apocalisse che si trova nel Pastime of Pleasure di Stephen Hawes (v. fig. sopra): il Tempo vi appare come un uomo anziano, barbuto, alato, dal corpo robusto coperto di penne. Nella mano sinistra tiene un orologio, nella destra un fuoco per “brenne the tyme” (bruciare il tempo); è cinto di spada; nell’ala destra si trova il Sole, nella sinistra Mercurio, e sul corpo si vedono gli altri cinque pianeti: Saturno “derkely flamynge” (tenebrosamente fiammeggiante) sulla sommità del capo, Giove sulla fronte, Marte nella bocca, Venere sul petto, e la Luna sotto la cintura.
Conscio del suo potere universale, rifiuta i richiami della fama e dice:
Non sono io, il tempo | a far crescere ogni cosa in natura
Non sono io, il tempo | ogni cosa in natura a far decadere
Non sono io, il tempo | a far sì che l’uomo esista
Non sono io, il tempo | a dissiparne le menzogne
Non sono io, il tempo | a far sì che la morte gli tagli la voce
Non sono io, il tempo | a far passare gioventù e vecchiaia
Non sono io, il tempo | a placare ogni cosa?
Ma nessun periodo è stato tanto ossessionato dalla profondità e dalla vastità, dall’orrore e della sublimità del concetto del tempo come il barocco, l’epoca in cui l’uomo si trova di fronte all’infinito come qualità dell’universo, anziché come prerogativa di dio. Il solo Shakespeare, distaccandosi da tutti gli altri elisabettiani, ha implorato, sfidato rampognato e vinto il Tempo in più di una dozzina di sonetti e in non meno di undici stanze del suo Ratto di Lucrezia. Shakespeare condensa e supera le speculazioni e le emozioni di molti secoli. Nelle arti visive, una mente più serena, quasi cartesiana, doveva creare l’insuperabile immagine del tempo come potenza cosmica: Nicolas Pussin. Nel rendere il fatale istante in cui Fetonte – il gran simbolo dell’illimitato desiderio e della limitata potenza dell’uomo – chiede il carro al Sole, dono che pronuncerà nello stesso tempo la sua esaltazione suprema e la sua distruzione, Poussin ha sostituito la figura del Padre Tempo alle numerose personificazioni individualizzate raccolte da Ovidio, la cui descrizione egli ha assunto a modello (fig. in alto). E nel suo Ballo della vita humana – una specie di umanizzata Ruota della Fortuna – le forze che costituiscono l’inevitabile ciclo del destino sociale dell’uomo – la Povertà che dà la mano al Lavoro, il Lavoro alla Ricchezza La Ricchezza alla Lussuria, e la Lussuria ancora alla Povertà – danzano al suono della lira del Tempo mentre un bambino gioca con la clessidra del Tempo, e un altro soffia bolle di sapone connotando la transitorietà e la futilità. L’intera scena è governata dal movimento imperturbabile del Sole che guida il carro lungo lo zodiaco. [41]

L’analisi dei contenuti del Ballo della vita umana si conclude con il commento per cui «…lo sviluppo della figura del Padre Tempo è istruttivo sotto due aspetti. Manifesta l’intrusione di tratti medievali in un’immagine che, a prima vista, sembra di carattere puramente classico; ed illustra la connessione tra la mera “iconografia” e l’interpretazione di significati intrinseci o essenziali.».
E noi non abbiamo dubbi che tutto ciò sia istruttivo di come l’uomo nel tempo ha cercato di rappresentare visivamente l’astratta nozione del tempo ricorrendo alle figure dell’uomo alle prese con le idee [42] che man mano l’uomo si andava facendo di sé stesso e della natura del mondo. Ed è appunto solo così che alla fine il Tempo – non solo “barocco” – si può pure chiudere in un cerchio alla testa che non dà respiro…
«Che cosa vuol dire? era la domanda non solo legittima, ma fondamentale per qualunque giudizio sulle arti della metà del secolo XIX; e in generale la risposta era: la realtà e la vita», ci informa lo storico.

“Realismo” era il termine che saliva nel modo più naturale alle labbra dei contemporanei, come salirà alle labbra di osservatori tardivi del periodo, almeno nel parlare di letteratura e di arti visive. Nessun termine è più ambiguo. Esso implica il tentativo di descrivere, di rappresentare (o in ogni caso di trovare un esatto equivalente) fatti, immagini, idee, sentimenti, passioni… Ma che cos’è la realtà così espressa, la vita alla quale l’arte deve “assomigliare”? L’immagine di sé che era nei suoi desideri non poteva rappresentare tutta la realtà, nella misura in cui questa realtà era fatta di miseria, di sfruttamento e squallore, di materialismo, di passioni e aspirazioni la cui esistenza minacciava una stabilità che, malgrado tutta la sua sicurezza di sé, essa sentiva precaria… Inversamente, in una società dinamica e progressista, la realtà non era, dopo tutto, statica.[43]                 

Che cosa vuol dire la moneta? poteva anche essere l’altra domanda di un uomo qualunque della metà del secolo XIX; e in generale la risposta poteva continuare ad essere: “la realtà” e “la vita” – risposta che senza significar nulla, e proprio per questo, non contraddiceva in nulla la realtà e la vita». Tuttavia…

La forma valore, di cui la forma denaro è la figura perfetta, è vuota di contenuto ed estremamente semplice. Eppure, da oltre due millenni la mente umana cerca invano di scandagliarla, mentre d’altra parte l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complesse è almeno approssimati-vamente riuscita. Perché? Perché è più facile studiare il corpo nella sua forma completa che la cellula del corpo. Inoltre, nell’analisi delle forme economiche non servono né il microscopio, né i reagenti chimici: la forza dell’astrazione deve sostituire l’uno e gli altri. Ma, per la società borghese, la forma merce del prodotto del lavoro, o la forma valore della merce, è la forma economica cellulare elementare. Alla persona incolta, sembra che la sua analisi si smarrisca in mere sottigliezze: e di sottigliezze in realtà si tratta, ma solo come se ne ritrovano nell’anatomia microscopica.[44]

«Naturalmente – prosegue Marx – presuppongo lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, e perciò anche pensare con la propria testa.». Ovviamente noi non vi possiamo promettere altrettanto, ma supponiamo di avervi solo fatto pensare che forme estremamente semplici e prive di contenuto, simili al danaro o alla merce, si possono trovare e scandagliare, altrettanto proficuamente, oltre che nell’economia reale anche nella psicologia sociale [45] o nell’anatomia microscopica dell’arte. D’altronde cos’altro è, ad esempio, il dipinto elementare del quadrato nero di Malevic a petto di un complesso e riuscito dipinto di Poussin dal contenuto denso di figure e significati che danzano in tondo?
A tutta prima probabilmente si potrà obiettare che il nostro richiamo all’economia è solo frutto dell’irruzione gratuita nell’arte di una nostra caparbia Weltanschauung dottrinale. Ma non era appunto su quest’ultima che farebbe infine affidamento l’interpretazione profonda dei significati intrinseci contenuti nell’opera d’arte?
Allora, ripetiamo la nostra domanda cruciale: “Cos’è dunque ciò che l’opera (d’arte) mirabile fa dimenticare mettendola a tacere? [46].
Cos’è ciò che il disegno del Padre Tempo della Bowery Saving Bank o del quadro di Poussin fa dimenticare sprofondandolo nella simbologia classica? Cos’è ciò che perdiamo di vista?
Precisamente: l’economia, ossia: la Banca e il Tempo.

Tempo di lavoro e tempo di vita

Dal disegno degli anni trenta del secolo scorso – che magari accompagna gli auguri della Banca ai suoi depressi risparmiatori – viene trascurata la forma concreta del(l’e)mittente, ossia la sua natura sociale, non essendoci in una “cassa di risparmio” nessun simbolismo velato che abbia bisogno di qualche chiarimento da parte dell’iconologia. Potrebbe però essere l’iconologia e l’arte ad aver bisogno di qualche chiarimento sulla comprensione profonda del modo in cui le tendenze essenziali dello spirito bancario vengono espresse in pittura con le classiche simbologie del Tempo.

…gli effettivi atti di risparmio e d’astinenza (da parte dei tesaurizzatori), nella misura in cui forniscono elementi all’accumulazione, vengono affidati alla divisione del lavoro nel procedere della produzione capitalistica a coloro che di tali elementi ricevono il minimo, che per di più molto spesso, come accade ai lavoratori quando falliscono le banche, perdono i loro risparmi. Da un lato non è lo stesso capitalista industriale che “risparmia” il suo capitale, ma è lui che, in proporzione alla grandezza del suo capitale, dispone di risparmi altrui; dall’altro il capitalista monetario trasforma in capitale proprio i risparmi altrui, e in fonte privata di arricchimento il credito che i capitalisti riproduttivi si fanno l’un l’altro e che il pubblico accorda loro. Così svanisce l’ultima illusione del sistema capitalistico, che cioè il capitale sia figlio del [tempo di] lavoro e del risparmio personali. Non solo il profitto consiste in appropriazione di lavoro altrui, ma il capitale che mette in moto e sfrutta questo lavoro altrui consiste in proprietà altrui che il capitalista monetario mette a disposizione del capitalista industriale, e grazie al quale, a sua volta, lo sfrutta.[47]     

Ed ecco qui, in termini logicamente concatenati, dove attinge significato l’augurio di capodanno della forma Banca (di risparmio) e della forma Tempo, che si danno la mano per mettere in moto il Ballo della vita humana di Nicolas Poussin: Lavoro, Ricchezza, Lussuria e Povertà non ce li abbiamo di certo messi noi, semplicemente li abbiamo già trovati in pittura a ballare al suono della profonda analisi iconologica fornitaci da chi compete in quest’arte dell’interpretazione.
Che il denaro sia il tempo di lavoro «come oggetto generale, o l’oggettivazione del tempo di lavoro generale, o il tempo di lavoro come merce generale»[48], è però una cosa di quelle tante di cui non si curano affatto né la Banca né l’iconologia.
Tutto ciò l’iconologia non lo scorge affatto. Così è anche possibile irridere le virtù del risparmio ricevendo un augurale sberleffo dalla Banca che intanto fugge col malloppo di fine d’anno.
Ma una Storia dell’Arte che si mette a parlare per dire: “il valore d’uso delle opere d’arte può interessare gli uomini ma a me non compete; quello che mi compete delle cose dell’arte è il loro valore come cose che sprofondano nello spirito del tempo, e io le riferisco l’una all’altra soltanto come valori di scambio con altre cose dello spirito”… è ancora una particolare storia borghese del lavoro dell’uomo diviso da sé stesso.
Chiudendo uno studio sul Tempo con una vivente ruota della fortuna, l’iconologia si manifesta quale attività di revisione delle simbologie senza però possederne una visione allargata del tempo in cui sistemarle, dato che essa manca delle immagini del futuro, di cui neppure ne cerca i sintomi emergenti in quelle del presente.
Con questa simbolica ruota l’iconologia non fa più strada di quella già fatta dal senso comune – ma non per questo la buttiamo via.
E così magari torniamo sui nostri passi, e precisamente al Fetonte di Poussin, che chiede a suo padre Apollo di guidare il carro del Sole.
Ora, se è vero che questa tela aveva come pendant un’altra tela delle stesse dimensioni, dipinta anch’essa negli anni giovanili (circa 1627-28), ossia Diana ed Endemione, ecco enuclearsi un tema funzionale al loro accostamento: mortali che chiedono al dio di esaudire la loro richiesta – Fetonte di guidare il carro del Sole, Endemione di essere trasformato in un astro per poterle stare eternamente accanto nel firmamento.


Solitamente l’iconografia per le due storie tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, prediligeva raffigurare la “caduta di Fetonte” e “il pastore addormentato che viene baciato da Diana”, mentre qui troviamo preferiti i momenti della richiesta ed il rammarico di uno stesso commento divino: "voi siete nati mortali, e quanto bramate si addice agli immortali. 
Ma se il Fetonte  ha un pendant non è detto che esso non possa pendere anche da un’altra parte; ad esempio, appunto verso la panofskiana Danza della vita umanama [49], che con accento stoico risponde all’Apollo incielato: "a me dunque appartiene la terra, e allora tu, Dio, tienti pure l’Olimpo"… e prende a celebrare i fasti ciclici degli affari e delle crisi.
E’ forse priva di significati “profondi” la metamorfosi, non certo ovidiana ma tutta borghese, delle divine Stagioni danzanti in altrettante icone della vita mortale che ballano al suono della barocca legge del valore rimpinzato dalle colonie e guastato dalla lussuria?...
L’iconologia risponde, come molte altre discipline unilaterali, solo tautologicamente, cioè soltanto alle domande cui può rispondere con la voce dell’iconologia stessa. E non è certo così che essa supera sé stessa.
Non basta, ad esempio, valutare interessante “lo sviluppo della figura del Padre Tempo” in Poussin e far notare la scelta insolita di prediligere il Fetonte che vuole guidare il carro del Tempo, ecc...
La domanda veramente interessante sarebbe quella di chiedersi come mai questi mutamenti si sono verificati in una determinata fase storica, e propriamente nell’epoca barocca.
Definendo Poussin “una mente quasi cartesiana” si ha sentore che l’iconologia ritiene di rispondere insinuando che lo sviluppo della  scienza ha messo il suo zampino nello sviluppo “barocco” dell’arte.
Ma anche con ciò si è solo spostata la nostra domanda cruciale dall’ambito dell’arte a quello della scienza, ossia: perché in questa nuova epoca dell’arte occidentale si è verificata anche una nuova concezione fisica del mondo? L’iconologia ha cioè aperto uno spiraglio nel suo ambito all’ingresso di una serie molteplice di concomitanti nuovi fenomeni sociali che però non è disposta o non può districare.
Giusto per rimanere nell’epoca contemporanea a Poussin, ad esempio, ci viene in mente una osservazione che Robert Boyle – il padre della chimica moderna – formulò nel 1659:

Questo è un pregiudizio non meno dannoso che generale, nei confronti degli studiosi di storia naturale e di chi si interessa del genere umano, che le persone colte e piene d’ingegno dovrebbero essere tenute lontane dai commerci e negozi dei bottegai [artigiani]… La maggior parte dei fenomeni che si verificano nell’attività commerciale [industriale] sono parte della storia naturale [scienza] e perciò attirano l’interesse del naturalista… essi ci mostrano la natura in moto e quando è tratta fuori dal suo corso per effetto dell’umano potere, cioè nello stato più istruttivo nel quale la possiamo contemplare.[50]

Sembra proprio che gli esponenti della “nuova filosofia” comprendes-sero bene come la scienza era in debito nei confronti della vita pratica non speculativa, al punto di estendere le loro osservazioni all’intero campo della vita pratica e accogliere come prove sperimentali non solo quelle fornite dalla tecnologia pratica ma addirittura quelle provenienti dai rapporti economici praticamente esistenti. Certamente non furono solo le novazioni tecnologiche, scientifiche o economiche a carat-terizzare il periodo, ma molte altre trovarono nell’epoca la loro sincronia, e nell’epilogo al volume citato di questa storia della tecnologia possiamo trovarne una rapida rassegna.

Gli uomini, fin dall’antichità, avevano sognato di conquistare tale padronanza sugli elementi naturali che li circondavano mediante poteri magici, ma nel XVII secolo abbandonarono la magia; il potere scientifico sulla natura doveva essere sullo stesso genere di quello, incompleto, che gli uomini già esercitavano, ed era ottenuto con l’uso della ragione, degli esperimenti, dell’osservazione. Tale potere era stato intravisto secoli prima. In un famoso passaggio, fin dal 1250 circa, Ruggero Bacone aveva anticipato esattamente molte delle conquiste future [51].
[…] Molti uomini in diversi periodi hanno sognato di raggiungere ciò che era apparentemente impossibile; ma ciò che è interessante e degno di nota è la fede che, dalla seconda metà del XVI secolo in poi, gli uomini dimostravano di poter alla fine ottenere ciò che sembrava impossibile con il paziente, sistematico assalto delle scienze naturali. Verso il 1700 questa fede era già parzialmente giustificata dalle realizzazioni. Le navi solcavano gli oceani per merito della scienza, il vapore era imbrigliato; si intravedeva perfino la possibilità di poter fare previsioni sul più imprevedibile degli elementi: il tempo. […] Le parole di Ruggero Bacone dovrebbero anche convalidare la tesi, spesso dimostrata in questa Storia che nel Medioevo l’ambizione di compiere un progresso tecnico o industriale non era del tutto latente. Nel XVI e XVII secolo tale ambizione trovò molte possibilità di essere soddisfatta: le scoperte geografiche spalancarono bruscamente l’orizzonte; le ricchezze dell’America provocarono un’ampia inflazione, sommergendo barriere e restrizioni economiche; un nuovo mondo di pensieri e di dottrine fu scoperto. L’idea che l’uomo è arbitro del suo destino, sia nel presente sia nel futuro, conquistò le menti: progetti e invenzioni si moltiplicarono…”.           

Però le parole di Robert Boyle non vengono tenute in alcuna considerazione da chi le cita; e così lo storico del XX secolo ricade proprio nel pregiudizio denunciato dal chimico del XVII secolo quando attribuisce all’ambizione (si intende individuale), ovvero alla libera volontà dei singoli, la capacità di compiere il “progresso tecnico o industriale”, là dove Boyle (e non ancora Marx o Engels) già riconosceva nella sfera del lavoro umano il mondo da osservare e studiare scientificamente al pari di ogni altro fenomeno naturale.

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[1] . Kubler, cit., pag. 7. – «Se noi riflettiamo sull’atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di Bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo», leggiamo nell’introduzione ad una Storia della Bellezza curata da Umberto Eco e Girolamo de Michele (ed. Bompiani, Torino 2004 pag. 9), da cui ci sembra emergere chiara l’equivalenza, segretamente borghese, di desiderio e possesso. “Desiderio di cose a noi care”, specifica invece Kubler; e qui si ferma senza neppure immaginare di poter allungare le mani per fare di una cosa cara una cosa da possedere senz’altro e di cui disporre a piacimento… 

[2] . Marx, Opere filosofiche giovanili , cit. 232.

[3] . Ibidem, pag. 229.

[4] . Nessun dubbio a togliere “privata”. Con ciò Marx giunge a parlare del comunismo: «…la soppressione effettiva della proprietà privata, cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e vita umana, dell’uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l’uomo, non è da prendersi soltanto nel senso dell’immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell’avere…  La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane… L’occhio è divenuto occhio umano in quanto il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale, umano, dell’uomo e per l’uomo. I sensi sono quindi divenuti dei teorici immediatamente, nella loro pratica….» (Opere filosofiche giovanili  cit., pp. 229 seg.).

[5] . Kubler, cit., pag. 20, 21, 22.

[6] . La conferma indiretta di una tale stabilità nel tempo dei risultati irripetibili raggiunti dall’arte una volta per tutte, ci sembra contenuta nella famosa difficoltà posta da Marx nei Grundrisse : “…la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili”.     

[7] . (Amadeo Bordiga), riunione di Casal Monferrato 10.07.1960; ora nella rivista n+1, numeri 15.16, giugno 2004, (corsivi nostri).

[8] . Nel 1870 Hermann von Helmholtz scriveva Sull’origine e il significato degli assiomi geometrici :  “Che i cosiddetti solidi rigidi – che non sono in realtà altro che solidi elastici estremamente duri – conservano la stessa forma in ogni luogo se nessuna forza agisce su du essi, è un singolo caso che cade sotto il principio generale. Non è, naturalmente, mia intenzione sostenere che l’umanità abbia raggiunto intuizioni spaziali corrispondenti agli assiomi di Euclide mediante sistematiche misurazioni geometriche rigorose. Deve essere stata piuttosto una serie di esperienze quotidiane, in particolare la percezione della somiglianza geometrica dei corpi più grandi e più piccoli, possibile solo nello spazio piano, a condurre a respingere quale impossibile ogni rappresentazione geometrica che fosse in contrasto con questo fatto. A ciò non era necessaria alcuna conoscenza della connessione concettuale fra i fatti osservati sulla similitudine geometrica e gli assiomi, ma solo una conoscenza intuitiva del loro comportamento tipico ottenuta da numerose e precise osservazioni dei rapporti spaziali, una sorta di intuizione quale quella che l’artista possiede degli oggetti da rappresentare, e per mezzo della quale egli decide con certezza e precisione se una nuova combinazione, che egli prova, corrisponde alla natura dell’oggetto da rappresentare o no. Nella nostra lingua non sappiamo designare ciò con alcun altro nome all’infuori di “intuizione” [Anschauung ] ; ma essa è una conoscenza empirica ottenuta con l’accumulazione e il rafforzamento di impressioni simili ricorrenti nella nostra memoria, e non una forma di intuizione trascendentale data prima di ogni esperienza. Non ho bisogno di insistere qui sul fatto che intuizioni di un comportamento tipico conforme a una legge, ottenute empiricamente e non ancor elaborate fino alla chiarezza del concetto enunciato con precisione, abbastanza spesso sono state prese dai metafisici per proposizioni date a priori.”(in Einstein, Relatività . Esposizione divulgativa (1959), con scritti classici su Spazio, Geometria, Fisica, a cura di Bruno Cerignani, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2011, pag. 248 seg.). 

[9] . Marx, Opere filosofiche giovanili , cit., vedi pag. 230 e seg.

[10] . Vedi l’almanacco nømade n.17-2019 (§ L'artista come dispositivo di scelta).

[11] . Cfr. Heinrich Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte (1915), ed Abscondita, Milano 2012, pag. 11.   

[12] . Johann Friedrich Herbart, Psychologie als Wissenschaft, (La psicologia come scienza, 2 voll., 1824-25)

[13] . In Marx, Arte e lavoro creativo, a cura di Giuseppe Prestipino, ed. Newton Compton, Roma 1976, pag. 152 (corsivo nostro). > vai >

[14] . E’ detto in riferimento al paragrafo precedente: “Noi ancora non conosciamo che cosa sia la linea della bellezza in architettura, in scultura, in pittura, e neppure da quali tratti di similarità essa operi sulle simpatie della mente [oggi, la recente scoperta dei neuroni specchio potrebbe aiutarci a colmare certe lacune]; ancora non conosciamo da dove provengano le piacevolezze di una data melodia, né come si rivelino tali sentimenti nel nostro spirito, né che cosa sia a conferire ai vari ritmi, figure retoriche, immagini e suoni del linguaggio la sua forza incantevole”. – Cfr. anche György Lukács, Karl Marx e Theodor Vischer, 1934 (in Beiträge zur Geschichte der Aestetik, Ed. Aufbau, Berlino 1954), it. Contributi alla storia dell’estetica, Ed. Feltrinelli (1957), Milano 1975, pp. 249-326.

[15] . Galileo, Opere, cit. pag. 122n.

[16] . A tal proposito, delle relazioni tra arte e scienza è utile tenere a mente una precisazione: “Per quanto singolari e per quanto imperfetti, i quadri sono i prodotti finali dell’attività artistica. Essi sono i tipo di oggetti che il pittore mira a produrre e la sua reputazione è una funzione del loro fascino. Le illustrazioni scientifiche, d’altro canto, sono al meglio sottoprodotti dell’attività scientifica. Usualmente esse sono fatte, e talvolta analizzate [questo è un punto interessante su cui riflettere], dai tecnici piuttosto che dagli scienziati le cui ricerche forniscono dati. Una volta che i risultati della ricerca sono pubblicati, le immagini originali possono anche essere distrutte… Nelle arti l’estetica è essa stessa l’obiettivo del lavoro. Nelle scienze è, al meglio, ancora uno strumento : un criterio di scelta tra teorie che sono da altri punti di vista, confrontabili, o una guida per la immaginazione durante la ricerca della soluzione di un rompicapo tecnico insuperabile. Solo se risolve il rompicapo, solo se l’estetica dello scienziato risulta coincidere con quella della natura, essa gioca un ruolo nello sviluppo della scienza. Nelle scienze l’estetica è raramente un fine a sé e mai il principale.” (Thomas S. Kuhn, The Essential Tension (1977), it. La tensione essenziale, ed. Einaudi, Torino 1985, pag. 377 seg. (Corsivi nostri). – Di queste essenziali precisazioni di Kuhn sul nesso tra arte e scienza ci sembra non aver tenuto conto una recente trattazione del tema da parte del chimico e meritevole divulgatore scientifico Pietro Greco (Homo.arte e scienza, editore Di Renzo, Roma 2020).

[17] . Carl B. Boyer, Storia della matematica (1968), ed. Mondadori, Milano 1990, pag. 466 seg.

[18] . Il “sogno” di Leibnitz  e i suoi risultati pratici, matematici e tecnici, sono trattati dal logico Martin Davis in Il calcolatore universale (2000), ed. Adelphi, Milano 2003.

[19] . Da una nota (probabilmente di Amadeo Bordiga) inserita nell’edizione del 1970 degli Elementi dell'economia marxista, che furono originariamente composti a Ponza nel 1929 come traccia di un “corso” per militanti confinati sul Libro I del Capitale, successivamente pubblicati nel giornale di partito Programma Comunista nel 1970.

[20] . Karl Marx, Democrito e Epicuro (1841), traduzione di Alfredo Sabetti (1962), ed. La Nuova Italia, Firenze 1979, pag. 65 seg.  

[21] . Richard Courant e Herbert Robbins, Che cos’è la matematica (1941), ed. Boringhieri, Torino 1961, pag. 28 seg.

[22] - Werner Heisenberg, Considerazioni sulla storia delle dottrine fisiche, in Mutamenti nelle basi della scienza, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2015 (corsivi nostri). 

[23] - Platone distingue quattro stadi della conoscenza, lo stadio superiore è detto episteme, e corrisponde alla conoscenza delle cose reali, della loro essenza scientifica; il secondo si chiama dianoia  e può essere raggiunto mediante lo studio delle scienze.

[24] . Heisenberg, cit., pag.15 seg.

[25] . Con il primo dei suoi 2 volumi, Leggi fondamentali dell’aritmetica (il secondo uscì dieci anni dopo, nel 1893).

[26] . Hilbert presentò una relazione in cui, sulla base degli indirizzi di ricerca matematica più rigogliosi alla fine del secolo XIX, tentò di prevedere la direzione dei progressi futuri elencando 23 problemi che, a suo giudizio, sarebbero stati o avrebbero dovuto essere quelli che avrebbero impegnato l’attenzione dei matematici del XX scolo. – Cfr. Boyer, cit., pag. 694. 

[27] . Boyer, cit., pag. 702.

[28] - Giusto per intendere meglio tra noi a quanto qui si allude: “L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo prodotto diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica.” (K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1969, pag. 195, trad, G. della Volpe 1950); o anche: “L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo prodotto diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea” (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, ed. Einaudi, Torino 2004, pag.69, trad. R. Bobbio, 1949).

[29] - Eduard Hanslick (Praga 1825-Baden 1904), Del bello musicale, Lipsia 1854. Cfr. Enrico Fubini, L’Estetica musicale dal Settecento a oggi (1968), ed Einaudi, Torino 1979, pag. 131 e seg. (corsivi nostri).

[30] - Così riporta Enrico Fubini (cit., pag. 136).
– Sembra che la musica (nella sua specificità) sia risolutiva di una condizione paradossale, rappresentata da uno di quegli "strani anelli" di cui parla Duglas Hofstadter nell'introduzione al suo Godel, Escher, Bach (1979, it. ed Adelphi, Milano 1984). Quello che nell'opera (di Gluch) si risolve come gioia, nella musica è indifferente espressione di gioia e dolore; e ciò, in quanto musica, la rende analoga al paradossale disegno di Escher che mostra la Cascata di acqua come un Salita di acqua... "Il concetto di Strani Anelli contiene quello di infinito: un anello, infatti non è proprio un modo di rappresentare un processo senza fine in un modo finito?" (Hofstadter, cit. p.14)...
Questa osservazione (come altre sull'autorefenza, ecc.) la riteniamo molto utile per capire il pensiero e le prassi artistiche a partire dall'inizio del 900 – ma ci promettiamo di svolgerla in seguito.

[31] - Fubini, cit. pag. 133.

[32] - Ci si riferisce alla lettura di Homo.arte e scienza, di Pietro Greco, editore Di Renzo, Roma 2020, e specificatamente alla pagina 211.

[33] -  Karl Marx, Democrito e Epicuro (1841), cit., pag. 65.  

[34] . Roman Jakobson, Verso una scienza dell’arte poetica (1965), in Tzvetan Todorov, I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, p. 10.

[35] - Nell'epoca di cui stiamo parlando, la concezione di Marx essere l’industria la vera antropologia dell’uomo (avvero il “nostro” uomo-industria) e il prodotto (del lavoro) stesso quale mezzo e messaggio, era possibile rintracciarla anche in questa pagina di Dino Formaggio del 1953: “… si è tentato di cogliere la tecnica alle sue origini, abbiamo fissato il carattere particolare (e non l’assoluta separazione) della tecnica d’arte rispetto alle altre tecniche umane e ne abbiamo seguito l’identico risolversi in azione, accennando anche al suo posteriore risolversi in intelletto e pensiero. Si può dire, dunque, che in natura, sopra il piano dell’azione, tecnica ed arte sorgono da una medesima zona di attività costruttrice, dove si profilano tecniche istintive, così piene di riposte sapienti e di razionali accorgimenti da far supporre l’ipotesi di un medesimo sviluppo. Il passaggio dalla tecnica istintiva o naturale alla tecnica cosciente o spirituale non implica nessun salto qualitativo. Giacché, in ogni caso, questo è il piano dell’artistico, non già dell’estetico, e sul piano artistico, dell’attività artistica come tale, la descrizione delle operazioni deve necessariamente prescindere da ogni considerazione di valore. Tale descrizione lascia fuori parentesi lo sfondo delle insorgenze prime, più o meno metafisiche, come la finalità, il valore, il sentimento, la gioia ed infine l’esteticità come estaticità. Quando si parla di forma e di fine sul piano artistico si parla di congruenza e di compimento qualitativo, ma comunque di pesi effabili, di materie risolte. Il piano teleologico della congruenza dell’oggetto allo scopo (non c’è bisogno di ricordare Kant e cento altre estetiche) è stato generalmente riguardato come il piano del piacevole estetico. La considerazione riguarda la strada del soggettivismo … ma, se è vero che i valori si riflettono come tali sui mezzi della loro attuazione, costituendo in valore il mezzo stesso, è pur vero che si può e si deve, per avere una descrizione quanto più possibile scientifica ed obiettiva dei processi artistici, sottrarre l’operazione o l’oggetto d’arte da questi riflessi che, se ne costituiscono l’essenza estetica, non riguardano che indirettamente la struttura tecnica-artistica. La natura diventa allora il postulato fondamentale dell’esperi-enza artistica come tale…” (Dino Formaggio, Fenomeno-logia della tecnica artistica, ed. Nuvoletti, Milano 1953, pp. 126 seg. (corsivi nostri).

[36] . Probabilmente tratterà in prevalenza delle questioni teoriche suscitate dalla rivista tedesca Linkskurve (attiva nella Repubblica di Weimar dal 1929 al 1932 come organo della Lega degli scrittori proletari rivoluzionari  - Bund proletarisch-revolutionarer Schriftsteller, Bprs), che ha stimolato discussioni che, nel tentativo di contrapporre una teoria marxista alla teoria dominante della letteratura, sono andate ben al di là della Lega e della rivista stessa. Cfr. Helga Gallas, Teorie marxiste della letteratura (1971), ed. Laterza, Bari 1974.

[37] . Trotsky, La scuola poetica formalista e il marxismo, in Letteratura e rivoluzione, URSS 1923; it. 1958 da Letteratura arte libertà, cit., pag. 38. – Ci limitiamo qui a riportare il commento di uno studioso della letteratura russa, soprattutto per segnalare una fonte interessante per una visione generale delle questioni poste in quegli anni in Russia: “Sui problemi letterari e culturali l’accordo tra Lenin e Trotckij era sostanziale nel rifiuto delle alchimie del Proletkul’t, così come era sostanziale l’accordo tra i maggiori dirigenti sovietici di allora sul fatto che i problemi dell’arte e della cultura non si potevano risolvere con metodi gendarmeschi o tribuneschi  (si ricordi la dichiarazione di un fautore della cultura proletaria come Bucharin). Ma la concezione che Lenin aveva dei problemi culturali era diversa da quella di Trotckij perché diversa era la sua concezione politica dei ritmi di sviluppo della rivoluzione nazionale e internazionale.” (Vittorio Strada, Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa, ed. Einaudi, Torino 1969, pag, 173). 

[38] . “…l’uomo, che a volte sognava di essere di poco inferiore agli angeli, si è piegato a diventare il servitore e il ministro della natura. Resta da vedere se il medesimo attore può svolgere entrambi i ruoli. Tutto il cambiamento [del diciannovesimo secolo] ha avuto origine dalla nuova cultura scientifica. La scienza, vista non tanto nei suoi principi quanto nei suoi risultati, è chiaramente un magazzino di idee da utilizzare. Se però vogliamo comprendere appieno che cosa accadde nel corso del diciannovesimo secolo, è meglio ricorrere all’analogia della miniera che a quella del magazzino. Sarebbe un grosso errore credere che la pura e semplice idea scientifica fosse già l’invenzione ricercata, e che dovesse essere soltanto prelevata e usata. Tra l’idea e l’invenzione intercorre un intero periodo di preordinato lavoro di immaginazione. Un elemento del nuovo metodo era appunto la scoperta di come intraprendere la trasformazione dell’idea scientifica in prodotto finale. Il processo comportava l’affrontare disciplinatamente una difficoltà dopo l’altra”. (Alfred Whitead, Science and Modern World,1926; it. La scienza e il mondo moderno, ed. Boringhieri, Torino 1979, pag.114 seg.) 

[39] . Ci rendiamo conto che stiamo procedendo dando per conosciute dai compagni categorie e questioni di cui possono non avere cognizione; ma per non alterare oltre il necessario la traccia originaria con troppe ricorrenti delucidazioni, abbiamo preferito affidarle tutte alla riproposizione, nel prossimo almanacco, dell’Appendice ad un testo di René Huyghe (Dialogo con il visibile, ed. Parenti, Milano 1958 p. 417 seg.), che descrive in modo storico e sufficientemente chiaro l’intera parabola dell’evoluzione del pensiero moderno in fatto di arte.   

[40] . «Elie Faure aveva scoperto l’esistenza di uno spirito delle forme, e Focillon era andato oltre; protestando contro “la distinzione convenzionale fra forma e contenuto, specificava che “il contenuto fondamentale della forma è un contenuto formale ”… Più tardi (e questa ricerca è stata fatta soprattutto da studiosi francesi, mentre quella della forma fu propria del pensiero tedesco) si cercò di scoprire la natura dell’opera d’arte studiandone anche il contenuto. Anche qui, fu essenziale l’importanza della prospettiva storica: nacque la nuova scienza dell’iconografia, che non si limitò più a enunciare e a catalogare le caratteristiche di un soggetto, come avevano fatto nell’Ottocento…, ma per merito precipuo di Emile Mâle, indagò le loro fonti, la loro evoluzione e le loro interferenze; e soprattutto, fatto questo assolutamente nuovo, cercò di individuare le ragioni morali della scelta di un tema e del modo di rappresentarlo, scrivendo così, agli albori del Novecento, il primo capitolo di un psicologia dell’arte. All’inizio del suo Art religueux aprés le Concile de Trente, Mâle infatti diceva: “In questo libro non parlerò né della grammatica né dello stile delle arti, ma del loro pensiero”.» - René Huyghe, cit., pag. 425.
– Per il pensiero di Henri Focillon (Digione 1881 - New Haven 1943) vedi qui > allegato il Quinto capitolo del suo Vita delle Forme (1934). 

[41] . Erwin Panofsky, Studi di iconologia, 1939, it. Ed. Einaudi, Torino 2009, pag. 132 seg.

[42] . Idee zeppe di quelle che Engels definisce scempiaggini, e Bordiga fesserie.

[43] . Eric J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia. 1848/1875, 1975, it. Ed. Laterza, Roma-Bari 1979, pag. 357. 

[44] . Karl Marx, Il Capitale,  dalla Prefazione alla prima edizione, 1867;  it. Ed. UTET 1974, De Agostini 2013, pag. 73 seg..

[45] . Pensiamo qui, ad esempio, agli studi di Gorge Simmel sul denaro, Zur Psycologie des Geldes del 1889 e Filosofia del Denaro del 1900; e di quest’ultimo particolarmente al capitolo VI dedicato a Lo stile della vita (ed. it., UTET, Torino 1984, pp. 607 seg.). E’ da notare inoltre, che Simmel scrive la Filosofia del denaro negli anni in cui la pubblicazione del III volume del Capitale (1894) riaccende un vivace dibattito sulla teoria marxiana del valore. 

[46] . Vedi qui la nota 8 nella parte precedente, oppure in almanacco nømade n.19, pag. 63.

[47] . Karl Marx, Il Capitale, Libro III, UTET, cit. pag. 637. Corsivi nostri.

[48] . Karl Marx, Lineamenti…, cit. vol. 1, pag.113.

[49] . Anthony Blunt, Nicolas Poussin (1958), ed. Bollingen Foun-dation, New York 1967, pag 153 (nostra traduzione):  “In alcuni dipinti del 1639, tuttavia, diventa evidente un nuovo tipo di soggetto. La Danza alla musica del Tempo (Dance to the Music of Time) è, secondo Bellori, una sorta di Ruota della fortuna, che mostra i quattro stati – povertà, industria, ricchezza, lusso – attraverso i quali l'uomo passa in una serie eterna di rivoluzioni. Sulla destra. Il tempo suona la melodia su cui si muovono i ballerini e in primo piano siedono due putti, uno tiene una clessidra per simboleggiare il passare del tempo, l'altro che soffia delle bolle per indicare il carattere effimero della ricchezza e della felicità. Il Tempo salva la Verità [dall’Invidia e dalla Discordia] (Time Saving Truth) risale allo stesso periodo della Danza e si ispira ad un tema molto trattato nel XVII secolo...”; ibidem pag. 151: “Altri due dipinti: la Danza alla musica del Tempo nel Wallace Collection (tav.127) e Time Saving Truth from Envy and Discord conosciuti da una copia e una stampa – possono essere tranquil-lamente assegnati all'anno 1639 per la loro stretta somiglianza”.
C'è però anche un terzo elemento che pare completare un trilogismo poussiniano sulla vita humana, il Tempo e la Verità: il dipinto perduto Il Tempo scopre la Verità (tra l'Invidia e la Discordia)... e dunque "poi" la mette in salvo! A
bbiamo copia di questo dipinto, realizzato da Poussin per il cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX, e descritto dal Bellori nel 1672 (cfr. A. Blunt, The Paintings of Nicolas Poussin. A Critical Catalogue, London 1966, n. 123). La copia è opera seicentesca di buona mano, ed è stato proposto (com.or. Girolamo Devanna) il nome del napoletano Andrea de Lione (Napoli 1610-1685), il quale a partire dal 1640 si orienta decisamente verso una pittura caratterizzata da accenti di marcato classicismo neoveneto influenzato soprattutto dalla lezione di Poussin (cfr. A. Spinosa, s.v. de Lione, Andrea, in La pittura in Italia. Il Seicento, a cura di M. Gregori ed E. Schleier, Milano 1989, II, p. 717). Dell'originale poussiniano, datato da Blunt al 1638-1640, è nota anche un'incisione in controparte del XVII secolo ad opera di J. Dughet (G. Wildenstein, Poussin et ses graveurs au XVIIe siècle, Paris 1957, n. 163, fig. 121a) – da confrontare con una stampa del XIX secolo e il Padre Tempo della Bowery Saving degli anni trenta del XX secolo.

[50] . Citato in Storia della tecnologia, vol, 3.2 Il Rinascimento e l’incontro di scienza e tecnica (1957), ed. Bollati Boringhieri, Torino 2013, pag. 726.

[51] . Ruggero Bacone (1214c-1292c), I segreti dell'arte e della natura, in La scienza sperimentale, ed. Rusconi, Milano 1990, p. 217: “I veicoli per la navigazione potrebbero funzionare senza rematori, tanto che i più grandi bastimenti potrebbero essere mossi da un solo uomo al comando… i carri potrebbero essere costruiti in modo da muoversi con incredibile velocità senza l’aiuto di animali … si potrebbero costruire macchine volanti tali che un uomo, seduto all’interno, sia in grado di far girare qualche meccanismo per cui ali artificiali battono l’aria come quelle degli uccelli … potrebbero essere inventate macchine per camminare sul mare e sui fiumi, perfino sul fondo di essi senza pericoli…”

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