L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro comune . 2021
arteideologia raccolta supplementi
made n.20 Giugno 2023
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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pagina
Elementi e complementi . (appunti IIi.3)

Non è dall’oggi al domani che il proletariato ha fatto del marxismo il suo metodo, e attualmente è ben lungi dal servirsene integralmente. Questo metodo serve ora principalmente e quasi esclusivamente a scopi politici. Il largo impiego come metodo di conoscenza e lo sviluppo metodologico del marxismo dialettico appartengono ancora all’avvenire. Soltanto nella società socialista il marxismo cesserà di essere lo strumento unilaterale della lotta politica, per divenire il metodo della creazione scientifica, l’elemento e lo strumento essenziale della cultura spirituale. (Trotsky '23)

...Siamo qui, come attorno ad un bivacco notturno. Alla luce di un fuoco che a sprazzi illumina la radura qualcuno ci intrattiene parlando più o meno di arte. Ma più sul meno riesce a dire, lasciando oltretutto cadere i fili continui del suo discorso. E così, chi paziente l’ascolta si sforza di ravvisare, oltre l’ombra che avvolge il gruppo, la completezza degli argomenti che lui vorrebbe illuminare senza però mai raggiurgerli…
RICOGNIZIONI SUL FORMALISMO 3

La “matrice” stilistica e l’iconologia

Prima di ritirarsi dalla sua scorribanda, la nostra petulante “Weltanschauung personale” avrebbe ancora da dire che nel considerare il disegno della banca newyorkese c’è stato tuttavia qualcosa di trascurato che proprio competeva all’arte e all’iconologia; ed è precisamente la “forma” unitaria con la quale questo disegno cade immediatamente sotto i nostri occhi. Siamo certi cioè che nessuno di noi con qualche familiarità con l’arte figurativa, collocherebbe tale disegno in un’epoca diversa dalla modernità occidentale, pressappoco agli inizi del Novecento. E non sbaglierebbe di molto [1].
Il fatto è che il “tempo” in arte si manifesta nello “stile”, ossia in un sistema di determinate combinazioni e rapporti della materia e delle forme con cui l’immagine è fatta proprio tutta così come appare all’occhio e alla mano prima che alla mente e alla lingua (che non la smette di battere sul contenuto che duole). Lo stile allora sarebbe per così dire la “con-formazione” unitaria del tempo che ha le qualità dell’epoca propria di ognuna delle opere esaminate dall’iconologia. Forma “reale” del tempo (quindi priva di spazio ma non di misura sull’orizzonte temporale) e non simbolo, lo stile segna indelebilmente l’opera particolare e la intride del tempo nel quale è stata prodotta, benché non venga raggiunta dall’iconologia e dall’iconografia.
In un interessante opera di estetica del 1936 del pensatore rumeno Lucian Blaga, introdotta nell’edizione italiana del 1946 da Antonio Banfi, possiamo leggere:

Nell’introduzione di questo studio notavamo che il fenomeno “stile” appare in relazione coi prodotti umani coscienti, ma che lo stile stesso, per molti dei suoi lati anche essenziali, non è, in quanto tale, accompagnato dalla coscienza.
Generalmente i creatori non si rendono conto delle particolarità stilistiche più profonde delle loro opere. Per comprendere meglio il problema dello stile in tutta la sua ampiezza, è necessario, in primo luogo, rendersi conto del seguente doppio aspetto: la matrice stilistica è un complesso subcosciente, ma il suo senso non si esaurisce nel quadro del subcosciente; esso si arrotonda e si compie nella zona della coscienza.
La “matrice stilistica” figura in altre parole, col suo viso nascosto, tra quei momenti e congegni segreti, coi quali “l’inconscio amministra la coscienza” a sua insaputa.
La matrice stilistica, quale la immaginiamo noi, può essere il permanente sostrato di tutti i prodotti dell’intera vita di un individuo; anzi essa si può somigliare fino all’equivalenza, almeno nei suoi fattori essenziali, in diversi individui, in un popolo intero e persino in una parte del genere umano nel medesimo periodo. Solo l’esistenza di una matrice stilistica subcosciente spiega un fatto così importante come la consequenzialità stilistica di certe creazioni.
L’”unità stilistica” si realizza in una purezza spesso miracolosa, specie se si bada all’ambiente psicologico interrotto, incerto, non lineare, caleidoscopico ed agitato, in cui l’unità appare. L’esperienza e i problemi, gli slanci e le perplessità, le passioni e i dubbi, tutta la massa di impulsi casuali e di progetti aleatori delle coscienze individuali darebbero uno spettacolo davvero sconcertante, se al di sotto e al di là di essi non persistesse, come un’armatura, una matrice stilistica: sono le forme della matrice stilistica a determinare la struttura stilistica delle creazioni artistiche, metafisiche, culturali.
Della stabilità di queste forme si può parlare veramente in superlativi. Non mi sembra affatto di esagerare sostenendo che la matrice stilistica, una volta fissata nel subcosciente, sopporta inalterabilmente qualsiasi bombardamento della coscienza.[2]  

Certamente, l’iconografia e l’iconologia non sono la storia dell’arte.
Ma tenere separati forma e contenuto separa l’oggetto prodotto dalle condizioni determinate dal tipo di produzione materiale in cui è stato effettivamente prodotto nel corso incessante del lavoro dell’uomo, storico e preistorico, e la storia dell’arte concepita nel mondo capitalistico non potrà darsi ancora come storia dell’uomo, dato che può intenderla solo moralmente ma non ancora umanamente.
«La semplificazione propria della macchina e il lavoro servono a trasformare in operaio l’uomo in procinto di diventar uomo, l’uomo non ancora interamente ricostituito, il fanciullo, come l’operaio è diventato un fanciullo guastato. La macchina si adatta alla debolezza dell’uomo, per far dello stesso uomo debole una macchina…», scrive il giovane Marx nel 1844 [3]; e tanto vale per fare una storia debole e guasta dell’arte e dell’industria dell’uomo non ancora interamente ricostituito…
Ossia, di un uomo tuttora morale, che quindi moraleggia l’intero arco millenario della storia guastando orizzonte temporale della specie con la morale borghese.
Se poi volete sapere dove trovare gli aspetti che caratterizzano tale moralità, basta proseguire nella lettura della medesima pagina.

Come l’aumento dei bisogni e dei mezzi di soddisfarli generi la mancanza di bisogni e la mancanza di mezzi, questo lo dimostra l’economista (e il capitalista)…
1) quando riduce il bisogno dell’operaio al sostentamento più indispensabile e miserabile della vita fisica, e la sua attività al movimento meccanico più astratto, e però dice: l’uomo non ha alcun bisogno né di attività né di consumo; giacché anche una vita siffatta egli la dichiara vita  esistenza umana;
2) quando calcola come norma, generale, la vita (l’esistenza) la più indigente possibile…
[…]L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi a un tempo scienza della rinuncia, della penuria, del risparmio, e giunge in effetti a risparmiare all’uomo persino il bisogno d’aria pura o di movimento fisico [4].
Questa scienza della mirabile industria è a un tempo scienza di ascesi, e il suo vero ideale è l’avaro ascetico ma usuraio e lo schiavo ascetico ma produttivo. Il suo ideale morale è l’operaio che porta alla cassa di risparmio parte del suo salario, ed essa ha trovato per questa sua idea favorita persino un’arte servile: si è portato tutto questo in modo sentimentale sulle scene.

Così, tra le sentimentali messe in scena potremmo metterci anche il darsela a gambe levate della cassa di risparmio di New York, oppure l’eterno girare dell’uomo nel ballo della vita humana di Nicolas Poussin…    

L’economia è perciò – malgrado il suo aspetto mondano e voluttuario – una scienza reamente morale, la scienza più morale! La volontaria rinuncia, la rinuncia alla vita e a ogni umano bisogno, è il suo assioma capitale.
Meno tu mangi, bevi, compri libri, vai al teatro, al ballo, alla birreria, pensi, ami, teorizzi, canti, dipingi, fai scherma, etc., e più tu risparmi, più grande fai il tuo tesoro, che né tarme né polvere consumano, il tuo capitale.
Meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e più tu hai; più è espropriata la tua vita, più tesaurizzi la tua essenza alienata. Tutto quanto l’economia ti toglie di vita e umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e ciò che tu non puoi lo può il tuo denaro: può mangiare, bere, andare al ballo e al teatro, si intende di arte, di scienza, di curiosità storiche, di potere politico, può viaggiare, può farti possessore di tutto questo, può comprare tutto questo: è la vera potenza.

Lavoro, Ricchezza, Lussuria e Povertà…
Ecco di cosa son fatte queste figure morali che eseguono il loro ballo, inesorabile, regolare come una perfetta orologeria – diciamo, giusto per usare le parole predilette nella stagione barocca della dinamica e rampante borghesia occidentale [5] –; un eterno tormento che non potrebbe esser descritto meglio dal giovane come dal vecchio Marx.
Allora, abbandonata l’arpa idilliaca per brandire la falce della morte, ciò che il Padre Tempo corre di volata a mettere al sicuro nei caveaux del risparmio, sono in definitiva le condizioni stesse che, giorno dopo giorno, mese dopo mese ed anno dopo anno, rinnovano e accrescono la miseria ed il guasto…
«In alcuni dipinti [di Poussin] del 1639, tuttavia, diventa evidente un nuovo tipo di soggetto. La Danza alla musica del Tempo è, secondo Bellori, una sorta di Ruota della Fortuna, che mostra i quattro stati – povertà, industria, ricchezza, lusso – attraverso i quali l'uomo passa in una serie eterna di rivoluzioni» [6] – ci dice l’autorevole Blunt, senza però chiedersi alcunché circa la novità del soggetto.
Abbiamo però provato a chiedercelo noi.
Se allora si tratta di un nuovo sviluppo nell’iconologia del Tempo attraverso la ruota e il carro, la ricchezza e la povertà, l’olimpico e il terreno, la “cronologia” delle vicende humane ci porterebbe in carrozza, dritti dritti, al seguito del Trionfo di Flora [7], ovvero alla più o meno coeva rappresentazione pittorica della prima grande bolla finanziaria del capitalismo nel febbraio del 1637, che realiter precede (e forse doppia) l’immaginazione iconologia della vita dell’huomo poussiniano che trascorre scandita da “una serie eterna di rivoluzioni” – proprio così chiosa l’amico di Poussin, Giovanni Bellori, nel 1672 e ripete Blunt nel 1958.
Allora noi, ricordando che "il capitalismo rivoluziona incessantemente sé stesso”, ora abbiamo una danza della vita humana alla musica del Capitale, appunto: Lavoro, Ricchezza, Lussuria e Povertà…  

Questo esplicito  dipinto  olandese del 1637, posto da noi a pendant  del Poussin del 1639, sembra aprire a ventaglio l’iconologia della Danza alla musica del Tempo e smuovere l’aria viziata dall’allegoria olimpica per riportare la ruota della vita alla terra e alla storia reale delle vicende humane ….
Qui, il carro ovidiano del Tempo non esce dalla dimora del Sole ma da una ricca città olandese (come Haarlem, forse); non lo conduce lo spavaldo Fetonte ma la stagionale Flora; non è trainato da obbedienti destrieri ma dal volubile vento; non provoca una catastrofe cosmica ma una crisi economica; non arde la Terra e gli Etiopi, ma rende sciocchi gli uomini già industriosi che lo seguono.
Come nella Danza di Poussin, vediamo sfilare – piuttosto che danzare in tondo – il Lavoro e la Ricchezza, la Lussuria e la Povertà. Il carro del “trionfo della fioritura”, effettivamente è una barca a vela con ruote, quindi una nave dei folli [8] che porta coloro che la seguono a finire tutti – quali fetonti e icari – alla malora dei flutti.
In questo dipinto allegorico sono presenti persino l’erma bifronte del Giano e i due putti [9] che nel Poussin commentano il Tempo e la vita, ravvisabili fusi nella figura femminile bifronte all’estrema destra: con una faccia rivolta verso sinistra, guarda la scena del trionfo di Flora, e con l’altra, rivolta a destra, guarda (e mostra) le infelici conseguenze della speculazione sui bulbi di tulipano. Altra icona del Tempo che passa è l’orologio meccanico (invece dell’arcadica clessidra), posto sulla barca di Flora, quasi al centro dell’intera scena [10]… scena che non si svolge certo in Arcadia!
Ed ecco allora che anche il quadro del Louvre Et in Arcadia ego, dipinto da Poussin nello stesso periodo della Danza della vita humana, potrebbe rappresentare non più la banale meditazione per cui “la morte è presente anche in Arcadia”… ed anche i pastori muoiono; sarebbe piuttosto una auto-dichiarazione di morte dell’Arcadia fatta dall’Arcadia stessa: … E in Arcadia, anch’io, Arcadia, sono morta [11].

E’ un’ipotesi, questa, che ci sembra adattarsi meglio al pensiero di Poussin e della sua cerchia di amici neostoici dilettanti – come pure adattarsi al tondo dipinto qualche tempo dopo a Parigi per il cardinale Richelieu: Il Tempo salva la Verità dall’Invidia e dalla Menzogna…

Incalzati dalla ricerca del senso, il ventaglio dei significati si amplia se osserviamo che nella Danza, il Tempo che suona la sua musica è una figura seduta, praticamente immobile, contrapposta alle instabili figure humane che si muovono e agitano senza poter andare da nessuna parte … o piuttosto fremono di ballare al ritmo della eco lontana del rullio del carro di Flora che incede tra i fragori di una guerra [12] incessante?

[Nell’ottica stoica] ci sono quattro passioni fondamentali (pathe): piacere e dolore, relativi al presente, e desiderio e paura, che si riferiscono a eventi futuri. Le passioni non sono parti indipendenti dell’anima, come l’istinto o l’emotività in Platone, ma sono manifestazioni dell’unico logos che governa l’anima.
Ricondotte al logos, le passioni vengono identificate come giudizi sviati e gli uomini che si lasciano condizionare dalle passioni vengono dichiarati stolti: le passioni sono, essenzialmente, difetti intellettuali. Lo stolto subisce l’influenza di giudizi errati sul valore delle cose; egli perde la sua stabilità interiore e presenta gli stessi sintomi di chi corre a precipizio.
Galeno cita un testo stoico nel quale la condizione psichica dell’uomo dominato dagli istinti e dalle passioni è paragonata alla condizione fisica del corridore irruente.[13]

Negli anni 30 del secolo XX, ecco che il Padre Tempo della Bowery Saving Bank si mostra proprio come un vecchio dinamico dalla lunga barba che, drappeggiato e armato di una lunga falce sdentata, in piena corsa si guarda alle spalle.
E’ forse un assassino nel panico che fugge brandendo l’arma del delitto, o soltanto la bonaria raffigurazione dell’anno che passa?
Oppure è un irruente stolto che corre tra le bordate del nuovo Sacro Mondiale Impero ad imbarcarsi anche lui sul folle vascello terrestre degli speculatori di Flora?... [14]
Guardalo bene Erwin: sembra proprio spaventato da ciò che vede!

Un Tempo che si raccoglie tutto in un anno solare è più un Tempo da consuntivi bancari che il Tempo delle allegorie idilliache e dei poeti pastorali …
Ma all’iconologo interessano solo i significati contenuti dell’immagine “presentata” separata dallo scopo e dalla particolarità del compito affidato dalla Banca ai pubblicitari; e così non ci ha fatto il favore di fornire altri elementi visivi necessari ad orientare il pubblico verso la giusta interpretazione del messaggio pubblicitario – in mancanza dei quali, però, questa immagine di un vecchio con la falce può facilmente venir fraintesa, ad esempio, come personificazione della Morte, trasformando cioè il carattere del messaggio da augurale in minatorio…
Pur seguendo sempre il filo dell’iconologia/iconografia ma orientati da uno scopo tutto nostro, ci sembra di aver trovato delle nuove connessioni che ci hanno aiutato a far uscire il Tempo dal circolo vizioso dell’autoreferenzialismo… prima di rispedirlo al mittente:
Happy new Year a te, Cassa di Risparmio..!



Servendoci di capolavori di pittura, abbiamo finora cercato di mostrare e di predicare circa il contenuto simbolico di tali eccellenti prodotti sociali sotto l’aspetto del significato e dello scopo (dell’iconologo e del nostro), ma possiamo dire di aver esaurito con ciò tutti gli aspetti del contenuto delle pitture osservate?

Ci siamo occupati nei dettagli del problema del significato e del senso perché il loro rapporto è il rapporto tra i principali “componenti” della struttura interna della coscienza umana; non ne deriva che, pur essendo i principali, essi siano gli unici. Pur semplificando e schematizzando questi complessi rapporti propri della coscienza sviluppata non possiamo tralasciare un altro suo “componente” e precisamente il suo contenuto sensorio . Proprio il contenuto sensorio (la sensazione, la sensitività, le forme di percezione, le rappresentazioni) crea la base e la condizione di ogni coscienza. Esso è una specie di tessuto materiale che conferisce la ricchezza e il carattere estremamente pittoresco alla riflessione cosciente del mondo. Questo contenuto è anche l’immediato nella coscienza, ciò che viene immediatamente formato dalla “trasformazione dell’energia dell’irritazione esterna in fatto della coscienza”. Ma pur essendo il fondamento e la condizione di ogni coscienza, questa sua “componente” [il contenuto sensorio] proprio per questo non esprime tutto ciò che di specifico c’è in essa.[15]

Sembra essere la spiegazione psicologica della “vecchia storia” di Engels, quella per cui “in principio si trascura sempre la forma a favore del contenuto” – e che magari verrà conclusa un secolo dopo con la fortunata formula (duchampiana) di McLuhan: il medium è il massaggio… pardon: “messaggio”…  
Nella coscienza il contenuto sensorio resta sullo sfondo rispetto alle figure dei significati e delle storie. Cosi, durante solitarie o guidate visite al museo, solitamente si guarda il lavoro di pittura per perderlo d’occhio.

[…] Quando, ad esempio, l’uomo legge, gli sembra di avere coscienza allo stesso modo sia delle idee espresse nel libro sia della forma grafica esteriore nelle quali quelle idee sono espresse, cioè il testo [in quanto tale]. In effetti ciò non è del tutto vero; in realtà risultano presentate nella coscienza soltanto le idee, mentre la loro espressione, l’aspetto esteriore del testo può soltanto risultare riconosciuto e questo accade di solito quando ci sono omissioni, errori grossolani, ecc. Tuttavia se il lettore si propone di avere coscienza anche dell’aspetto esteriore del libro e in questo modo si propone non più come scopo il contenuto, ma proprio questo aspetto esteriore, naturalmente egli, in questo caso, ne ha completa coscienza. [16]

Vedremo in seguito cos’altro farcene di questa osservazione.
Ai nostri particolari fini ci sembra per il momento interessante prender nota che l’arte o, ad esempio, la pittura
1) non è la manipolazione figurale di significati simbolici;
2) il suo contenuto sensorio (o, per di intenderci meglio, la materia di cui è fatta la pittura, non il suo sogno) rimane implicito quale presupposto e radice dei significati;
3) solo la variazione e il mutamento, il guasto, l’errore o l’incompletezza nell’esprimersi dei significati, riportano bruscamente alla coscienza primaria le oggettualità sensibili e i processi “lavorativi” svolti (materiali e immateriali) per realizzare l’opera.[17]
Come possiamo descrivere con parole a noi più familiari simili spostamenti di livello? Forse cosi:    

Il filatore tratta il fuso solo come mezzo col quale fila, il lino come oggetto ch’egli fila.
Certo, non si può filare senza materiale da filare e senza fusi; quindi, quando comincia la filatura, la presenza di questi prodotti è presupposta. Ma in questo processo della filatura è indifferente che lino e fusi siano prodotti di lavoro trascorso, quanto è indifferente, nell’atto della nutrizione, che il pane sia il prodotto dei lavori trascorsi del contadino, del mugnaio, del fornaio, ecc.
E viceversa. Quando i mezzi di produzione fanno valere nel processo produttivo il loro carattere di prodotti di lavoro trascorso, ciò avviene per mezzo dei loro difetti. Un coltello che non taglia, refe che si strappa continuamente, fan ricordare vivamente il coltellaio A, il filatore B. Quando il prodotto è riuscito, la mediazione delle sue qualità d’uso per opera di lavoro trascorso è estinta.[18]
C’è dunque, nella semplice immagine di un coltello o in quella complessa di donne che ballano, tutta una realtà concreta inabissata nelle rispettive figure; una realtà che appartiene e compete a l’immagine come l’ombra appartiene al corpo solido ed entrambe alla loro rappresentazione sul fondo del foglio; una realtà che però non giace lì inerte, piuttosto freme di farsi valere alla coscienza dei sensi quando il coltello non taglia, quando la tavola dell’agnello mistico di van Eyck si deforma o quando la vernice nera del quadrato di Kazimir Malevic desquama … in un “cretto” di Alberto Burri! 

Come soltanto in certe condizioni affiorano alla coscienza i presupposti materiali della pittura con tutto il loro “contenuto sensorio”, così avviene che solo in certe condizioni vengono alla coscienza anche le circostanze reali, storiche e sociali, in cui il pittore, ad esempio Poussin, vive e dipinge – e, nel caso, solo quando vediamo strapparsi l’idillio dell’Arcadia con la “novità” di rappresentarvi invece un’umanità attualmente tormentata tra ricchezza e miseria, tra lavoro e lussuria e i significati teatrali (olimpici o pastorali) vacillano e spostano la scena.
La  guerra dei trent’anni, la bolla dei tulipani, e poi la rivoluzione inglese che taglia la testa al re, la rivolta polacca e quella napoletana di Masaniello contro la nobiltà, eccetera, sono anch’esse inabissate nell’inconscio del pittore tra i presupposti concreti della pittura; e lì, ad un loro proprio livello di sfondo, queste informazioni vivono e si agitano per conservarsi e, combinate con tutti gli altri fattori formativi che presiedono all’attività lavorativa, si salvano emergendo alla superficie senza tuttavia mostrarsi esplicitamente al fianco delle figure e dei movimenti simbolici o narrativi visibili nei dipinti eseguiti.
E’ pertanto che indizi e tracce pittoriche della guerra dei trent’anni possono ravvisarsi in diversi dipinti poussiniani.
Questo, ad esempio, sostiene Brand studiando il Paesaggio in tempesta con Piramo e Tisbe (1648 c.), e concludere che «Poussin rappresenta indirettamente la guerra civile, così come Racine e Corneille descrivono la costellazione politica di Versailles e raccontano i problemi del presente attraverso figure tragiche mutuate dall’antichità… Come l’alessandrino bandisce dall’azione fucili e pistole, allo stesso modo il linguaggio figurativo di Poussin rifugge dal realismo banale e sceglie invece di esprimere con suprema raffinatezza significati universali sottratti al tempo»[19].

L’Autore si è premunito di puntellare il ragionamento con un brano tratto da una corrispodance del 1650 di pugno dello stesso Poussin, che dimostrerebbe la vivida attenzione del pittore per le vicende storiche e sociali del suo tempo, nonché il suo atteggiamento nei loro confronti:
«Dall’Inghilterra arrivano notizie assai strane; anche a Napoli ci sono novità. La Polonia è sottosopra, Dio veglia su di noi con la sua grazia, per preservarci dai pericoli; qui stiamo come Dio sa come. E’ un grande piacere, nonostante tutto, vivere in un secolo in cui succedono cose tanto importanti, purché si possa mettersi al riparo in un angolino e assistere tranquillamente alla commedia».[20]….

Poussin si trova il proprio angolino dove mettersi al riparo [21], e sta lì a guardare e dipingere “come Dio sa come”.
Ma gli uomini soltanto in apparenza passano il tempo non sapendo cosa vedono e fanno…
«Per comprendere meglio il problema dello stile in tutta la sua ampiezza – abbiamo già letto in Blaga – è necessario, in primo luogo, rendersi conto del seguente doppio aspetto: la matrice stilistica è un complesso subcosciente, ma il suo senso non si esaurisce nel quadro del subcosciente; esso si arrotonda e si compie nella zona della coscienza»… e da qui dovrà pur negoziare con l’attività concreta della pittura, se l’opera d’arte vuole darsi a vedere.
Sembra che la “matrice stilistica” proposta da Blaga, sia sempre sottratta al controllo operativo e alla volontà dei singoli; così la cultura e l’epoca nelle quali l’oggetto è prodotto, possono anche sgusciare fuori dalla forma e venirci subito incontro con sommarie informazioni circa la propria origine, geografica e temporale [22].

Ora, a noi sembra poter dire che nell’epoca del modernismo occidentale l’appetito di immagini sia stato saziato da una loro sbrigativa riproduzione, meccanica o chimica (oggi, digitale), sviluppando una specifica tendenza formativa che si manifesta più nel lapsus che nella parola, più nel tocco e nel tratto che nella figura, più nella fisiologicità del gesto e della stesura che nel segno, mentre il discorso o la scena procedono più nell’omettere e nel tacere che secondo criteri, temporali o spaziali, di coerenza e completezza. Pertanto anche la figura del Padre Tempo emessa dalla Bowery Saving Bank negli anni ’30 del secolo scorso, può lasciarsi alle spalle molti precedenti orpelli grafici, espedienti raffigurativi e attributi iconici – il più significativo dei quali è il putto bambinello dell’anno nuovo.[23]
Delle classiche figurazioni del Padre Tempo, proposte da Panofsky nel suo studio sullo sviluppo storico dell’iconologia del Tempo-Kronos, rimangono difatti soltanto la senilità, le ali in caricatura di mantello remigante e l’attributo di una falce sbreccata per rappresentare un vignettistico Tempo della grande depressione economica mentre fugge da solo Dio sa dove.
Sono anni di falcidia, di Panico e Sfiducia? Allora... Happy New Year a tutti dalla vostra Cassa di Risparmio e buona fortuna …

Fin qui abbiamo fantasticato anche troppo sui significati dei dipinti osservati senza tuttavia parlare della pittura stessa – la quale, si è detto, non consiste nella manipolazione dei significati e non è fatta per la mente ma per l’occhio [24] – ma sembra non esserci alcun modo per fermare o impedire ad osservatori curiosi le fantasticherie della mente.[25]

La figuratività della pittura e della scultura, rappresentando dei significati-significanti (pensieri poetici, religiosi, didattici e così via), solitamente scandite dalla figura umana, distolgono facilmente l’osservatore dai dati fenomenici [ora diremo dal contenuto sensorio] dell’oggetto artistico, e l’iconologia aveva assorbito totalmente la storiografia della seconda metà dell’Ottocento da ridursi alla ricerca delle fonti letterarie.
C’era dunque stata una tale sopravvalutazione dell’iconografia e soprattutto dell’iconologia nel metodo storiografico che costringe uno storico dell’arte della fine dell’Ottocento ad esprimersi al riguardo: «.Nessun dubbio – scrive Riegl – che il giudizio su un’opera d‘arte non può essere nella sua sostanza sicuro quando non si abbia il contenuto della rappresentazione che ha trovato in essa la sua realizzazione. Nessuno vorrà contestare che così si è posta una base indispensabile per una sicura costruzione, in un domani, di una storia dell’arte, ma ancor meno si potrà negare che se con l’iconografia si è ottenuta una base solida, alla costruzione del vero e proprio edificio si deve giungere solo attraverso la storia dell’arte.»[26]. E per Riegl, particolarmente, questo significava appunto studio dell’oggetto come forma e colore nel piano e nello spazio – e per noi, adesso, può anche significare studio del contenuto sensorio.

Il contenuto iconografico è del tutto diverso da quello artistico; lo scopo (che mira a suscitare determinate rappresentazioni), a cui il primo contenuto serve, è esteriore com’è lo scopo utilitario delle opere dell’industria artistica e architettonica. Il vero scopo dell’arte, invece, è quello che mira unicamente a rappresentare nel contorno e nel colore, nel piano e nello spazio, in modo da suscitare nell’osservatore un catartico compiacimento.[27]     

Questa posizione di Riegl segue quella del purovisibilismo che contrappone una “cultura degli occhi”, propria dell’opera d’arte figurativa, a una cultura della parola, rilevando il pericolo di sottomettere la prima alla seconda se non se ne valorizzi l’autonomia. 
Non ci addentreremo nel merito specifico di questi argomenti; intendevamo soltanto profilare un po’ più concretamente come si è posta negli studi sull’arte la questione del rapporto tra forma e contenuto, e particolarmente del venir meno di tale rapporto e della crisi dell’unitarietà dell’opera d’arte, tradizionalmente intesa come l’espressione resa visiva di un’idea da cercare sempre altrove.[28]
Certamente questa unitarietà di forma e contenuto nell’opera d’arte si presenta come del tutto naturale e non ha bisogno di una spiegazione, tutt’al più di informazione; è invece la separazione della forma dal contenuto e la loro autonomizzazione, ad averne bisogno [29]. Allora potrebbe pure essere semplicistico spiegarla con altre separazioni che si sono attuate pienamente soltanto nell’epoca dello sviluppo del capitalismo, appunto nella seconda metà dell’Ottocento.
Così in questo periodo possiamo anche trovare delle considerazione sui caratteri dello stile di vita spiegate in connessione con le condizioni materiali della produzione [30], tramite nozioni quali la separazione, l’autonomia, la differenziazione ecc., presenti anche nella letteratura artistica di tipo “formalista”.  

Gli oggetti della cultura si sviluppano sempre più nel senso di un mondo che al suo interno è strettamente connesso, ma incide in un numero sempre minore di punti sul soggetto, sulla sua volontà e i suoi sentimenti. Questa connessione viene rafforzata da una certa autonomia di movimento degli oggetti. E’ stato sottolineato che il commerciante, l’artigiano, lo studioso sono oggi molto meno in movimento che non, ad esempio, all’epoca della Riforma. Gli oggetti materiali, come quelli spirituali, si muovono oggi indipendentemente, senza bisogno di persone che li rappresentano o li trasportino. Uomini e cose si sono separati. Il pensiero, lo sforzo, il lavoro, l’abilità, hanno ottenuto, mediante il loro crescente investimento in forme oggettive, in libri e in merci, la possibilità di muoversi autonomamente. Il moderno progresso dei mezzi di trasporto è soltanto la realizzazione o l’espressione di questo fenomeno. Solo mediate la loro mobilità impersonale si compie la differenziazione degli oggetti dall’uomo giungendo a formare una sfera autosufficiente. L’esempio definitivo del carattere meccanico dell’economia moderna è il distributore automatico; in esso la mediazione umana viene esclusa completamente anche dalla vendita al dettaglio, che da sempre era fondata sul rapporto interpersonale; l’equivalente in denaro viene meccanicamente trasformato in merce…[31]

Quando il commercio separa l’ombra dal corpo, il bene d’uso dal valore, la moneta dal capitale, il capitale dal capitalista, il lavoro dalla tecnologia ecc., queste ombre separate trovano proprie leggi a governarle, e sono appunto a questo tipo di leggi che sono interessati i teorici della pura visibilità o del “formalismo” in arte.
Sembrerebbe cioè che anche le forme dell’arte precedenti la produzione capitalistica subiscono gli effetti di quel processo storico che è consistito – scrive Marx nei Grundrisse a proposito del rapporto tra capitale e lavoro – nella separazione di elementi tradizionalmente uniti, il cui risultato non è la scomparsa di uno degli elementi, ma la comparsa di ciascuno di questi in una relazione (potenzialmente) negativa di ognuno con l’altro; e che la separazione delle condizioni oggettive al polo degli “artisti”, che sono stati trasformati in lavoratori liberi, deve presentarsi altresì come una autonomizzazione di queste stesse condizioni al polo opposto del prodotto artistico.[32]
E’ una separazione che sembra rispecchiarsi in due formulazioni emblematiche per tutto l’Ottocento: il “Raffaello senza mani” di Kant e la “storia dell’arte senza artisti” di Wöllflin.

La peinture est plus fort que moi, elle me fait faire ce qu’elle veut.
P. Picasso (in un quaderno del 27 marzo 1963)[33]

 Le chiacchiere e i fatti

Proprio in uno dei primi scritti di un rappresentante del formalismo russo troviamo una gustosa fotografia del modo più comune – tuttora diffuso – di fare storia dell’arte, e di come sia “un lavoro talmente facile e remunerativo parlare della vita e delle epoche storiche partendo da testi letterari”.
« Fino a non molto tempo fa – scrive Roman Jakobson nel 1921 – la storia dell’arte, e della letteratura in particolare, non costituiva una scienza ma una causerie [chiacchierata]. E della causerie rispettava tutte le leggi. Passava allegramente da un tema all’altro, dall’effusione lirica circa l’eleganza della forma agli aneddoti attinti dalla vita dell’artista, dai truismi psicologici ai problemi relativi al contenuto filosofico e all’ambiente sociale dell’opera… La causerie  non ha una terminologia precisa. Al contrario, la varietà dei termini, i termini equivoci che offrono il pretesto a continui giochi di parole, sono qualità che le recano fascino. In tal modo la storia dell’arte non conosceva terminologia scientifica, utilizzava parole del linguaggio corrente senza passarle al vaglio della critica, senza delimitarle con esattezza, senza tenere conto della loro polisemia »[34]. Ottenuta così l’immagine che intendevamo offrire di una storiografia ordinaria, non entriamo nei dettagli della successiva rapida disamina sul “realismo” – anche se l’autore prosegue con argomenti altrettanto gustosi [35] e commenti illuminanti su diverse modalità di “realismo” in arte, come, ad esempio: «.Nell’arte l’esagerazione è inevitabile, ha scritto Dostoevskij; per mettere in luce l’oggetto è necessario deformarne l’apparenza, bisogna colorarlo come si fa con i preparati per esaminarli al microscopio. Se l’oggetto apparirà colorato in modo nuovo sarete indotti a pensare che esso è divenuto più sensibile, meglio visibile, più reale »[36]
Preferiamo invece segnalare alcune idee che appartengono ad una fase più matura del movimento dei formalisti russi, riprese più tardi dallo strutturalismo, in cui Tynjanov e Jakobson danno una forma più generale alle loro tesi “rifacendosi al principio, divenuto poi ben noto, dell’analogia tra linguaggio e altre forme di attività sociale”[37].

1. I problemi immediati della scienza russa della letteratura e del linguaggio esigono di essere posti su una piattaforma teorica ben precisa e di essere separati decisamente dai sempre più frequenti accozzamenti meccanici della nuova metodologia coi vecchi metodi isteriliti, dall’introduzione di contrabbando dello psicologismo ingenuo e di tutto il restante vecchiume metodologico avvolto in una nuova terminologia.
E’ necessario separarsi dall’eclettismo accademico, dal “formalismo” scolastico che sostituisce l’analisi con la terminologia e la catalogazione dei fenomeni e la reiterata trasformazione della scienza della letteratura e del linguaggio da scienza sistematica in una serie di generi episodici e aneddotici.
2. La storia della letteratura [o dell’arte], che è legata alle altre serie storiche, è caratterizzata, al pari di ogni altra serie, da un complesso insieme di leggi specifiche strutturali. Se queste leggi non vengono messe in chiaro, è impossibile stabilire scientificamente la correlazione tra la serie letterari e le altre serie storiche.
3. L’evoluzione della letteratura non può essere compresa se il problema evolutivo è schermato dai problemi della genesi episodica, extrasistematica sia letteraria (i cosiddetti influssi letterari) sia extraletteraria. Il materiale utilizzato dalla letteratura, sia letterario sia extraletterario, può essere introdotto nel dominio della ricerca scientifica soltanto se lo si considera da un punto di vista funzionale.[38]

Il punto 1 può anche venir precisato meglio dal curatore nella introduzione all’antologia. Scrive Todorov:

Un altro principio che troviamo adottato dai formalisti fin dall’origine, è quello di porre al centro delle loro preoccupazioni l’opera: essi rifiutano i mezzi psicologici, filosofici o sociologici, che stanno alla base della critica letteraria russa del tempo. Proprio per questo i formalisti si distinguono particolarmente dai loro predecessori: non si può spiegare l’opera partendo dai dati biografici dello scrittore e neppure dall’analisi della vita sociale che gli fu contemporanea. In questo primo stadio le idee concepite dai formalisti sono in realtà largamente condivise; pressoché ovunque nell’Europa di quegli anni si va formando una problematica che ha analogie precise con il formalismo.[39]

Si rende chiaro che in un primo momento per il “formalismo” è di particolare importanza la concezione dell’arte come procedimento che, rifiutando ogni misticismo che occulterebbe l’atto creativo e l’opera stessa, si sforza di spiegare in termini tecnici come questa venga materialmente prodotta. «Il concetto di “fabbricazione” – scrive Todorov – verrà ancor più ribadito quando, dopo il ’17, lo spirito costruttivista si diffonde in tutta la cultura sovietica. Ma solo più tardi i formalisti trarranno le conclusioni teoriche dei loro principi positivistici».
Vediamo difatti che la “correlazione” che Tynjanov e Jakobson auspicano al punto 2 nel loro articolo del ’28, esprimeva chiaramente l’esigenza di stabilire correlazioni (mediatrice la linguistica) con “le altre serie storiche” – come abbiamo visto esser stata l’antropologia per Kubler, o la sociologia per Baxandall o Hauser. E i frutti per noi più succosi di questo movimento possiamo coglierli anche mezzo secolo dopo, proprio nell’esposizione di un’arte che procede con comparazioni e confronti dei fatti non più con le idee (la causerie con materiali letterari, teologici, cabalistici, mitologici ecc.) ma con un altro fatto – e, nel caso, con fatti cocciutamente concreti, come ad esempio i materiali rapporti sociali regolati dal valore di scambio.

Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Abbiamo da un lato il pittore che faceva il quadro, o per lo meno sovrintendeva alla sua esecuzione, dall’altro qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione e, una volta pronto, decideva il che modo usarlo. Entrambe le parti lavoravano all’interno di istituzioni e convenzioni – commerciali, religiose, percettive, sociali in senso più lato – che erano diverse dalle nostre e influivano sulle forme dell’opera che l’artista e il committente creavano insieme.

Colui che ordinava il dipinto, pagava e stabiliva quale uso farne potrebbe essere definito il “mecenate”, salvo che questo termine ha in sé molte connotazioni legate ad altre situazioni abbastanza diverse. Questa seconda parte in causa nella transazione che ha per risultato il dipinto, è un agente attivo, determinante e non necessariamente benevolo: possiamo quindi senz’altro chiamarlo il “cliente”. Nel XV secolo la pittura di migliore qualità era fatta su commissione ed il cliente ordinava un prodotto specificandone le caratteristiche. Le opere già pronte si limitavano a oggetti quali Madonne di tipo ordinario e cassoni nuziali dipinti dagli artisti meno richiesti in periodo di scarso lavoro; le pale d’altare e gli affreschi, che ci interessano maggiormente, venivano invece eseguiti su commissione e sia il cliente che l’artista stipulavano di comune accordo un contratto legale in cui quest’ultimo si impegnava a consegnare quanto il primo, in modo più o meno dettagliato, aveva concepito e progettato.
[…] Allora come oggi il cliente pagava per il lavoro, ma investiva il suo denaro secondo l’ottica del Quattrocento e ciò poteva quindi influire sul carattere dei dipinti. Il rapporto che sta alla base del dipinto era, fra l’altro, un rapporto commerciale e alcune consuetudini economiche dell’epoca si ritrovano abbastanza concretamente nei dipinti [40]. Nella storia dell’arte il denaro ha una grande importanza. Esso agisce sul dipinto non solo in quanto c’è chi intende investire denaro in un’opera, ma anche per quanto riguarda i particolari criteri di spesa. Un cliente come Borso d’Este, duca di Ferrara, che ritiene di dover pagare i dipinti a piede quadrato – per gli affreschi di Palazzo Schifanoia la tariffa pagata da Borso era “dece bolognini del pede” – finirà per ottenere un diverso tipo di dipinto rispetto a quello di un committente più raffinato come il mercante fiorentino Giovanni de’ Bardi che paga il pittore in base ai materiali usati e al tempo impiegato. I criteri adottati nel Quattrocento per stabilire il prezzo dei manufatti, così come le diverse forme di pagamento in uso per maestri e prestatori d’opera, hanno entrambi una profonda incidenza sullo stile del dipinti come li vediamo noi oggi: i dipinti infatti sono, fra l’altro, dei fossili della vita economica[41]    

«Formalismo – scrive Todorov nel 1964 – fu il termine con cui venne designata, nell’accezione peggiorativa che gli attribuivano i suoi avversari, la corrente critico-letteraria affermatasi in Russia tra il 1915 e il 1930. La dottrina formalista è all’origine della linguistica strutturale, o, almeno del suo indirizzo rappresentato dal Circolo linguistico di Praga [42]. Oggi in molti settori di ricerca si manifestano le conseguenze metodologiche dello strutturalismo. E’ accaduto così che le idee dei formalisti siano presenti nel pensiero scientifico più recente… Curiosamente [ma non è per niente casuale], il movimento ebbe agli inizi legami profondi con l’avanguardia artistica, il futurismo.
Questo poteva offrire gli slogans dei propri poeti (Chlebnikov, Majakovskij, Krucënych), e in cambio riceveva a piene mani analisi e giustificazioni. Questa parentela lega direttamente il formalismo all’arte odierna: attraverso gli anni e con la più varia gamma di denominazioni, l’ideologia delle avanguardie sembra essere rimasta abbastanza stabile».
La difesa da parte del “formalismo” (da noi usato in un senso più ampio possibile) dell’autonomia della sovrastruttura “arte” è ormai consolidata e certamente la mette al riparo dalla polemica con tutte le altre forme di riduzionismo, sociologico, ideologico o psicologico che sia; ma questa autonomia oltre che reale è anche relativa, ossia esposta alle interferenze con le altre serie storiche, sociologiche, economiche, ecc..  

Il problema in questi casi (es. per chi studia la moda nel vestire) è proprio di capire quali delle ricorrenze o regolarità empiricamente osservabili sono da far risalire a qualità intrinseche e specifiche della sovrastruttura e quali invece siano dovute, per così dire, ad effetti di “sostrato”.[43]

Possiamo dire, in altre parole, che l’autonomizzarsi della “forma” dell’opera d’arte costringe (o aiuta) le altre serie di “forme” storiche a definire con principi scientifici l’oggetto delle proprie analisi specifiche. Non si tratta di rispondere che cosa è ontologicamente e cosa significa teleologicamente l’arte in generale, ma come è, come cresce e in che modo varia “fisicamente”, formalmente. Non si aspettano cioè risposte ultime sulla natura delle cose, semplicemente le si studia nelle loro concatenazioni materiali più significative per l’uomo, cercando di portare avanti un sennato piano di sottoproduzione delle fesserie [44].
E non vogliamo incrementare con una ulteriore fesseria (che tra l’altro solleva Trotsky dagli imbarazzi adolescenziali in cui ci avevano messo i suoi interventi sulla scuola “formalista”) se oggi proviamo cautamente a dire che egli sapeva precisamente ciò che, in quella determinata fase e area geografica, la “rivoluzione proletria” di allora voleva e doveva ottenere, sia da parte degli ufficiali dell’esercito zarista [45] come da parte dei poeti; e solo questo era ciò e quanto Trotsky richiedeva [46], mettendo tuttavia in salvo i più avanzati sviluppi artistici per il futuro della società comunistica:

«…durante la dittatura proletaria non si può parlare seriamente di una nuova cultura, vasto compito di portata storica, ma lo sviluppo culturale incomparabile, senza precedenti nella storia, che si verificherà quando la morsa ferrea della dittatura cesserà di essere una necessità storica, non avrà più un carattere di classe. Si può quindi concludere che non esiste e non esisterà una cultura proletaria. E non c’è davvero ragione di rammaricarsene: il proletariato si impadronisce del potere allo scopo di farla finita una volta per sempre con tutte le culture di classe e di aprire la via a un cultura dell’umanità. Questo, troppe volte, lo dimentichiamo.».[47]

Ma soprattutto di un’altra cosa ci si dimentica quasi totalmente; ed è che per procedere nel suo cammino la rivoluzione non ha alcun bisogno della volontà degli uomini e dunque non si ferma mai e mai arretra sulla freccia del tempo che punta al futuro.
Tuttavia, se – per dirla con Trotsky – nel cambiamento di fase rivoluzionario il marxismo viene interamente assorbito dal pratico compito “politico”, possiamo supporre che i periodi di transizione di fase possono concedere un tempo all’esercizio teorico di cercare possibili e attuali connessioni concrete anche tra pensiero marxista e sovrastrutture sociali…
Questa sommessa ipotesi non è un espediente retorico per consentirci di proseguire con l’esposizione del nostro argomento, ma lo collega direttamente alla nota indicazione nei Grundrisse per cui
«…nell’ambito della società borghese fondata sul valore di scambio si generano sia rapporti di produzione che commerciali, i quali sono altrettante mine per farla saltare. Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può essere mai fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi. D'altra parte se noi non trovassimo già occultate nella società, così com'è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi.» [48].
L’intero lavoro di Marx crediamo proprio dover molto a questa considerazione [49], e del Capitale essa svela il senso ed il verso; che non consiste in una disamina descrittiva dell’attuale ordine delle cose economiche ma essenzialmente nello studio di come queste cose economiche sono costrette a rivoluzionare sempre più sé stesse fino al deflagrare assieme alla forma sociale che non riesce più a contenerle, ed è essenzialmente uno studio scientifico del comunismo per il comunismo, cioè della forma di produzione successiva all’attuale, capitalistica. 
Così anche noi, che ci stiamo interessando appunto delle forme (dell’arte), tanto più siamo interessati a cercare, nell’ambito dell’attuale nebulosa sociale i sintomi antitetici emergenti da quelle forme (anche dell’arte) già pronte a superare (negare) sé stesse per il futuro: lo vogliano o no [50]. Perché sia chiaro – e se l’abbiamo già detto non è inutile ripeterlo – che a noi non importa prediligere o deprecare nessuna particolare “forma”, materiale o immateriale, delle società classiste del passato e dell’attuale, dato che sono tutte destinate a dissolversi. Possiamo cioè pure rimanere impassibili, non però indifferenti a conoscere e comprendere tutte le “forme”, materiali e immateriali, in quanto prodotte nel corso del tempo che riunisce in un unico arco storico il lavoro dell’uomo futuro con quello del suo passato più remoto. E’ da tali superate forme della conoscenza che ci provengono lezioni per mantener sgombro il cammino delle forze sociali.

Il tempo è un criterio insieme quantitativo e qualitativo che può essere oggetto di scienza esatta. Esso diviene per l'uomo sempre più ricco e più denso. Questa densità, oltre che denominatore comune a capitalismo e comunismo, laddove il primo è la base economica del secondo, costituisce anche la loro differenza specifica. Il tempo ha infatti nei due casi un contenuto opposto: reificato dal capitate, vivificato e umanizzato dal comunismo, in quanto il primo succhia dal tempo vivo operaio tutta la forza e la potenza delle macchine per produrre derrate oggettivate morte, mentre il secondo mette a disposizione dell'uomo attivo o produttore tutta la scienza, l'esperienza e le abilità accumulate dalle passate generazioni. La società comunista sviluppa la forza produttiva e creatrice dell'uomo, il quale si appropria tutte le conquiste rendendole viventi in sé. E' un processo di palingenesi, di fecondazione dell'intera Natura ad opera dell'uomo, è la famosa "umanizzazione della natura", di cui Marx parla nei Manoscritti del 1844.[51]

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[1] . Basterebbe scorrere le immagini che sono servite a Panofsky per rendersi conto che il disegno da cui è partito il suo studio sui simboli del Tempo appartiene ad un’epoca, più vicina a noi, che ha liberato la linea e il piano assecondando una tendenza formativa volta a rendere elementari gli elementi della figurazione.

[2] . Lucian Blaga, Orizzonte e stile, Alessando Minuziano editore, Milano 1946, pgg. 220-222.

[3] . Marx, il terzo manoscritto del 1844, in Opere filosofiche giovanili, ed. Riuniti, Roma 1969, pag. 238.

[4] . Ciò che allora valeva soltanto per il proletariato urbano dei distretti industriali di metà ottocento vale oggi per l’intera umanità del pianeta.

[5] . “Con l’arte barocca all’antica fuga dal mondo subentra un atteggiamento di consenso verso la vita: si tratta anzitutto di un sintomo della stanchezza, che sopravviene dopo le lunghe guerre di religione, e della disposizione al compromesso che succede all’intransigenza confessionale del periodo tridentino. La Chiesa cessa di lottare contro le esigenze della realtà storica e cerca di adattarvisi come può. Essa si fa sempre più tollerante verso i fedeli, sebbene continui a perseguitare implacabilmente gli ‘eretici’. Ai suoi seguaci concede tutte le libertà; non solo permette, ma incoraggia l’attenzione alle cose del mondo, legittimando il gusto degli interessi e dei piaceri mondani. Quasi dappertutto essa diventa Chiesa nazionale e strumento dello stato, il che implica senz’altro una larga subordinazione dei fini religiosi agli interessi politici. […] In ogni caso l’industrioso borghese cominciò ad organizzare la sua vita secondo criteri razionali prima dell’aristocratico, che si faceva forte dei suoi privilegi. E la chiarezza, la semplicità, la concisione dell’arte classicheggiante piacquero al pubblico borghese prima che ai circoli aristocratici. Questi erano ancora dominati dal gusto romanzesco, tronfio. Capriccioso e stravagante dell’arte spagnola, quando già la borghesia si entusiasmava per la lucida regolarità di Poussin. […] A poco a poco la corte passò dal sensualismo barocco al classicismo; come l’aristocrazia, nonostante la sua avversione per tutto quello che era interesse e calcolo, assimilò il razionalismo dell’economia borghese. Entrambi, classicismo e razionalismo corrispondevano alla corrente storica del progresso: prima o poi furono accettati da tutti i ceti sociali.” (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, ed. Einaudi, Torino 1955, pgg. 470 e 486)

[6] . Anthony Blunt, Nicolas Poussin (1958), ed. Bollingen Foundation, New York 1967, pag 153 e pag. 151.

[7] . Hendrik Pot, Flora’s Malle-wagen (1637), olio su tavola, cm 61x83, Frans Hals Museum, Haarlem. Allegoria della mania dei tulipani. Flora, la dea dei fiori, siede a poppa su una barca montata su ruote con tre uomini - che bevono e pesano denaro - e due donne, una delle quali ha la testa di Giano. I tessitori di Haarlem hanno gettato via i loro attrezzi per tessere e seguono il carro. Sullo sfondo è visibile il destino del carro: scomparirà in mare.

[8] . La nave dei folli è un motivo dell'arte e della letteratura satirica medievale, che ha radici reali nell’usanza di allontanare i "matti" dalla comunità dei "normali" affidandoli a gente di mare, frequente soprattutto nella Germania (cfr. il primo capitolo della, Storia della follia nell’età classica  di Michel Foucault, dall’eloquente titolo: Stulturia Navis). Il carro del “trionfo di Flora” è in effetti una barca a vela con ruote. 

[9] . Descrittti da Blunt (cit.): “uno tiene una clessidra per simboleggiare il passare del tempo, l'altro che soffia delle bolle per indicare il carattere effimero della ricchezza e della felicità” (…o l’efimero valore economico e la bellezza del tulipano olandese?).

[10] . Il dipinto allegorico di Hendrick Pot viene riprodotto nello stesso anno 1637 in una acquaforte da Crispijn van de Passe: Il carro dei folli ovvero il valletto dei fioristi (altro titolo, Il carro dei folli o l'addio degli amanti dei fiori). Arricchita con altri motivi ancora più espliciti, la stampa è accompagnata da un testo e largamente diffusa per dissuadere gli incauti fetonti borghesi dalla speculazione sui bulbi di tulipano ed evitare che finissero smerdati dalle scariche putride di una scimmia, incontinente come loro… ­– Le scimmie saranno ben presto le uniche protagoniste di almeno due dipinti di Jan Brueghel il Giovane, nei quali scimmie in abiti olandesi contemporanei del XVII secolo animano paesaggi e interni con gustose scenenette in cui sono tutti affaccendati con tulipani e bulbi. Il pittore fiammingo non solo ridicolizza gli speculatori di tulipani raffigurandoli come scimmie senza cervello, ma mostra la follia di speculare in una cosa così transitoria come una semplice fioritura.

[11] . “Ego” sarebbe rafforzativo e confermativo di Arcadia, come in Duchamp il même di La mariée mise à nu par ses célibataires, même? – Che 50 anni dopo (1690) 

[12] . La guerra dei trent'anni dilaniò l'Europa centrale tra il 1618 e il 1648, e fu una delle guerre più lunghe e distruttive della storia europea. Iniziata come una guerra tra gli Stati protestanti e quelli cattolici nel frammentato Sacro Romano Impero, progressivamente si sviluppò in un conflitto più generale che coinvolse la maggior parte delle grandi potenze europee, perdendo sempre di più la connotazione religiosa e inquadrandosi meglio nella continuazione della rivalità franco-asburgica per l'egemonia sulla scena europea.

[13] . Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura . Da Giorgione a Magritte (2000), it. Ed. Paravia Bruno Mondadori, Milano 2003, pag. 240.

[14] . La Grande depressione (detta anche Grande crisi o Crollo di Wall Street) fu una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale alla fine degli anni venti, con forti ripercussioni anche durante i primi anni del decennio successivo. Ebbe origine da contraddizioni simili a quelle che avevano portato alla crisi economica (il panico) del 1873-1895, iniziando negli Stati Uniti d'America e portando al definitivo crollo (crack) della borsa di New York del 24 ottobre 1929 (giovedì nero) dopo anni di boom azionario. Le conseguenze sociali di questa crisi investirono tutti i paesi capitalistici e nel complesso, nonostante un accenno di ripresa a partire dal 1933, la crisi non fu mai completamente superata fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

[15] . Aleksej Nicolavic Leontjev, Saggio sullo sviluppo psichico (c. 1948), it. in Problemi dello sviluppo psichico, Editori Riuniti con Edizioni Mir, Roma 1976, pag. 249.

[16] . Leontjev, ibidem, pag. 255.

[17] . Leontjev, ibidem, pag 254: Le ricerche contemporanee dimostrano che qualunque attività, sotto l’aspetto fisiologico, appare come un sistema funzionale dinamico, guidato da segnali complessi e multiformi che giungono sia dall’ambiente esterno che dallo stesso organismo. Questi segnali che raggiungono i diversi centri nervosi intercollegati e in particolare quelli propriocettivi, vengono sintetizzati. La partecipazione di questi o di quei centri nervosi caratterizza la struttura dell’attività sotto l’aspetto neurologico. […] L’attività può passare nei vari piani del sistema nervoso e implicare la partecipazione di diversi suoi “livelli”. Questi livelli tuttavia non sono ugualmente importanti. Uno si essi è quello principale mentre gli altri svolgono il ruolo di “sfondo” (“livelli di fondo” secondo la terminologia di N. A. Bernstejn). E‘ da notare, e Bernstejn lo sottolinea in modo particolare, che si ha sempre coscienza dei segnali sensori di livello più elevato, dei segnali principali. Questo contenuto cosciente governa l’attività, la cui struttura può essere diversa. Il livello più elevato è determinato da ciò che N. A. Bernstejn chiama compito e cioè, secondo la nostra terminologia, lo scopo (noi chiamiamo compito qualcosa di diverso: lo scopo dato in determinate condizioni).

[18] . Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1970, Vol. I, sez. Terza, cap. Quinto, pag. 201.

[19] . R. Brandt, Filosofia nella pittura, cit.,  p. 247.

[20] . Ibidem, pag. 246.

[21] . … come nella Danza il Tempo che suona l’arpa?

[22] . Magari su ciò può anche mentire, ma solo per un po’, difficilmente per sempre.

[23] . E’ all’incirca per tutto questo che il Father Time della Bowery Saving Bank – come abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo – può apparirci subito come un’iconografia recente, troppo distanziata, cronologicamente e culturalmente, dagli altri elementi della serie di immagini proposta da Panofsky, che si ferma alla metà del 600 con Poussin. Distanziata di quasi tre secoli, con di mezzo la rivoluzione industrale, per non sospettarla un mero pretesto per volgere l’attenzione al passato distogliendola da quanto questa figura potrebbe dire di significativo degli anni della grande depressione. E non è escluso che sia stata proprio questa reticenza verso quell’epoca di crisi mondiale a stimolare la nostra curiosità.

[24] . (N.d.Lavoro) - E’ probabile che se il quadro stesso, inteso come “figura” unitaria, fosse studiato integralmente in relazione con intere serie di quadri – anch’essi presi come figure unitarie derivate da un unico processo lavorativo –, si potrebbero forse spiegare meglio anche le particolari ragioni delle diversità culturali, del configurarsi ed evolversi degli stili, dell’insorgere di novità nei soggetti rappresentati, e anche delle peculiari personanze esecutive che rendono possibile attribuire il dipinto ad un determinato artefice, eccetera.

[25] . Una volta trovati affiancati la Danza di Poussin e il disegno del Padre Tempo della Banca americana, la nostra attenzione si è spostata sulle rispettive circostanze storiche in cui i due lavori erano stati eseguiti  (1639 e 1930circa) e, con il tramite di un dipinto olandese dello stesso periodo della Danza, abbiamo rintracciato una serie di informazioni comuni alle tre opere osservate che ci hanno permesso di svolgere enunciati, più o meno coerenti  – ed è proprio nel notare degli isomorfismi (forme che conservano l’informazione) tra le cose, quello che induce e crea i significati. (Cfr. l’isomorfismo come radice del significato in Ofstadter, cit., part. pgg. 54-58, 290, 365)

[26] . Aloys Riegl, Industria artistica tardoromana (1901), ed. Sansoni, Firenze 1953, p. 5.

[27] . Ibidem, p. 212.

[28] . (N.d.Lavoro) … L’oggettività concreta dei quadri e della pittura, arretra sullo sfondo della consapevolezza delle figure significative [significazioni significanti (significations signifiants)]… Il venir meno dei significati rende visibile alla coscienza il contenuto sensorio  (con il degrado dei monumenti pubblici, in Riegl o con il guasto grafico – in molti disegni di Escher l’inganno proiettivo riconduce sempre le figure alla superficie piana dalla quale ripartire – rispetto alla costanza del fondo i significati sono figure transitorie ch’eppur si muovono (?).  

[29] . Cfr. Marx, Lineamenti… (1857-58), cit., vol. 2, pag. 114 seg.: “Le condizioni originarie della produzione […] non possono essere originariamente prodotte esse stesse – essere cioè risultati della produzione. Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per consegueza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale”.  

[30] . Così, ad esempio, Simmel, riguardo il rapporto tra valore e denaro > vedi qui voce Analogia : il valore estetico (cit. pp. 112-116).

[31] . Georg Simmel, Filosofia del denaro, cit., pag. 649 sg. Egli addirittura spiega la base su cui poggerebbe il pensiero socialista: “Il fatto che la grande industria alimenti il pensiero socialista non si basa soltanto sulla situazione dei lavoratori, ma anche sulla natura oggettiva dei prodotti: l’uomo moderno è circondato soltanto da cose così impersonali che l’idea di un ordine di vita fondamentalmente anti-individuale  deve risultargli sempre più familiare, come del resto può sorgere l’idea di un’opposizione a questo ordine.”

[32] . Parafrasi da Marx, Lineamenti…, cit. pag. 133: “Il processo storico è consistito nella separazione degli elementi tradizionalmente uniti – il suo risultatato non è pertanto la scomparsa di uno degli elementi, ma la comparsa di ciascuno di questi in una relazione negativa con l’altro – il lavoratore libero (potenzialmente) da una parte, il capitale (potenzialmente) dall’altra. La separazione delle condizioni oggettive al popolo delle classi che sono state trasformate in lavoratori liberi deve presentarsi altresì come una autonomizzazione di queste stesse condizioni al polo opposto”.

[33] . Dal catalogo della mostra Hommage a Pablo Picasso, Grand Palais e Petit Palais, Parigi novembre 1966–febbraio 1967, ed. Ministère des Affaires Culturelle, Paris 1966.

[34] . Roman Jakobson, Il realismo nell’arte (1921), it. in I formalisti russi, cit., pag. 99. Il testo, inizialmente pubblicato in lingua ceca e ucraina – informa Todorov – non ha avuto molta importanza nell’evoluzione del pensiero formalista, dato che solo nel 1962 è comparso il testo originale in lingua russa; presenta comunque le posizioni iniziali che l’autore svilupperà in seguito per la poesia russa contemporanea.

[35] . Ibidem pag.105: “Si può proporre ad un bambino questo problema: ‘Un uccello è fuggito dalla gabbia. La distanza tra la gabbia e il bosco è questa, quanto tempo gli sarà necessario per raggiungere il bosco dal momento che viaggia alla velocità di tanti metri al minuto?’. E ci si sentirà chiedere dal bambino: ‘La gabbia di che colore era?’. Il nostro bambino è un tipico rappresentante dei realisti del senso D.”.

[36] . Ibidem, …e prosegue: “Il pittore cubista ha moltiplicato l’oggetto sulla tela, l’ha mostrato da diversi punti di vista, l’ha reso più palpabile. E’ un procedimento pittorico. Ma c’è anche la possibilità di motivare, e di legittimare un tale procedimento all’interno stesso del quadro: per esempio l’oggetto viene ripetuto in quanto esso si riflette in uno specchio. In letteratura avviene esattamente la medesima cosa. L’aringa è verde perché così è stata dipinta: l’epiteto sbalorditivo ha preso sostanza, il tropo si trasforma in motivo epico”.

[37] . Ibidem, pag. 23. Tzevetan Todorov, Introduzione.

[38] . Jurij Tynjanov e Roman Jakobson, Problemi di studio della letteratura e del linguaggio (“Novi Lef” n.12, 1928); it. in I formalisti russi, a cura di Tzvetan Todorov, Einaudi, Torino 1968, pag. 147. 

[39] . Todorov, I formalisti russi, cit., pag. 14.

[40] . Consuetudini economiche e mercantili rintracciabili, ad esempio per le figure umane o geometriche nello studio delle proporzioni, per i colori nella  quantità e qualità dell’oltremare (lapislazzuli) o dell’oro…

[41] . Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento (1972), it. Einaudi, Torino 1978 e 2001, pgg. 3,4 (corsivi nostri). Lo storico esamina qui contratti, lettere, registrazioni contabili e mostra come il modo di guardare di una società si riflette negli stili pittorici.  

[42] . Il Circolo linguistico di Praga, noto anche come scuola di Praga, era nella sua forma originale un gruppo di critici letterari e linguisti cechi e russi della prima metà del XX secolo. Il fulcro e il punto in comune dei lavori del circolo fu l'elaborazione del concetto di funzione nel linguaggio. Negli anni trenta i suoi componenti, prendendo le mosse dagli studi del ginevrino Ferdinand de Saussure, svilupparono metodi di analisi strutturalista del linguaggio, influenzando i successivi sviluppi della fonologia, della linguistica e della semiotica. Fondato nel 1926 dal linguista ceco Vilem Mathesius (presidente del circolo fino alla sua morte, nel 1945), il gruppo era formato da emigrati russi come Roman Jakobson, Nikolaj Trubeckoj, Sergej Karcevskij, il critico letterario René Wellek, l'anglista Bohumil Trnka, lo slavista e boemista Bohuslav Havránek, lo studioso di estetica Jan Mukařovskyý. Ebbe il suo periodo di maggiore attività in quello precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale. I componenti del circolo tennero incontri periodici regolari e pubblicarono i Travaux du cercle linguistique de Prague (trad. it. Lavori del circolo linguistico di Praga). L'opera più significativa associata alla scuola è Fondamenti di fonologia di Nikolaj Trubeckoj (1890-1938), che l'autore terminò poco prima di morire (fonte Wikipedia).

[43] . Previtali, cit. pag. XXI.

[44] . L’espressione (di Bordiga) è in Fiorite primavere del capitale, nell’organo ufficiale del Partito comunista Internazionale Il programma comunista n. 4 del 1953.

[45] . L.T., dal discorso tenuto al Comitato centrale esecutivo del 22 aprile 1918:  “La nuova classe che si è installata al potere è un classe che ha un conto da regolare con il passato. Questo passato, rappresentato da un’armata che oggi non esiste più, ha lascaito in eredità un carto capitale materiale: cannoni, fucili, munizioni, e un certo capitale intellettuale: conoscenze acquisite, esperienza del combattimento, pratiche di gestione, ecc., tutto quello che possedevano gli specialisti in materia militare – generali,  colonnelli della vecchia armata, e che la nuova classe non possedeva. […] …vincere la resistenza della borghesia non è per il proletariato che la metà del suo compito fondamentale: impadronirsi del potere politico. Il lavoro del proletariato che consiste nel distruggere subito i nidi e i focolai della controrivoluzione e gli apparati che, per la loro natura o per inerzia storica, si oppongono alla rivoluzione proletaria, sarà giustificato solamente se la classe operaia, insieme ai contadini poveri, sarà capace, dopo aver preso il potere, di utilizzare i valori materiali dell’epoca precedente e tutto quello che, in senso morale, rappresenta un certo valore, una certa parte del capitale nazionale accumulato. La classe operaia e le masse lavoratrici delle campagne non hanno mai avuto, né potranno trovare immediatamente nel loro ambiente, nuovi colonnelli, nuovi dirigenti tecnici – tutti i teorici del socialismo scientifico l’avevano previsto. Il proletariato è costretto al prendere al suo servizio quelli che hanno servito le altre classi. Questo vale anche per gli specialisti militari.” – L.T., dalla deposizione del 20 giugno all’Alto Tribunale rivoluzionario: “Gli ufficiali hanno ricevuto la loro formazione a spese del popolo. Quelli che hanno servito Nicola Romanov possono servire e servirnno la classe operaia quando glielo ordineranno. Questo non significa affatto che il potere di stato affida a tutti funzioni di comando. No, comanderanno quelli che dimostreranno con il loro comportamento la volontà di obbedire al potere degli operai e dei contadini. Agli altri saranno affidati solo obblighi, senza nessun diritto di comando. I vecchi ufficiali che sono senza impiego sono inclini a predicare il salutare potere della disciplina. Il potere sovietico giudica che è arrivato il momento di sottomettere ad una disciplina severa anche il corpo degli ufficiali oppositori..”. I brani sono in Lev Trotzki, Scritti militari 1. La rivoluzione armata, ed. Feltrinelli, Milano 1971, pag.106 seg. e 143.

[46] . “Il metodo marxista offre la possibilità di valutare le condizioni di sviluppo dell’arte nuova, di seguire i suoi mutamenti e di incoraggiarne i più progressivi con la critica delle varie vie che vengono battute: di più non può fare. L’arte deve percorrere la sua strada con le proprie gambe. I metodi del marxismo non sono i metodi dell’arte. Il partito è la guida del proletariato, ma nn del processo storico. Ci sono dei campi in cui il partito dirige direttamente e imperiosamente. L’arte non è il campo in cui il partito è chiamato a comandare. Esso può e deve proteggere, suscitare e dirigere solo indirettamente. Ce ne sono altri in cui controlla e incoraggia, e certo in cui può solo incoraggiare. Può e deve accordare, condizionatamente, il credito della propria fiducia ai vari raggruppamenti artistici che aspirano sinceramente ad accostarsi alla rivoluzione per incoraggiare le loro produzioni letterarie. Il partito non può,comunque, occupare il posto di un circolo letterario che combatte o fa la concorrenza ad altri circoli letterari. Il partito non può farlo e non lo farà” - Trotsky, La politica del partito nell’arte,  in Letteratura e rivoluzione, URSS 1923; it. 1958 da Letteratura arte libertà, cit., pag. 56.   

[47] . Trotsky, Cultura e arte proletaria, in Letteratura e rivoluzione, URSS 1923; it. 1958 da Letteratura arte libertà, cit., pag. 65, corsivi nostri.

[48] . Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-1858). Ed. La Nuova Italia, Firenze 1971, vol. I. pag. 101.

[49] . Che vorremmo veder sempre posta in esergo al Capitale e all’intero lavoro teorico di Marx e dei comunisti conseguenti.

[50] . …o, se proprio vogliamo dirla come Lenin: interessati a scrutare le convulsioni di quegli involucri (forme materiali e immateriali) che non riescono più a tenere assieme il contenuto e sono già pronti ad esplodere come mine per rilasciare al futuro l’energia che le tormentava.

[51] . Da Le forme di produzione successive nella teoria marxista (1960), Edizioni 19/75, Torino 1980, pag. 263. Vedi nel sito Senza utopia (e nella versione a stampa in nømade n.13-2017, pag. 34), o per Le forme di produzione... ad iniziare dal n.14-2017 e seguenti di nømade.

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