Archivio (comunque indiziario) degli Uffici per l'Immaginazione Preventiva
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LA MONTAGNA DISINCANTATA ovvero l'Immaginazione Preventiva . Redazione di Carmelo Romeo Lillo su delega di Tullio Catalano e Maurizio Benveduti . Comunicazione degli Uffici al Convegno Europeo "Lo spazio per l'Arte, oggi", promosso dalla Galleria d'arte moderna e contemporanea di palazzo Penna a Perugia nel 1983, organizzato da Bruno Corà. Annunciando la chiusura degli "Uffici per l'Immaginazione Preventiva", la nostra comunicazione intendeva rispondere al tema del convegno mettendo in rilievo come il generale clima di pentimenti e ritrattazioni di quegli anni 80 nei confronti di pratiche dell'immaginario non istituzionali e istituzionalizzabili (per come prevalevano nel decennio precedente) andava riducendo gli "spazi" per l'arte ai ghetti museali e agli spazi espositivi la cui gestione avrebbe richiesto sempre più crescenti risorse finanziarie. Per altre considerazioni sull'immaginazione preventiva si dovrebbe consultare anche Franco Falasca, presente al Convegno con un suo proprio testo, "L'immaginazione contro il fantasticare".
Per diversi anni i relatori hanno lavorato all’interno di una struttura organizzativa, del tutto flessibile, denominata “Uffici per l’immaginazione preventiva”.
Sebbene la chiusura degli Uffici (ma non dei suoi lavori) sia stata decisa da qualche tempo, cogliamo ora l’occasione per dichiararla ufficialmente, affinché l’immaginazione preventiva possa svilupparsi in quanto tale, libera da ogni limite formale e organizzativo nel quale doveva necessariamente pur raccogliersi in un primo tempo. D’ora in poi si avrà dunque a che fare con un concetto, del quale non risponderanno più gli “uffici” ma le vicende tutte dell’immaginario che se lo ritrova come categoria o tarlo critico; speriamo nó come indice classificatorio o peggio discriminatorio tra “immaginazione preventiva”  e “immaginazione – ad esempio - successiva”.
Diciamo subito, anticipando quanto verrà esposto (anche per smentire preventivamente un luogo comune che ci riguarda) che le problematiche del “politico” che si agitavano negli “uffici” non si maneggiavano per conciliare i due poli dell’arte e della politica, come qualcuno ha inteso; e seppure queste problematiche sono potute apparire come importate nell’immaginario dall’esterno, esse traevano sollecitazione e trovavano ragione in intime necessità dei linguaggi e dell’immaginario, dell’estetica e delle sue prassi. 
Sacrificando la varietà delle questioni sulle quali e dalle quali si è andato formando il concetto di "immaginazione preventiva", ci limiteremo a tratteggiare alcuni dei suoi aspetti più vistosi, insistenti e insistiti: forse (anche) volgari.
Una componente quasi originaria è stata la vocazione “multimediale”, che potremmo definire “storica” in quanto partecipava della situazione generale della fine degli anni sessanta. Multimedialità vuoi derivata da stimoli tecnologici oppure, o insieme, da un contegno reattivo alla “specializzazione” (oggi si preferirebbe “professionalità”). Questo contegno reattivo poteva anche essere stato ingenerato da motivazioni diciamo “ideologiche” o “politiche” che in parte lo sottraevano alle suggestioni meramente sperimentali o più genericamente di clima. Si riteneva che la multimedialità (sia formale, organizzativa, extramediale) potesse rappresentare una direzione praticabile per consentire di svolgere, in arte, alcune considerazioni di ordine ideologico. Particolarmente, ed estremamente riducendo, diciamo che trovava in qualche modo avallo analogico anche nel famoso passo marxiano dell’uomo a un tempo pescatore, poeta, agricoltore, pittore, muratore. Ma correttamente questa multilateralità dell’individuo sociale ha come giusta e unica premessa una società senza classi; che abbia superato cioè anche la divisione sociale del lavoro. Premessa e condizione sine qua non questa visione sarebbe utopica; premessa e condizione che viene trascurata affinché si possa continuare impunemente ad avere a che fare appunto con una utopia (che così ridotta potrà venire facilmente liquidata dalla storia). 
Utopico invece è quanto l’immediatismo e il volontarismo traggono da questa visione, per poter vagheggiare di una società nella quale ancora sussistendo le classi sia possibile, ignorandone l’esistenza, attuare quella sociale multilateralità dell’individuo, magari anche perseguendola con il gradualismo dei piccoli passi. 
Fuori dall’errore immediatista “l’immaginazione preventiva” ha ritenuto necessario almeno tenere ferma l’esigenza di questa multilateralità all’interno del dibattito artistico e nelle sue operatività, come cosa definitivamente acquisita, sebbene, appunto ancora “preventiva” (e non in atto). E anche quando si è stati costretti a ritirarsi su un terreno esclusivamente teorico, non si è rinunciato a porla come tale e a sostenerla. Ignorando questo dato con tutto quello che ne consegue e implica, si ritrova la categoria dell’individualismo, neppure come scelta ma come fatto del tutto naturale, già codificato e svolto. Preventivo è anche non impelagarsi con le illusioni piccolo borghesi sulla Persona.
Vi è stato chi ha inteso tutto questo come “moralismo”, che certamente non ha nulla a che fare con l’arte. Ma con cosa il moralismo ha a che fare se non con sé stesso? Per uscire dal moralismo in arte bisogna invocare anche uno solo degli aspetti che ne costituiscono il nocciolo. Non serve neppure il cinismo, forma laica del moralismo. Dire ad esempio che per la pittura la “fame” e la “morte” sono dei semplici colori è semplicemente non aver capito che si tratta precisamente di quei colori che gli mancano.
La questione dell’individualismo e la nostra posizione nei suoi confronti ci sembra ben riassunta nel passo di una lettera inviata a un critico d’arte: “Vorremmo che almeno a te apparisse ormai chiaro che il nostro insistere anche  su momenti organizzativi di lavoro [in] comune, debba confermarsi come il sintomo di un “disturbo” che si alimenta dal permanere di una ipoteca storicamente determinata e rintracciabile  anche in Mondrian: “Finché l’uomo è dominato dall’individualismo non cerca e non può trovare altro che la propria persona”. Sapendo bene che non si possono battere strade esclusivamente volontaristiche senza trovarsi fuori dai reali processi materiali e dalla comprensione del modificarsi dei rapporti socio-economici, non abbiamo mai teorizzato il lavoro di gruppo e l’anonimato – sebbene questi termini siano stati utilizzati nel vivo delle polemiche contingenti. Dobbiamo allora dire che questo aspetto della nostra attività magari è apparso come una forzatura, mentre in realtà manifestava dell’annidiarsi e del covare di un cruccio squisitamente (ma non “solamente”, quindi “poveramente”) linguistico. Perché l’individualismo e il suo dominare è il limite stesso dell’individuo, e non può evitare di svolgersi come limite linguistico qualora tutto questo si esprimesse in termini artistici. E’ del tutto ovvio che tale questione è presente come una delle componenti (più o meno sotterranee, più o meno chiare) di quanto si è fatto e si va facendo…senza poter con questo essere data come risolta se non quale proposito e nelle forme metaforiche, nella finzione dell’arte. Questione che, come altre, a volte trova per proprio conto il modo di palesarsi, altre volte rimane latente o inespressa, ma mai acquietata”.(Lettera a Filiberto Menna)
Qui è anche espresso il fatto che quanti ponendosi su giuste premesse  lucidamente le mantengono lungo il corso del proprio operare, non potranno incorrere nella delusione  delle sconfitte, perché sanno precisamente quando non si pone ancora la questione di una qualche (immediata o imminente) vittoria, piuttosto si tratta di enucleare, dall’interno dello stato attuale delle cose, un suo nodo problematico, da sciogliere diligentemente o gordianamente risolvere.
Su questo terreno la sconfitta è invece tutta delle illusioni che ognuno si è fatto per proprio conto. Questa sconfitta ben venga, perché restituisce rapidamente il giusto volto agli impazienti.
Dunque l’uso di diversi media connesso a dei modi organizzativo non individualistici è stato ritenuto e perseguito come soluzione a particolari istanze di ordine generale. E soluzione pratica lo era, ma solo per il momento; a condizione di non considerarla definitiva e mantenerla in vita al di là e al di sopra di sviluppi che avrebbero modificato il quadro generale dal quale traeva ragione. Il suo superamento era già preventivato. Con ciò non vogliamo assolutamente dichiarare concluse  o esaurite le problematiche dello sperimentalismo multimediale, perché sappiamo bene che esse permangono e avranno uno nuova fase anche egemonica, in un alternarsi e intrecciarsi con le tendenze contrarie. Neppure bisogna interpretare quanto detto a questo proposito come una ritrattazione. Solo teniamo a chiarire, affinché non si creda che l’immaginazione preventiva possa essere caduta nella trappola sentimentale delle proprie radici o possa tollerare di venire ridotta a quelle forme espressive che, del tutto fortuitamente, si è ritrovata.
Tralasciando la questione della “mercificazione”, un’altra componente di riferimento è stata quella “politica”. Ieri usata per lusingare una certa attività, oggi al contrario per tacitarla. Sempre con la medesima superficialità, allora ed ora.
A tale proposito dobbiamo dire, recuperandola dalle ortiche, che l’esortazione benjaminiana di politicizzare l’arte è stata male intesa quando praticata sia come “politicizzazione dell’artista” (“partiticismo”), sia come “sovrapposizione di temi politici alle prassi estetiche” (ideologismo), sia come “politica sub specie estetica” ovvero “estetica sub specie politica” ("gesuitismo"). Queste formule si avvicinano più alla “estetizzazione della politica” che alla “politicizzazione dell’arte”.
Per “politicizzazione dell’arte” bisogna intendere l’applicazione all’arte (all’estetica) della critica materialista, nei modi dialettici che le sono propri (e tra questi vi sono anche i modi della passione); o anche la pratica dell’arte come critica ai fondamenti estetici dominanti, avendoli riconosciuti in ultima istanza quali riflessi conformi e mutuati dai rapporti sociali materiali attualmente dominanti.
Solo nella misura con la quale il coraggio di questa critica penetra e svela le connessioni che intrecciano la produzione astratta con la produzione materiale, si rende possibile anche per l’arte ritrovarsi sul terreno comune alla gran massa dei produttori per condividerne il medesimo programma sociale e storico; ma anche da questo terreno si rende possibile intravedere, all’interno dello specifico stesso, quegli elementi che oggettivamente si pongono o predispongono di già a livelli linguistici superiori, non fosse altro perché socialmente superiori. Ovviamente questa superiorità sociale, anche dei linguaggi, non ha bisogno del beneplacito degli individui; trova spessissimo la propria strada per affermarsi a dispetto delle opinioni personali; e gran parte delle biografie dei rappresentati delle avanguardie storiche riteniamo non contraddicono queste considerazioni.
Nessun buon lavoro sul particolare riuscirà ad allentare le pressioni materiali sotto le quali i linguaggi si fanno muti.
La difficoltà di chi lavora con i linguaggi è la difficoltà stessa dei linguaggi, la nostra speranza è anche la loro. Allora, fondamentale, qui e sempre, non è dichiarare quanto noi desideriamo, ma quanto i linguaggi medesimi vogliono per necessità o strutturale “vanità”. E’ la loro condizione a legittimare e mobilitare la nostra volontà per indirizzarla nel loro giusto verso.
Se i linguaggi non ponessero già per proprio conto determinate esigenze, ogni tentativo di trasformarli si risolverebbe in uno sforzo donchisciottesco. Senza avere compreso ciò ogni programma, anche nel senso dell’immaginazione preventiva, risulterà inefficace sia pure dal semplice punto di vista della propaganda e della teorizzazione.
Si possono anche trascurare gli aspetti espositivi di quanto è stato finora detto; importa invece aver fatto rilevare il bisogno di cogliere esigenze specifiche (all’arte, all’estetica) e mantenerle alla base delle argomentazioni.
Qui sono tentate alcune premesse critiche , adesso ancora per interpretare, ma tese a trasformare l’immaginazione, o almeno a non intralciare quella trasformazione per la quale l’arte moderna offre una variata e incalzante sintomatologia.
Interpretare serve per affilare gli strumenti e i sensi; ma più tagliente si fa il filo più diviene incline alla ruggine: allora attenzione a non immergersi in soluzioni acquose, diluite.
Chiedersi ad esempio, fuori da ogni meccanicismo, se le aporie estetiche possono avere soluzione separatamente dalle aporie sociali – negli interstizi delle quali magari hanno germogliato con nascoste radici – può indurci a valutare alcune istanze particolari poste dalle avanguardie storiche come stimolate dalla baluginante visione risolutiva di un nuovo assetto sociale che si andava annunciando e tentando proprio in quei primi decenni del secolo. Anche le istanze "formaliste", che si vogliono estranee e contrarie alle questioni che stiamo ponendo, hanno tratto e traggono forse dal medesimo sotterraneo stimolo tanto la ragione di porsi come quella di restare irrisolte, e si sottomettono alla nostra critica quando di loro si dice che “sono state avanzate prematuramente; prima, epperò in una fase storica che poneva precisamente una delle premesse che sola poteva indirizzarle a soluzione e compimento, chiudendo un antico e ormai logoro ciclo di antinomie”. 
Quello che impone l’ideologia all’arte  e la piega nel proprio verso è tutto racchiuso brevemente nella tesi per la quale “finché esiste la società di classe l’arte è condannata alla politica, la forma all’ideologia, il significante al significato”. Detto questo va anche subito aggiunto che l’esigenza formalista necessariamente permanendo è comunque perseguibile, ma senza queste premesse rischia di ridursi al decorativismo.
I tentativi di porre le avanguardie "storiche" all’interno di un evoluzionismo tutto conseguenziale e meccanico sono da intendere come tentativi, a volte ben riusciti, di farle rifluire nell’alveo di un legalismo morfologico e legittimarle agli occhi di chi teme e ha sempre temuto i punti catastrofici di rottura, sia pure nelle indolori forme dei linguaggi.
Oggi gli ex compilatori e gestori di una visione evoluzionistica lineare, cautamente e progressivamente riformatrice delle prassi artistiche, attribuiscono ad altri questa loro fantasticheria; ma l’attribuiscono proprio a chi da sempre ha confutato ogni visione idilliaca tanto di questa società che delle vicende che la riguardano. La libertà di critica si manifesta così semplicemente come la pratica di prendersi delle libertà con la critica stessa.
Certamente il ruolo che gioca l’arte nelle questioni sociali è del tutto marginale, partecipando a quelli che sono i caratteri fisiognomici di un’epoca senza poterli determinare; sono al contrario i fatti sociali che giocano brutti scherzi all’arte. In fondo tra le marxiane catene da spezzare vi sono anche le catene delle locuzioni, sia come frasi fatte, luoghi comuni, pregiudizi visivi, pensieri pensati. E sebbene oggi l’attività e l’eredità delle avanguardie venga ridotta alla “coazione a creare” per essere implicitamente stigmatizzata, senza aver prima spazzato via tutti i tipi di locuzione (tra cui la medesima “coazione a creare”) l’arte continuerà a consumarsi in questioni di stile.
Sussistendo un modo di produzione (materialmente dominante) nel quale la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione privata alimenta la divisione sociale del lavoro, ovviamente l’artista continua a mantenere un proprio specifico ruolo e ad assolvere a particolari compiti. 
Allora l’individualismo è tuttora valido, ma non più come programma: “Chi lo adotta a priori, chi se lo ritrova e vi si adegua, non è neppure investito dalla possibilità di sceglierlo”. Dunque gli spazi per l’arte oggi significano ancora spazi per gli artisti. Ma non si può più operarvi trascurando la serie delle questioni qui avanzate.
L’occhio critico potrà anche scegliere di non essere lo strumento fine di osservazione e organizzazione preventiva dei fatti dell’arte; certamente non dovrebbe accontentarsi di rimanere alla coda di una immaginazione soddisfatta e satolla. E anche il prezzo che la distribuzione diseguale dei beni sociali fa pagare all’immaginazione è tutto da calcolare.
Non abbiamo voluto in alcun modo definire il concetto di “immaginazione preventiva” perché riteniamo pericolosa, ai fini di ulteriori suoi sviluppi, ogni definizione da consumare sbrigativamente. Ci siamo invece limitati a profilare alcune coordinate e direzioni che possono consentire di ravvisarla qualora si presentasse magari nelle riposte pieghe del lavoro di chi può anche avversarla o trovarla indifferente.
Per quanto ci riguarda "immaginazione preventiva" è quanto succede nelle prassi dell'immaginario dopo e solo dopo avere formulato diagnosi di questo tipo. 
Le terapie sono necessariamente sempre da ricercarsi all’interno delle diagnosi, ma non necessariamente la diagnosi si porta appresso l’adeguata terapia come un cioccolatino il biglietto d’amore.
Allora in che senso potrà intendersi il termine "preventiva"?
Potrebbe anche bastare, al momento, il suo senso più banale, abusato: "preventiva" come può esserlo la decisione di distruggere i campi di tabacco invece di imbandire campagne contro le conseguenze polmonari del fumo. Da una parte la soluzione, dall’altra l’ipocrisia.
Quindi, o il Museo  e i suoi succedanei come tubercolosari manniani dell’immaginazione, come montagna incantata che induce a soggiacere al piacere vizioso del privilegio della malattia (e lo stato di malattia è da troppo tempo una condizione connessa alle biografie dell’arte), oppure lo spazio dell’immaginazione preventiva come montagna disincantata, ossia dell’immaginario senz’altro.
Per ora ci asteniamo dal chiederci in che modo la serie di queste riflessioni possano contribuire ad un dibattito sulle problematiche e prassi espositive. Sappiamo però che la nostra forma di critica “sottolinea che vi sono armi predilette, e non soltanto comportamenti pedissequi. E che dopo avere sconfessato e sconvolto i ruoli, ognuno si ripiglia il proprio, ma se lo ritrova diverso da come lo aveva lasciato”.
Dunque: buon lavoro. 


Sezione 2
 Uffici Immaginazione Preventiva
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