LETTERA DAL CARCERE

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Giovedì, 1 ottobre 2015
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arteideologia raccolta supplementi
nomade n.11 dicembre 2015
COME STANNO LE COSE
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Cari amici e cara madre,
sono trascorsi diversi giorni dalla mia ultima lettera. Ma non sono accadute cose nuove da comunicarvi. Tutti voi conoscete bene l’inconveniente cui vado incontro ogni volta che inizio a scrivere; comprenderete e perdonerete dunque la mia riluttanza a prendere in mano una penna che non posso poi abbandonare più con troppa facilità.
Se vi scrivo pur non avendo nulla da raccontare, è per spezzare la solitudine che mi opprime da giorni e attingere così un qualche conforto.
Ma ecco! L’aspettavo e si è subito presentata. La mia bestiolina cerebrale è già pronta a rodermi il cranio. Devo subito iniziare a tenerla a bada in punta di penna scrivendo qualcosa purchessia.
Così, all’istante, mi metto a dire che ho visto, qui nella sala della televisione, la replica di un telefilm in cui un tizio sospettato dell’omicidio spiegava al commissario:
- … Mi occupo di design, progetto oggetti d’uso, eseguo prototipi, cartelli pubblicitari, allestimenti di sale… non avevo nessun interesse a uccidere mio padre, che tra l’altro era rovinato. Me la cavo, economicamente, anche se ho dovuto prendere a noleggio questo smoking per la serata di gala del Sindaco
- Lei ci tiene molto alle apparenze, vero?  gli dice il commissario.
- Beh!... in qualche modo è proprio il mio lavoro, gli risponde l’uomo…
Le “apparenze”… il “decoro” ... Vi sono delle parole da cui è consigliabile tenersi alla larga.
Appena domenica scorsa, mi hanno permesso di assistere alla proiezione di un vecchio film dove un anziano maggiordomo inglese interrogava un giovane aspirante maggiordomo:
- “Lei saprebbe dirmi qual’è la dote di un maggiordomo?”; e sentendosi rispondere “La dignità, naturalmente”, il vecchio lacché approvava con pacata gravità, soddisfatto della coscienza del giovane coscienzioso apprendista.
Ecco: “dignità”, è un’altra di quelle parole di cui diffidare.
E’ proprio la dote che i padroni concedono ai servi di manifestare. Gliela danno in forma di paga, e costoro, appunto, se ne appagano. Io non l’ho mai avuta a portata di mano, e ogni volta devo ripescarla a fatica dal mio lessico abituale (per altro molto limitato).
Nessuno di noialtri, dentro o fuori da ogni prigione di solitudine, dovrebbe familiarizzare con questa livrea della sottomissione con la quale ricevere senza batter ciglio tutte le ingiurie e i lazzi che ci riserva il nostro comune carcere d’insicurezza.
“Democrazia” sarebbe  un’altra di tali parole. E basta così! Non riesco proprio a scrivere altro al proposito. | | |
| | | Solo per mantenere al freno la mia bestia personale, ancora in agguato, adesso devo affrettarmi a scrivere di un amico in libera uscita che mi ha inviato da Mantova la cartolina dell’opera d’arte che un noto artista contemporaneo ha sistemato di recente in una sala del Palazzo Te di quella città (la cartolina la tenevo appesa al muro, ma ve la spedisco volentieri; mi sbarazzo così della pena che ogni volta mi provoca l’immediato raffronto visivo tra la chiarezza d’intenti del ritratto di quell’unico cavallo affrescato in alto e la sua parodia attuale, inutilmente moltiplicata là in terra). Vedete?
Posso dire, madre mia, che non si è affatto sbiadito il ricordo della prima volta che entrai proprio in quel salone, molti anni prima di entrare qui a Soletude. In quello spazio svuotato d’ogni altra cosa dominavano dei veri e propri ritratti di cavalli a grandezza naturale. Affrescati in alto sulle ampie pareti e senza l’oppressione dei cavalieri, credo proprio di aver pensato d’esser davanti ad un monumento eretto dall’uomo addirittura per un’altra specie.
Era bello e commovente.
“Ecco qualcosa di cui potrebbe essere ancor più capace oggigiorno un’umanità libera dalle catene delle miserabilità”, mi dissi allora. E di monumenti ne sognai uno per la pulce d’acqua e un altro per l’angolo ribelle…
Invece?... Non credo sia difficile per voi tutti immaginare la costernazione che prova un carcerato vedendo là in terra così tanti cavalli costretti al recinto e all’ordine meccanico da parata o d’ispezione… “Ma è proprio anche questo il sentimento che l’autore voleva suscitare”, dirà forse qualcuno. Mi permetto di dubitarne.
Ricordo ancora quando visitammo con gli amici la prima grande mostra italiana di artisti della pop art nel 1964 a Venezia Si trattava certamente di un'aspra critica alla società dei consumi, stabilimmo immediatamente. Ebbene, non era affatto così: quasi certamente ne era la celebrazione - e la faccenda viene ancora dibattuta.
Tuttavia non è quest’ordine di motivi - il biasimo o l’encomio - che decide quali particolari lavori di pittura possono entrare o devono restare fuori dall’arte.
Come in ogni sistema organico anche in quest'ambito agiscono dei processi di autodeterminazione che alla fine fanno sì che una volta che certe realizzazioni si siano affermate, iniziano a partecipare dell’intero sviluppo successivo dell’organismo stesso, e presto nessuno potrà più farci nulla. I fatti più recenti dell’arte figurativa, specialmente poi se riguardano i singoli come nel caso di Mantova, fanno però ancora parte della cronaca, e dei giudizi si possono pur dare a cuor leggero. Allora, avendo saputo dal mio amico (e verificato con Internet) che quello stesso artista aveva sistemato nella Sala dei Giganti del Palazzo Te dei simulacri di colonne, posso anche aggiungere che i cavalli e le colonne abbattute dai giganti degli affreschi di Giulio Romano hanno ricevuto, dall’arte attuale, una risposta stereotipata ad uno stimolo adeguato, declinata in ceramica dipinta anziché in pittura.
In simili riflessi automatici tale differenza realizzativa potrebbe anche essere, per alcuni versi, enorme, per altri versi risultare insignificante.
Anche se procedere così, per rispecchiature e citazioni, è da sempre prassi comune in ogni tipo di produzione artistica, viene però svalutata se usata per blandire il pubblico con dei facili richiami formali adottati al solo fine di legittimare la presenza di una determinata opera in un determinato luogo.
E nel Palazzo Te, mi sembra sia stato messo in mostra questo tipo di giochino, non certo all’altezza dell’impegno dovuto alle nobiltà del cavallo e dell’arte figurativa.
Devo precisare che dico ciò facendo affidamento solo sulla cartolina dell’opera; non posso certo spingermi oltre l’immagine, verso le qualità e magari i pregi dell’opera reale in quello spazio reale. Devo inoltre aggiungere che la ripetizione o la citazione in arte non sono poi così gravi come potrebbero esserlo per le tragedie della storia, che si ripeterebbero sempre una seconda volta come farsa. Ripetizione e citazione forse svolgono nell’immagine una qualche funzione, diciamo così, filogenetica, ecc… Capirete tuttavia che per dire “cavalli” ai cavalli e “colonne” alle colonne, ci vuole una certa dose di pigrizia; la quale ha un suo proprio coloraccio che non può uscirsene dall’opera per la coda dell’occhio: solo spegnendo la luce.
Sì, forse è ora che la pittura, come la musica, venga osservata al buio.
Ed è proprio ciò che sta accadendo adesso qui. Ad una certa ora della sera nella casa circondariale di  Soletude si risparmia energia togliendo l’illuminazione alle celle singole.
Stavolta mi va proprio bene così. Sono sfibrato, ma la bestiolina che mi tormenta l’ho ricacciata in qualche sua cuccia remota dove s’è già messa a dormire.
Cosa che faccio volentieri anch’io.
Fatelo pure voi, magari.
E non state li a dar retta a tutto quel che ho detto finora.
Cercate piuttosto il modo di tirarmi fuori da qui.
Vostro.


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