MORFOLOGIA DELLA GUERRA |
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L’Africa si Occidentalizza o l’Occidente si Africanizza?
Parliamo del corso del capitalismo mondiale da un osservatorio particolare: l'Africa subsahariana. Colonialismo A cavallo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento i giochi sono compiuti per l’intero continente nero, pressoché completamente occupato dalle potenze europee. Formazione degli stati nazionali In Africa è mancata la formazione degli stati nazionali che avrebbero guidato e tutelato l’accumulazione capitalista. Lo Stato-nazione La dinamica in corso in Africa non si spiega senza tenere in considerazione come abbia agito l’accumulazione originaria e come abbia fomentato la nascita di entità statali che, pur ambendo al monopolio della forza, non sono mai riusciti ad esercitarla pienamente e quindi a raggiungere la piena sovranità nazionale. La Cina Il sistema coloniale non aveva nessun interesse a introdurre forme di produzione capitaliste mature, ritenendo più conveniente prelevare dall’Africa le materie prime. L’imperialismo ha continuato sulla stessa scia, confinando il continente nero a una riserva senza considerarla un elemento del mercato mondiale. L’esercito In Africa il processo dissolutivo è più avanzato che altrove in quanto colpisce in uguale misura e simultaneamente l’apparato esecutivo e quello militare, causando, spesso, un conflitto interstatale per il controllo degli affari pubblici. In occidente, per il momento, questa dinamica è latente. Sahel Dal 1950 ad oggi in Africa sono stati tentati più 500 colpi di stato, di cui più della metà con successo; eppure gli ultimi, in ordine di tempo, hanno creato scompiglio nelle cancellerie occidentali tanto da indurre il rappresentante dell’UE per il Sahel a definirli “senza precedenti”. A tanta preoccupazione fa da contraltare l’entusiasmo con il quale sono stati accolti dai nostalgici terzo internazionalisti, convinti di assistere ad una replica del ciclo di lotte di liberazione nazionale.Effettivamente, ci sono alcuni elementi di novità. Sorprende soprattutto la rapida successione: in Mali nel 2021, in Burkina Faso nel 2022 e in Niger e nel Gabon nel 2023. Una sincronia che segna un’accelerazione rispetto al passato. Rivela, se non una regia russa, come ritengono le cancellerie occidentali, almeno una spinta oggettiva e urgente al cambiamento sociale che emerge come necessità forte e impellente in tutta l’area in questione. Spiegare questi colpi di stato come il risultato di contrasti inter-imperialisti che si innestano sulle contraddizioni locali, è corretto ma insufficiente a rappresentare la complessità del fenomeno nell’ambito della crisi del valore e del plusvalore, e di dissoluzione del sistema capitalista mondiale. Abbiamo già visto come sia accresciuto enormemente il peso economico della Cina e la sua influenza sul continente. Aggiungiamo ora il protagonismo politico-militare dello stato russo che ha conquistato posizioni di forza nella regione Quest’ultimo è obbligato alla conquista di spazi economici e strategici per rompere l’accerchiamento esercitato dall’azione espansionista condotta dalla NATO verso l’Est europeo. In questo contesto gli apparati militari dei paesi del Sahel si sono “adeguati” cercando degli spazi di manovra, all’interno dei rapporti interimperialisti in via di ridefinizione. Difficile ritenere che le giunte militari avrebbero intrapreso colpi di stato dai connotati antioccidentali così marcati se non fosse diminuito il prestigio internazionale degli USA, determinato da una sua concreta perdita di potenza. Ma il quadro resta sfocato se, a fianco di questo elemento, non aggiungiamo il protagonismo delle masse africane e la spinta decisiva che ha impresso alla dinamica complessiva. > |
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Senza le grandi manifestazioni di massa, difficilmente un paese come il Niger, il cui esercito svolgeva il ruolo di gendarme per conto di europei e americani, avrebbe osato “mettersi in proprio”. Abbiamo visto pochi mesi fa le immagini dei diplomatici francesi abbandonare il paese tra le urla di scherno dei nigeriani. Un fatto senza precedenti in Africa, davanti al quale all’esercito francese non è rimasto altro da fare che andarsene. Una ritirata giudicata da molti osservatori clamorosa, e che rappresenta, al di là delle valutazioni contingenti, un punto di svolta importante; la complessa rete di interessi della borghesia francese nelle ex colonie viene minacciata in maniera consistente. Non finisce definitivamente solo l’esaltata grandeur francese, sono in ballo interessi economici vitali per le potenze occidentali.
Intanto la Francia ha rimpatriato i suoi connazionali e ritirato l’esercito, e ciò viene acclamato come una grande vittoria dagli antimperialisti di maniera, “dimenticando” che in Niger stanno andando via anche i militari americani – restano quelli italiani in veste di istruttori – e che, nel frattempo, sono sbarcati anche i russi con l’organizzazione di mercenari di Africa Corps, schierata nei pressi dei contingenti italiani. Troppi attori sulla scena per poter ipotizzare scenari “antimperialisti”. Senza contare che le giunte militari guardano con simpatia anche verso Pechino ed Ankara, come possibili protettori. In tutti i casi, risulta difficile immaginare come le giunte militari avrebbero potuto sottoscrivere il patto di alleanza che impegna il Niger, il Burkina Faso e il Mali ad un’alleanza preventiva di difesa collettiva contro ingerenze ed eventuali aggressioni esterne, senza il sostegno delle loro popolazioni. Se le giunte militari, incalzate dal movimento di massa, e potendo contare sull’appoggio russo, avranno la forza di andare fino in fondo colpendo società francesi come Total, Eiffage, Bolloré, Air Liquide ed Eramet, i contraccolpi sull’economia francese sarebbero devastanti, e ne vedremo delle belle, non dimenticando in tutto questo l’importanza strategica che le forniture di uranio nigeriane ricoprono per i reattori nucleari d'oltralpe. L’occidente, tramite i suoi alleati africani, soprattutto Nigeria e Senegal (l’ECOWAS) ha imposto una serie di sanzioni punitive che vanno dalla chiusura delle frontiere all’interruzione dell’energia elettrica, fino all'embargo di prodotti alimentari, condite con la minaccia di invasioni militari che molto difficilmente si verificheranno. Nonostante le dichiarazioni, il presidente del Senegal sembra poco in sintonia con la Francia e l’Occidente, mentre la Nigeria ha problemi interni molto seri che non le permettono di andare in cerca di avventure oltre confine. Movimenti di massa Se il motivo principale che ha prodotto la formazione di uno scenario così inedito e complesso dipende dal processo di crisi che ha indebolito l’ordine capitalista a stelle e strisce, e dalla conseguente perdita di una visione strategica complessiva da parte delle potenze occidentali, va sottolineato che il declino della potenza francese nel Sahel è determinato da vari fattori. Estranei e non conformi alle categorie borghesi Quella che può sembrare una massa primitiva, arretrata e barbara, è invece una massa vitale, avanzata per certi versi, che potrà apportare sostegno e riferimenti utili al proletariato mondiale, anche nella definizione dell’anticonformismo dal punto di vista organizzativo. Primavere arabe Le primavere arabe sono state un primo sussulto del terremoto sociale che si sta preparando, e il Sahara non è una barriera al suo estendersi.L’esempio della rivolta in Tunisia, in Egitto e in Libia nel 2011si è propagato immediatamente ai paesi subsahariani, grazie anche all’uso dei telefonini e di internet. Rivolte popolari hanno costretto, in più occasioni, i governi a dimettersi, in altri a ritirare leggi già emanate, come in Burkina Faso e in Etiopia, altre volte sono state represse violentemente. Lo spirito che pervade tutte le proteste può essere riassunto nella formula “siamo stufi”; stufi di queste condizioni di vita, di questi governi, dell'Occidente, sfiancati da una vita di stenti senza prospettive non solo di miglioramento ma proprio di vita. Insomma, al di là degli aspetti fenomenici e delle specificità storiche nazionali, un filo conduttore unico collega potenzialmente le masse africane a quelle occidentali ed asiatiche che si può sintetizzare nel rifiuto di una vita senza prospettive, della mancanza di un futuro unito alla consapevolezza che non si può più tornare alle condizioni di vita precedenti. “Una vita senza senso” non è uno slogan e una condizione attribuibile solo alle popolazioni dei paesi di vecchia industrializzazione; oramai è una realtà generalizzata che colpisce l’insieme dell’umanità, condizione comune di miliardi di persone che riescono a sopravvivere solo grazie a lavoretti saltuari, traffici illegali o ad aiuti cosiddetti umanitari, nazionali o internazionali. I conflitti perenni e le milizie armate, che fino a qualche decennio fa erano fenomeni lontani e incomprensibili agli occhi di un occidentale, oggi iniziano a essere conosciute e praticate in presenza di circostanze sociali sempre più improntate ad una radicalizzazione dello scontro fra le classi. Pensiamo alla formazione e alla proliferazione delle milizie armate negli USA in un ambiente di guerra civile strisciante. Questi gruppi, al di là di come si rappresentino, sono un sintomo, se non ancora di aperta lotta di classe, sicuramente di rottura del patto sociale che precede la polarizzazione. Stimate in centinaia, queste milizie armate tendono ad allargare la loro influenza, soprattutto dalla seconda metà del 2020, a partire dalle proteste di Black Lives Matter. Ciò che preoccupa maggiormente il governo è la partecipazione di veterani dell’esercito e membri della polizia che, non a caso, erano presenti tra gli assalitori del congresso americano. In ogni caso, questi fenomeni (americani e africani) rappresentano un’anticipazione di ciò che potrebbe prospettarsi con l’avanzare del marasma sociale, e l’ulteriore cedimento delle barriere di contenimento dell’ordine e della legalità borghese. Cosa succederebbe nelle metropoli se si dovesse interrompere la catena logistica di rifornimento del cibo, o se i bancomat non fornissero più denaro e lo Stato non potesse più pagare regolarmente pensioni e stipendi. Il caos che ne deriverebbe porterebbe i grandi distributori ad assoldare milizie armate private per difendere la loro proprietà e le loro merci. Un caos che porterebbe le persone ad auto organizzarsi anche militarmente per procurarsi gli alimenti di sopravvivenza o a chiedere/fornire protezione a salvaguardia della propria incolumità fisica. Insomma, uno scenario molto simile al contesto africano. Se non esiste una "dottrina militare proletaria", ciò nondimeno c’è la necessita di capire come e con quali mezzi si combatte in determinate epoche storiche, nei passaggi da un modo di produzione senza più energia a una nuova organizzazione sociale. La rivoluzione comunista, d’altronde, non è un processo costruttivo, un accumulo di forze che procede per linee interne alle categorie borghesi. Essa è il risultato catastrofico della dissoluzione dei rapporti propri del modo di produzione. Pertanto ci interessa capire in che modo, raggiunto un certo grado di disgregazione, possano scaturire e svilupparsi, dal crollo e dal marasma sociale conseguente, i primi elementi di autorganizzazione proletaria di attacco e non più di difesa, dato che in posizione di difesa ci vive da qualche secolo e la dovrà abbandonare necessariamente quando non si avrà più nulla da difendere. Non sosteniamo che l’Africa avrà un ruolo di direzione degli avvenimenti; basandoci sulle esperienze di massa degli ultimi decenni, molto probabilmente la polarizzazione partirà dagli USA e da lì si diffonderà, velocemente, nel resto del mondo. Ma sicuramente in Africa, proprio per la mancanza di un retroterra politico e ideologico, l’assimilazione della teoria comunista sarà rapida e radicale così come le forme che assumerà. I giovani africani non chiedono nulla alla società “civile”. Si tratta di decine di milioni di persone, la cui stragrande maggioranza è costituita da giovani che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare da un drastico cambiamento sociale. Oggi cercano di sopravvivere con meno di 1,90 dollari al giorno, con aiuti “umanitari”, ma nella costante ricerca di alimenti e generi di prima necessità. Siamo al cospetto di un proletariato “senza tetto né focolare”, come dice Marx. Parecchi di loro tentano una illusoria fuga dalla realtà immigrando in Occidente. Non trovano un posto dove sistemarsi, cambiare vita e magari arricchirsi, solo una rischiosa, incerta, degradante situazione. Il capitalismo non ha più le energie di un tempo per fornire accoglienza e speranze. Senza prospettive di integrazione, vanno ad alimentare quel rancore diffuso che rappresenta un inevitabile fattore di rottura e di distruzione dell’esistente ordine delle cose.
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* – Per informazioni su Riunioni Relazionali, Cfr. la Lettera 33 in nømade n.21.2023, e/o attività precedente in questo sito. | |||||||||