MORFOLOGIA DELLA GUERRA

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Allegato 1 a Lettera 35 . Riunione Relazionale* marzo 2024
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arteideologia raccolta supplementi
made n.22 Luglio 2024
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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L’Africa si Occidentalizza o l’Occidente si Africanizza?

Parliamo del corso del capitalismo mondiale da un osservatorio particolare: l'Africa subsahariana.
L’Africa è un continente tanto vasto da contenere l'Europa, gli USA, la Cina e altri stati; è composta da 47 stati con tradizioni e storia differenti, che non possono essere trattate nella relazione.
Tuttavia, possiamo individuare le tendenze principali comuni dalle quali astrarre gli elementi generalizzabili. Avvenimenti recenti quali la massiccia penetrazione del capitale cinese nel continente, la presenza militare russa, gli ultimi colpi di Stato nel Sahel hanno riacceso l’attenzione di economisti e osservatori politici di diverse sponde, pronti a rispolverare la vecchia suggestione che individua nell’Africa una nuova frontiera per il capitalismo, un polmone in grado di soffiare aria fresca all’asfittica accumulazione capitalista.
Il sistema sociale attuale, sconvolto da una crisi economica e sociale che si protrae da decenni, che alimenta e acuisce disuguaglianze e miseria sociale a livello planetario, si aggrappa all’illusione che l’immenso continente africano possa svolgere il ruolo che, per il capitale europeo, ebbero gli Stati Uniti nel XVIII e XIX secolo, assorbendo la sovrapproduzione di merci e di forza lavoro, o immagina che si possa ripetere la delocalizzazione dell’industria occidentale in Asia alla fine del XX secolo, tesa a contrastare la caduta del saggio di profitto.
Entrambi i casi, seppur a livelli differenti, hanno prodotto dei benefici temporanei, procrastinando la crisi e spingendo le contraddizioni ad un livello geografico e storico superiore.
Ma il mondo non è infinito, come sottolinea la nostra corrente.
Il pianeta sta attraversando una turbolenta fase di transizione che non è al momento superabile, come in passato, tramite un processo globale di riorganizzazione e spostamento delle filiere produttive e distributive del capitale internazionale. È irreversibile e si tratta di un trapasso da un ordine sociale all’altro.
L’idea di una nuova frontiera africana, in grado di essere un volano per l’accumulazione capitalista non è originale. Puntualmente fa capolino, stimolata dall’enorme ricchezza mineraria presente nel sottosuolo e dalla presenza di una massa di senza riserve, sfruttabile a bassissimo costo e da una rigogliosa crescita demografica contrapposta all’importante decrescita della popolazione nelle società occidentali, compreso il Giappone e la Cina.
Attualmente gli abitanti dell'Unione Europea sono circa 510 milioni, gli africani 1 miliardo e 300.000. Entro 35 anni, questo rapporto vedrà 450 milioni di europei a fronte di 2,5 miliardi di africani. La popolazione europea sarà ulteriormente invecchiata mentre due terzi degli africani avrà meno di 30 anni.

Colonialismo

A cavallo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento i giochi sono compiuti per l’intero continente nero, pressoché completamente occupato dalle potenze europee.
Progressisti democratici come V. Hugo, socialisti utopisti del calibro di Saint Simon, riformisti socialisti della seconda internazionale (Labriola) alimentavano la leggenda che il colonialismo avrebbe giovato ai territori interessati, introducendo le tecniche e la cultura dell’Occidente.
In qualche caso è stato così (Sudafrica) ma in Africa è stato economicamente e socialmente devastante.
I colonialisti hanno rapinato risorse per oltre cinque secoli, importando gli aspetti più distruttivi del capitalismo. Le scarse infrastrutture moderne costruite sono servite esclusivamente allo sfruttamento minerario e alle pia
ntagioni, dove è stata imposta la monocoltura (o mono-attività estrattiva), ossia l’organizzazione di tutta l’economia in funzione di una o poche merci da esportare in Occidente. Il risultato è stato la distruzione della vecchia economia di sussistenza, basata sulle comunità di villaggio, con un sistema mercantile con scarse possibilità di progresso e nessuna prospettiva di benessere futuro.                            

Formazione degli stati nazionali

In Africa è mancata la formazione degli stati nazionali che avrebbero guidato e tutelato l’accumulazione capitalista.
Il processo storico non ha permesso la costituzione di una borghesia nera sufficientemente forte e agguerrita come è avvenuto in Occidente.
Il colonialismo prima e l’imperialismo poi hanno stroncato sul nascere la costituzione di una classe di imprenditori e di banchieri africani, strutturata in classe nazionale dominante.
Al sistema produttivo pre-capitalista, alle comunità di villaggio, ai produttori indipendenti, agli artigiani e ai contadini, eliminati dal colonialismo non è seguita la nascita di una ricchezza monetaria a base nazionale e, di conseguenza, di una classe mercantile autoctona.
L’accumulazione originaria di capitale, iniziata in Africa esattamente come in Europa, si è compiuta a metà. C’è stata l’espropriazione violenta della terra e la separazione tra gli esseri umani e i mezzi di produzione. In seguito, l’enorme serbatoio di ricchezza “originaria” (beni naturali e umani) che avrebbero dovuto servire per l’Africa, è servito per produrre il capitale altrove, per la formazione del capitale europeo prima ed americano poi, e ha lasciato in Africa un’umanità privata di tutto.
La scoperta dell'America e la circonvallazione dell’Africa sono gli avvenimenti che si incuneano nella disgregazione della società feudale europea e sono una causa del sottosviluppo economico e politico africano. In primis, la lucrosa tratta degli schiavi, con la quale l’Africa subsahariana fa il suo ingresso nel mercato mondiale.  Si stima fra 11-12 milioni il numero di schiavi che hanno lasciato l’Africa fra il XVI e il XIX secolo.  La riduzione in schiavitù era organizzata capillarmente. Gli europei, per ovvie ragioni di sicurezza, non si addentravano nelle regioni dell’interno, ma restavano nei fortini costruiti lungo la costa attendendo l’arrivo degli schiavi. Della cattura e del trasporto si occupavano agenti e commercianti africani in collaborazione con alcune tribù dell’interno. Si regolarizzò capillarmente il “commercio” stabilendo anche i criteri di chi poteva e chi non poteva essere reso schiavo. Su questo traffico si elevò una sovrastruttura centralizzata, basata interamente sull’attività di intermediazione fra razziatori e commercianti che produsse un’elite nera dominante rispetto alla massa dei potenziali schiavi ma insignificante rispetto al dominio e ai privilegi di cui godeva la borghesia europea.
Intanto in Europa si andavano accumulando enormi ricchezze sul commercio degli schiavi, al punto che “senza la schiavitù non ci sarebbe stato il cotone, senza il cotone non esisterebbe l’industria moderna” (Marx, Miseria della filosofia). Se consideriamo che il commercio degli schiavi resta per secoli il principale canale di integrazione del continente nei circuiti del commercio mondiale, se ne deduce facilmente che nessun nucleo di mercanti neri avrebbe potuto emergere con i requisiti necessari a delineare il profilo di una futura classe borghese. Con il divieto della tratta degli schiavi a inizio ottocento, i regni africani che ne avevano, in qualche modo, beneficiato decaddero completamente.
Le colonie africane furono usate come un moderno bancomat per prelevare materie prime indispensabili per l'industria europea.
Su questo “peccato originario” si è innestato la formazione delle nazioni i cui confini sono stati tracciati al tavolo con penna e righello dalle potenze coloniali (conferenza a Berlino nel 1885); confini questi che dipendevano dalle occupazioni coloniali e non tenevano in alcun conto dell’unità territoriale degli abitanti. Tribù ed etnie da sempre rivali, gruppi religiosi in lotta tra loro furono arbitrariamente costretti a convivere.
L’Etiopia, ad esempio, che insieme all’Egitto può rivendicare una lunga tradizione nazionale e una forte propensione a difendere la propria identità, è costituita da più di 80 etnie con contrasti, a volte, molto laceranti, come l’attuale conflitto con i separatisti del Tigrè. Il Congo, il paese più grande dell’Africa, da decenni è sconquassato da scontri etnici che hanno causato il massacro di milioni di persone e che vedono coinvolte le maggiori popolazioni presenti nella zona dei grandi laghi: gli Hutu e i Tutsi.
Qualcuna di queste etnie divenne rappresentante delle potenze colonialiste, ad esempio, in Ruanda la minoranza tutsi rappresentava le “istituzioni” contro la maggioranza degli Hutu.
Queste condizioni iniziali segnano, in modo indelebile, il percorso futuro. L’identità nazionale post colonialista avvallerà la situazione precedente sia in senso geografico che politico-istituzionale. Un percorso storico che non è fondato sulla nazionalità e sulla sovranità, categorie fondanti dello stato, ma su confini arbitrari e fittizi.

Lo Stato-nazione

La dinamica in corso in Africa non si spiega senza tenere in considerazione come abbia agito l’accumulazione originaria e come abbia fomentato la nascita di entità statali che, pur ambendo al monopolio della forza, non sono mai riusciti ad esercitarla pienamente e quindi a raggiungere la piena sovranità nazionale.
La nascente borghesia africana non ha potuto rafforzarsi poiché non poteva contare sul potere dello stato nazionale, utilizzando la forza concentrata ed organizzata della società per poter raggiungere la piena gestione territoriale e mantenere la popolazione sotto controllo.
Men che mai è in grado di farlo oggi visto le mutate condizioni storiche nelle quali il dominio del capitale anonimo transnazionale è così invasivo che tende a rompere ogni legame con l’involucro nazionale, reso superfluo dalla globalizzazione e dai bisogni di valorizzazione del capitale finanziario.
Questa contraddizione fra lo stato-nazione e il capitale finanziario internazionale, concerne anche quelli africani, che però, a differenza degli stati a vecchia industrializzazione, sono privi di strumenti, quali ad esempio una politica sociale. La fragilità istituzionale e la frammentazione territoriale sono condizioni permanenti.
Dal punto di vista del processo di dissoluzione dello stato-nazione e del caos sistemico che ne deriva, l’Africa si situa all’avanguardia della modernità capitalista, in grado di mostrare al mondo intero il prossimo futuro.  In questo senso, non retorico, “l’Africa è il mondo intero”.
L'esaurimento della funzione progressiva degli stati nazionali comporta che qualsivoglia tentativo di “ricostruire” un futuro su basi nazionali sia, al di là delle intenzioni, inquadrabile come utopismo reazionario destinato a divenire moltiplicatore dei fattori di disgregazione.

La Cina 

Il sistema coloniale non aveva nessun interesse a introdurre forme di produzione capitaliste mature, ritenendo più conveniente prelevare dall’Africa le materie prime. L’imperialismo ha continuato sulla stessa scia, confinando il continente nero a una riserva senza considerarla un elemento del mercato mondiale.
La Cina, la principale potenza economica straniera attualmente presente in Africa, indirizza i propri investimenti per la costruzione di infrastrutture (ponti, porti, ferrovie, strade), condizioni generali dell’accumulazione e per approvvigionare le aziende cinesi di materie prime (via della seta). Questi investimenti hanno uno scarso impatto industriale e sull’occupazione interna, in quanto, di solito, al posto della forza-lavoro locale, le imprese cinesi preferiscono ricorrere a forza-lavoro reclutata direttamente in patria. Nell’ultimo decennio, c’è un imponente flusso migratorio di cinesi in Africa. Oppure, in cambio di investimenti, i cinesi chiedono terra da comprare o da affittare per lunghi periodi, la cui coltivazione è dedicata esclusivamente all’esportazione in Cina.
Sono terre fertilissime cedute a condizioni estremamente favorevoli da governi le cui popolazioni sono vittime della fame e della sottoalimentazione.
Espropriazione dei contadini, deforestazione di immense aree da destinare alla coltivazione di riso, pomodori, e altri alimenti riducono drasticamente le terre per il pascolo, dissolvono le comunità agrarie locali che non possono più coltivare i beni per la loro sussistenza.
Ma se la Cina corre, l’Arabia Saudita, la Corea del Sud, il Giappone, non sono da meno nell’accaparramento di terra nel continente africano.
L’imperialismo, dopo essersi aggiudicato le materie prime agricole si rivolge ora, direttamente, all’ acquisizione di terreni, sottraendo così un’altra risorsa determinante per lo sviluppo africano.
Andare a produrre cibo al di là dei propri confini per esportarlo in patria diventa una necessità di ordine politico interno, considerando la prospettiva di scarsità di cibo o del vertiginoso aumento del costo delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Le rivolte in Egitto, Tunisia, Marocco, Haiti, Filippine, causate appunto dalla scarsità del cibo o dall’aumento di questo sono un monito per tutti.
Il controllo di Pechino sui paesi africani non ha niente a che vedere con i metodi coloniali: è un dominio economico che si svolge senza occupazione militare, con metodi “finanziari”. Le banche cinesi che finanziano le grandi opere tengono gli stati africani appesi al cappio del debito.
Il Gibuti, ad esempio, con l’80% del debito nelle mani di Pechino, è costretto, in caso di insolvenza, a cedere ai cinesi il controllo del porto di Doraleh, che si trova in una posizione strategica all’ingresso del mar Rosso. La stessa sorta è riservata al Kenya che ha permesso l’utilizzo del porto di Mombasa, tra i più importanti dell’Africa orientale, come garanzia del prestito di 3,2 miliardi di dollari per la costruzione della linea ferroviaria che lo collega a Nairobi. Anche lo Zambia, se non restituisce il debito che ammonta a 15 miliardi, dovrà cedere l'aeroporto di Lusaka, l’azienda elettrica nazionale e altre realtà economiche alla Cina.
Insomma, il continente sta cambiando referente politico, passa dal dominio finanziario della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale alla Cina.
Gli schemi commerciali, del resto dimostrano, senza possibilità di smentita, come l’Africa, pur integrata nel processo di globalizzazione, resta in larga misura esterna al processo di industrializzazione – che, ricordiamo, è anche processo di socializzazione.
Di solito, i flussi commerciali globali più numerosi sono quelli del commercio intra-industriale e di beni intermedi. In Africa, per quanto il numero delle importazioni ed esportazioni è elevato, le importazioni sono in gran parte composte da beni di consumo finali e macchine necessarie all’estrazione dal sottosuolo, mentre le esportazioni sono costituite principalmente dalle materie prime estratte.
Per quanto integrata nel generale processo di globalizzazione attualmente l’Africa occupa, nella divisione internazionale del lavoro, una posizione marginale. Nell’era coloniale forniva merci agricole quali il cotone e il caffè e minerarie (oro, diamanti, petrolio, terre rare), dopo più di un secolo la situazione non è cambiata molto, possiamo anzi dire che sia peggiorata, dato che oggi, nel settore agricolo, il protezionismo europeo nei confronti dei contadini occidentali, permette a questi di vendere i loro prodotti a basso costo, eliminando dal mercato quelli africani.

L’esercito

In Africa il processo dissolutivo è più avanzato che altrove in quanto colpisce in uguale misura e simultaneamente l’apparato esecutivo e quello militare, causando, spesso, un conflitto interstatale per il controllo degli affari pubblici. In occidente, per il momento, questa dinamica è latente.
Nella repubblica del Ciad, ad esempio, i capi di stato maggiore venivano licenziati e rinominati ogni anno per evitare che avessero il tempo di costruire reti clientelari in grado di rovesciare il presidente della repubblica in carica. 
Nel Niger il recente colpo di stato è stato effettuato dagli stessi militari adibiti alla sicurezza personale del presidente, che non hanno esitato a destituirlo manu militari.  Gli scontri di interessi e la reciproca ostilità, a volte, si determina anche all’interno delle stesse forze armate, e in qualche caso ha prodotto situazione veramente paradossali.
Ad esempio, in Mali, nel 2013, un reparto dell’esercito denominato “berretti rossi” ha affrontato e combattuto nelle strade della capitale i “berretti verdi”, un altro reparto dello stesso esercito “nazionale”, mentre le truppe francesi cercavano di respingere l’avanzata di gruppi di matrice islamica, nemici della “nazione” a nord del paese.

In Occidente, la dissoluzione istituzionale procede inesorabile ma le contraddizioni si accumulano in modo lento e gli scontri interstatali appaiono meno dirompenti, per quanto non mancano anticipi di tipo “africano”, con scontri istituzionali aperti al limite della guerra civile.
Ad esempio, lo stato del Texas, si è contrapposto allo stato federale sulla questione degli immigrati, al punto di schierare la locale Guardia Nazionale contro la Polizia di Frontiera che dipende dal governo centrale; e non si trova da solo ma con 24 Stati dell’Unione che si sono schierati al suo fianco.
A una “africanizzazione” del conflitto sono riconducibili i fatti che hanno visto la fuga da Haiti del governo e il controllo della capitale ad opera di bande criminali; una situazione fuori controllo simile a quella che si verifica anche in molti stati latino americani.
Con ritmi e tempi diversi il processo incalza la stessa Europa, dove la dissoluzione conclamata della sovrastruttura politica-ideologica, resiste solo grazie ala struttura repressiva. La rete poliziesca militare (gendarmi, polizia) esercitano ancora un controllo diffuso, con una presenza capillare sul territorio nazionale molto differente rispetto agli apparati repressivi africani che cercano di controllare le grandi città, soprattutto le capitali, mentre nelle zone rurali lo Stato è inesistente e l’esercito latitante.

Un aspetto interessante da tenere in considerazione è il modo di gestire il vuoto di potere, che anticipa soluzioni che potrebbero diffondersi anche in l’Occidente. Si tratta del ricorso a compagnie mercenarie private (pratica già utilizzata, ad esempio la Wagner in Ucraina e non solo) o il reclutamento di gruppi di autodifesa comunitaria, ossia di civili armati che si autorganizzano per difendere i loro villaggi e i loro beni dagli attacchi delle tante bande armate presenti in Africa.
Il risultato è la trasformazione del continente africano in un crogiolo di autodifesa armata delle popolazioni, dove è diventato più difficile per il potere politico entrare nelle situazioni locali. In molte regioni è quasi impossibile distinguere i contenziosi e i contendenti.
In alcune zone ogni clan possiede la propria milizia e può accadere che conflitti, un tempo risolti con le mediazioni proprie della loro tradizione, si risolvano con massacri di massa. Nel Burkina Faso, il recente governo golpista ha istituzionalizzato la creazione di volontari per la difesa della patria, gruppi di circa 90 mila unità, uomini autorizzati a portare armi da fuoco. Nella regione orientale della repubblica del Congo, c’è una guerra civile che in 30 anni ha provocato un numero imprecisato di vittime (una stima realistica parla di 6 milioni di persone) e quasi sette milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case e fuggire nel silenzio totale dell’occidente.
Attori della guerra sono bande jadiste, gruppi criminali, gruppi di autodifesa locali, compagnie militari private europee. Uno scenario, come quello africano insegna che la formazione di milizie armate autorganizzate produce la militarizzazione crescente del conflitto e viceversa. Un circolo vizioso che si avvita senza fine, che può essere sbloccato solo dall’intervento cosciente della una presa di partito rivoluzionario, non rivendicativo di alcunché.
Quello che al momento ci preme di sottolineare è una generale tendenza alla militarizzazione territoriale.
Con l’aggravarsi della situazione economica e la perdita di controllo, anche parziale, del territorio da parte degli stati, anche in occidente potrebbero prodursi scenari simili, e le premesse le stiamo già vedendo tutte sia in Europa che nel medio oriente.

Sahel

Dal 1950 ad oggi in Africa sono stati tentati più 500 colpi di stato, di cui più della metà con successo; eppure gli ultimi, in ordine di tempo, hanno creato scompiglio nelle cancellerie occidentali tanto da indurre il rappresentante dell’UE per il Sahel a definirli “senza precedenti”. A tanta preoccupazione fa da contraltare l’entusiasmo con il quale sono stati accolti dai nostalgici terzo internazionalisti, convinti di assistere ad una replica del ciclo di lotte di liberazione nazionale.
Effettivamente, ci sono alcuni elementi di novità.
Sorprende soprattutto la rapida successione: in Mali nel 2021, in Burkina Faso nel 2022 e in Niger e nel Gabon nel 2023.  Una sincronia che segna un’accelerazione rispetto al passato. Rivela, se non una regia russa, come ritengono le cancellerie occidentali, almeno una spinta oggettiva e urgente al cambiamento sociale che emerge come necessità forte e impellente in tutta l’area in questione.
Spiegare questi colpi di stato come il risultato di contrasti inter-imperialisti che si innestano sulle contraddizioni locali, è corretto ma insufficiente a rappresentare la complessità del fenomeno nell’ambito della crisi del valore e del plusvalore, e di dissoluzione del sistema capitalista mondiale.
Abbiamo già visto come sia accresciuto enormemente il peso economico della Cina e la sua influenza sul continente. Aggiungiamo ora il protagonismo politico-militare dello stato russo che ha conquistato posizioni di forza nella regione Quest’ultimo è obbligato alla conquista di spazi economici e strategici per rompere l’accerchiamento esercitato dall’azione espansionista condotta dalla NATO verso l’Est europeo.
In questo contesto gli apparati militari dei paesi del Sahel si sono “adeguati” cercando degli spazi di manovra, all’interno dei rapporti interimperialisti in via di ridefinizione.
Difficile ritenere che le giunte militari avrebbero intrapreso colpi di stato dai connotati antioccidentali così marcati se non fosse diminuito il prestigio internazionale degli USA, determinato da una sua concreta perdita di potenza.
Ma il quadro resta sfocato se, a fianco di questo elemento, non aggiungiamo il protagonismo delle masse africane e la spinta decisiva che ha impresso alla dinamica complessiva. >

Senza le grandi manifestazioni di massa, difficilmente un paese come il Niger, il cui esercito svolgeva il ruolo di gendarme per conto di europei e americani, avrebbe osato “mettersi in proprio”.   Abbiamo visto pochi mesi fa le immagini dei diplomatici francesi abbandonare il paese tra le urla di scherno dei nigeriani. Un fatto senza precedenti in Africa, davanti al quale all’esercito francese non è rimasto altro da fare che andarsene. Una ritirata giudicata da molti osservatori clamorosa, e che rappresenta, al di là delle valutazioni contingenti, un punto di svolta importante; la complessa rete di interessi della borghesia francese nelle ex colonie viene minacciata in maniera consistente.  Non finisce definitivamente solo l’esaltata grandeur francese, sono in ballo interessi economici vitali per le potenze occidentali.
Intanto la Francia ha rimpatriato i suoi connazionali e ritirato l’esercito, e ciò viene acclamato come una grande vittoria dagli antimperialisti di maniera, “dimenticando” che in Niger stanno andando via anche i militari americani – restano quelli italiani in veste di istruttori – e che, nel frattempo, sono sbarcati anche i russi con l’organizzazione di mercenari di Africa Corps, schierata nei pressi dei contingenti italiani.
Troppi attori sulla scena per poter ipotizzare scenari “antimperialisti”. Senza contare che le giunte militari guardano con simpatia anche verso Pechino ed Ankara, come possibili protettori.
In tutti i casi, risulta difficile immaginare come le giunte militari avrebbero potuto sottoscrivere il patto di alleanza che impegna il Niger, il Burkina Faso e il Mali ad un’alleanza preventiva di difesa collettiva contro ingerenze ed eventuali aggressioni esterne, senza il sostegno delle loro popolazioni.
Se le giunte militari, incalzate dal movimento di massa, e potendo contare sull’appoggio russo, avranno la forza di andare fino in fondo colpendo società francesi come Total, Eiffage, Bolloré, Air Liquide ed Eramet, i contraccolpi sull’economia francese sarebbero devastanti, e ne vedremo delle belle, non dimenticando in tutto questo l’importanza strategica che le forniture di uranio nigeriane ricoprono per i reattori nucleari d'oltralpe.
L’occidente, tramite i suoi alleati africani, soprattutto Nigeria e Senegal (l’ECOWAS) ha imposto una serie di sanzioni punitive che vanno dalla chiusura delle frontiere all’interruzione dell’energia elettrica, fino all'embargo di prodotti alimentari, condite con la minaccia di invasioni militari che molto difficilmente si verificheranno. Nonostante le dichiarazioni, il presidente del Senegal sembra poco in sintonia con la Francia e l’Occidente, mentre la Nigeria ha problemi interni molto seri che non le permettono di andare in cerca di avventure oltre confine.

Movimenti di massa

Se il motivo principale che ha prodotto la formazione di uno scenario così inedito e complesso dipende dal processo di crisi che ha indebolito l’ordine capitalista a stelle e strisce, e dalla conseguente perdita di una visione strategica complessiva da parte delle potenze occidentali, va sottolineato che il declino della potenza francese nel Sahel è determinato da vari fattori.
Uno di questi è la guerra civile libica. La caduta del regime ha provocato effetti a catena con conseguenze devastanti per la stabilità del Sahel, il quale contava sui petrodollari libici per alleviare la miseria e la disoccupazione interna.
Un altro è legato ai cambiamenti climatici, che hanno provocato l’estensione della desertificazione e ridotto l’estensione delle terre coltivabili, costringendo le popolazioni ad emigrare verso sud, suscitando nuovi conflitti con gli agricoltori e allevatori locali.  Inoltre, la regione è estremamente dipendente dal grano ucraino e russo. Il 30% del grano consumato in Africa viene dall’Ucraina e dalla Russia, il Mali dipende da Mosca per più del 50% del suo fabbisogno interno. La guerra in Europa, provocando l’aumento dei costi di trasporto e l’interruzione della catena di approvvigionamento, ha aumentato molto la povertà e alimentato il circolo vizioso tra violenza e insicurezza alimentare. I colpi di stato sono anche il tentativo di stabilizzare una situazione andata fuori controllo.
È alquanto fantasioso attribuire al governo russo l’organizzazione o l’ispirazione dei colpi di stato in Niger, Mali o Burkina, ma è fuor di dubbio che ha saputo approfittare delle circostanze e dell'ostilità antioccidentali. L’interesse russo non vuole mettere le mani sulle risorse minerarie del Sahel; mira alla formazione di un corridoio che arrivi fino al Mediterraneo, congiungendo il Sahel alla Cirenaica, regione orientale della Libia governata dal Generale Haftar ormai da tempo sotto l’influenza del Cremlino. Tramite questo corridoio la Russia   potrebbe controllare e gestire i flussi migratori verso l’Europa.
In questo insieme di circostanze non esiste una chiara linea di demarcazione fra eventi internazionali e dinamiche nazionali.
Nonostante la grande arretratezza, il Sahel, come del resto tutto il continente africano, è ormai una realtà sociale assimilabile alle aree di capitalismo avanzato, direttamente coinvolto nella trama dei rapporti di forza internazionali, indipendentemente dalla depressione economica e dall’arretratezza locale delle condizioni sociali e istituzionali.
Non bisogna mai confondere indipendenza politica e indipendenza economica. Anche se la prima è formalmente acquisita-realizzata, la seconda è irraggiungibile all’interno del sistema di stretta interdipendenza economica fra tutti i paesi.
Per chi è marxista, l’indipendenza politica, cioè la costituzione di uno stato nazionale centralizzato, è la condizione necessaria per lo sviluppo delle forze produttive, ma andare oltre, pretendere cioè che la realizzazione di questa condizione comporti l’indipendenza economica, è fare un salto verso l’idealismo.
Una relativa autonomia dai rigidi meccanismi del mercato mondiale è prerogativa solo del movimento di massa, quando, con la lotta, ci si pone al di fuori e contro di essi. In questa prospettiva, le manifestazioni antifrancesi e pro-russe esplose nel Sahel non possono essere inquadrate nell’ottica di un movimento patriottico-nazionale o liquidarle come un fenomeno prodotto dagli scontri fra i maggiori imperialismi. Nelle manifestazioni di sostegno ai golpe sono comparse bandiere russe e slogan inneggianti a Putin, ma in questo contesto, non sono necessariamente sinonimo di partigianeria; esprimono, confusamente, uno stato d’animo in cui la lotta alle vecchie potenze coloniali e all’Occidente in generale coincide con la lotta alle disuguaglianze sociali e alla miseria crescente.
Movimenti sociali che un tempo sarebbero stati definiti del “terzo mondo”, hanno caratteristiche simili ai movimenti di massa dei paesi a vecchia industrializzazione. In Africa è stimato a poco meno di mezzo miliardo il numero delle persone che versa in condizioni di povertà totale vivendo con meno di 1,90 dollari al giorno; nel 2030, le proiezioni affermano che nove africani su dieci vivranno nelle stesse condizioni. Una massa enorme di senza riserve stremata, con l’imperativo di dover sopravvivere e di cercare mezzi di sussistenza e condizioni migliori di vita.
A causa della sudditanza storica al colonialismo le masse africane non sono dovute passare attraverso il liberismo politico, non hanno conosciuto, se non in stretta misura, né tradizione democratica né cretinismo parlamentare. Soprattutto non hanno dovuto transitare attraverso la socialdemocrazia, né il deleterio consociativismo sindacale come è toccato alle masse proletarie occidentali che ha prodotto esitazione, timore, corruzione.
Dietro l’esibizione delle bandiere russe c’è la ricerca di un simbolo percepito come oppositore dell’imperialismo occidentale; benché in un modo confuso, contraddittorio, immediato, esso esprime la necessità di un cambiamento radicale che si inserisce nell’alveo della lotta proletaria mondiale. 

Estranei e non conformi alle categorie borghesi 

Quella che può sembrare una massa primitiva, arretrata e barbara, è invece una massa vitale, avanzata per certi versi, che potrà apportare sostegno e riferimenti utili al proletariato mondiale, anche nella definizione dell’anticonformismo dal punto di vista organizzativo.
Un fenomeno da esaminare con attenzione è quello relativo, alle forme di autodifesa e di offesa, costituite dalle milizie armate autorganizzate africane.
Diffuse e radicate sul territorio sono un fenomeno ben diverso da quello della guerriglia contadina maoista del secolo scorso. Sono strutture incentrate sulla difesa immediata delle condizioni di vita, diciamo pure sulla sopravvivenza stessa del gruppo. Si possono paragonare a un movimento spontaneo di lotta suscettibile ad influenze e “aperto” a possibili indirizzi futuri, se la situazione internazionale evolvesse in un senso più orientato verso assetti comunistici, mentre i gruppi maoisti del secolo scorso, al contrario, utilizzavano la guerriglia come forma di conquista territoriale in vista di una strategia politica volta alla liberazione nazionale.
Precisiamo che, parlando di formazioni armate, escludiamo decisamente quelle mercenarie formate da stranieri e quelle locali che sono emanazioni, più o meno dirette, di guerre per procura, ad esempio il Movimento per il 23 marzo che combatte l’esercito congolese per conto del Ruanda.
Per chiarire di cosa si tratti, consideriamo, alcune caratteristiche assunte da queste milizie di autodifesa territoriali che, in una certa misura, comprendono anche quelle di matrice islamica.
Il fenomeno delle “milizie” ha preso consistenza in Africa con la guerra civile in Liberia alla fine degli anni ‘90, introducendo nel contesto dei conflitti una novità di particolare rilievo. In generale, non sono più formazioni guerrigliere con un retaggio politico-militare. La loro peculiarità rispetto al passato è la totale indifferenza e il disprezzo nei confronti dell’ideologia e della politica in generale.
Per il momento abbiamo di fronte istanze sociali di autodifesa/offesa militare con lo scopo di difendere sé stessi e la propria comunità. Molte di queste formazioni sono composte per lo più da giovani o giovanissimi emarginati, esclusi dalle strutture produttive classiche e dal sistema sociale tradizionale dei clan familiari o della tribù. Da questo punto di vista rappresentano un fenomeno moderno unico ed originale nella storia africana.
Ci sono anche formazioni armate improntate alla difesa tribale e/o organizzati per clan di appartenenza. Ma sono strutture temporanee e informali; spesso raccolgono individui di diverse etnie in fuga, in cui l’elemento comune è la disperazione e non una sorta di progettualità legata alla ricerca di un futuro migliore.
Ritorniamo alle milizie armate autorganizzate senza identificazione con le tribù, e soprattutto separate dalla cosiddetta “società civile”, per dire che sono fenomeni modernissimi in quanto riflettono la dissoluzione operata dal capitalismo nei confronti degli antichi rapporti sociali umani e produttivi. È l’aspetto di estraneità, di non conformità rispetto alle categorie borghesi e a quelle preborghesi che ci interessa mettere in primo piano.
Del resto, questo distacco dalle istanze politiche e sociali è l’aspetto che più sorprende e sconcerta gli osservatori occidentali che hanno studiato il fenomeno del formarsi di queste milizie che le definiscono “irrazionali” o “molecole impazzite in un fluido instabile”. E quest’ultima considerazione ci potrebbe anche andar bene se, per fluido impazzito intendessero il capitalismo agonizzante.
Al di là delle definizioni accademiche di questi signori, i conflitti in Africa, molto spesso, appaiono senza obiettivi di lungo o medio termine. Il più delle volte nascono per motivi legati a bisogni economici immediati, e anche per controllare e gestire la vita sul il territorio.
Più complessa appare la fisionomia delle milizie che si richiamano al “jadismo”, che si pongono scopi politici o religiosi, a volte e spesso come pretesto per giustificare sanguinose scorrerie in cerca di bottino. Quello del jadismo è una nebulosa complessa e in continua espansione, che meriterebbe un maggiore approfondimento. Le loro strutture militari, come quella, ad esempio, di Boko Haram, formalmente hanno un vertice con una guida suprema, di fatto sono costituite da un insieme di cellule indipendenti collegate a rete tra loro.
Parliamo di conflitti tremendi con civili torturati, arti amputati senza ragioni apparenti, e come ci spiegano sociologi e psicologi, tale accanimento e rancore non si spiega con l’appropriazione di cibo e di altre merci. Sono stati intervistati vittime sopravvissute ai massacri e miliziani combattenti. Entrambi parlano di “esclusione sociale”, di emarginazione totale. Migliaia di giovani che imbracciano le armi per sopravvivere, ma soprattutto per dare un senso alla loro vita e alla loro comunità di riferimento (Gemeinwesen), quando ce l’hanno ancora non ridotta a brandelli.
La spiegazione è attendibile anche alla luce del fatto che fra le persone che vivono nelle aree rurali, il 50% è composto di poveri, emarginati che hanno meno di 18 anni e che, se non vanno a combattere nelle milizie, la sola alternativa che rimane loro è mettersi al servizio dei mercanti illegali di materie prime nelle zone interne, le cosiddette “terre di nessuno”, dove lavorano in luoghi totalmente insalubri, con un trattamento semischiavistico. Come quei bambini che tolgono le batterie dai rifiuti elettronici, scelti perché le loro mani sono più piccole di quelle degli adulti e possono agevolmente muoversi negli spazi ristretti dei dispositivi che devono maneggiare.  O quelli che lavorano nelle miniere di cobalto, minerale utilizzato per la produzione di batterie ricaricabili utilizzate per i nostri cellulari, tablet, computer per più di dodici ore al giorno.
L’altra possibilità che resta ai giovani africani è quella di emigrare in città, negli enormi slum, baraccopoli che   nascono e si sviluppano all’interno o intorno alle principali metropoli del continente.  Qui vivono accatastati milioni di persone, senza acqua corrente ed elettricità, senza servizi sanitari, in condizioni di vita davvero infernali. Un fenomeno spesso sottovalutato è costituito dagli spostamenti interni dalle aree rurali verso le città, oppure verso paesi limitrofi. Un traffico umano che riguarda, ogni anno, quasi 20 milioni di persone; due terzi è interno al continente e solo un terzo verso l’Europa.
Che cosa accadrà fra qualche decennio quando più della metà degli africani, strappati alla terra, si ammasseranno nelle baraccopoli delle metropoli senza prospettive future?  Difficile non vedere in questa massa sterminata di senza riserve strumenti di una compagine di forze antisistema che al momento stenta ad emergere dalla catastrofe di un sistema in sfacelo totale.

Primavere arabe

Le primavere arabe sono state un primo sussulto del terremoto sociale che si sta preparando, e il Sahara non è una barriera al suo estendersi.
L’esempio della rivolta in Tunisia, in Egitto e in Libia nel 2011si è propagato immediatamente ai paesi subsahariani, grazie anche all’uso dei telefonini e di internet. Rivolte popolari hanno costretto, in più occasioni, i governi a dimettersi, in altri a ritirare leggi già emanate, come in Burkina Faso e in Etiopia, altre volte sono state represse violentemente.
Lo spirito che pervade tutte le proteste può essere riassunto nella formula “siamo stufi”; stufi di queste condizioni di vita, di questi governi, dell'Occidente, sfiancati da una vita di stenti senza prospettive non solo di miglioramento ma proprio di vita.
Insomma, al di là degli aspetti fenomenici e delle specificità storiche nazionali, un filo conduttore unico collega potenzialmente le masse africane a quelle occidentali ed asiatiche che si può sintetizzare nel rifiuto di una vita senza prospettive, della mancanza di un futuro unito alla consapevolezza che non si può più tornare alle condizioni di vita precedenti.
“Una vita senza senso” non è uno slogan e una condizione attribuibile solo alle popolazioni dei paesi di vecchia industrializzazione; oramai è una realtà generalizzata che colpisce l’insieme dell’umanità, condizione comune di miliardi di persone che riescono a sopravvivere solo grazie a lavoretti saltuari, traffici illegali o ad aiuti cosiddetti umanitari, nazionali o internazionali.
I conflitti perenni e le milizie armate, che fino a qualche decennio fa erano fenomeni lontani e incomprensibili agli occhi di un occidentale, oggi iniziano a essere conosciute e praticate in presenza di circostanze sociali sempre più improntate ad una radicalizzazione dello scontro fra le classi.
Pensiamo alla formazione e alla proliferazione delle milizie armate negli USA in un ambiente di guerra civile strisciante. Questi gruppi, al di là di come si rappresentino, sono un sintomo, se non ancora di aperta lotta di classe, sicuramente di rottura del patto sociale che precede la polarizzazione.  Stimate in centinaia, queste milizie armate tendono ad allargare la loro influenza, soprattutto dalla seconda metà del 2020, a partire dalle proteste di Black Lives Matter. Ciò che preoccupa maggiormente il governo è la partecipazione di veterani dell’esercito e membri della polizia che, non a caso, erano presenti tra gli assalitori del congresso americano.
In ogni caso, questi fenomeni (americani e africani) rappresentano un’anticipazione di ciò che potrebbe prospettarsi con l’avanzare del marasma sociale, e l’ulteriore cedimento delle barriere di contenimento dell’ordine e della legalità borghese.
Cosa succederebbe nelle metropoli se si dovesse interrompere la catena logistica di rifornimento del cibo, o se i bancomat non fornissero più denaro e lo Stato non potesse più pagare regolarmente pensioni e stipendi. Il caos che ne deriverebbe porterebbe i grandi distributori ad assoldare milizie armate private per difendere la loro proprietà e le loro merci. Un caos che porterebbe le persone ad auto organizzarsi anche militarmente per procurarsi gli alimenti di sopravvivenza o a chiedere/fornire protezione a salvaguardia della propria incolumità fisica. Insomma, uno scenario molto simile al contesto africano.

Se non esiste una "dottrina militare proletaria", ciò nondimeno c’è la necessita di capire come e con quali mezzi si combatte in determinate epoche storiche, nei passaggi da un modo di produzione senza più energia a una nuova organizzazione sociale.
La rivoluzione comunista, d’altronde, non è un processo costruttivo, un accumulo di forze che procede per linee interne alle categorie borghesi. Essa è il risultato catastrofico della dissoluzione dei rapporti propri del modo di produzione. Pertanto ci interessa capire in che modo, raggiunto un certo grado di disgregazione, possano scaturire e svilupparsi, dal crollo e dal marasma sociale conseguente, i primi elementi di autorganizzazione proletaria di attacco e non più di difesa, dato che in posizione di difesa ci vive da qualche secolo e la dovrà abbandonare necessariamente quando non si avrà più nulla da difendere.
Non sosteniamo che l’Africa avrà un ruolo di direzione degli avvenimenti; basandoci sulle esperienze di massa degli ultimi decenni, molto probabilmente la polarizzazione partirà dagli USA e da lì si diffonderà, velocemente, nel resto del mondo.  Ma sicuramente in Africa, proprio per la mancanza di un retroterra politico e ideologico, l’assimilazione della teoria comunista sarà rapida e radicale così come le forme che assumerà.
I giovani africani non chiedono nulla alla società “civile”. Si tratta di decine di milioni di persone, la cui stragrande   maggioranza è costituita da giovani che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare da un drastico cambiamento sociale. Oggi cercano di sopravvivere con meno di 1,90 dollari al giorno, con aiuti “umanitari”, ma nella costante ricerca di alimenti e generi di prima necessità.
Siamo al cospetto di un proletariato “senza tetto né focolare”, come dice Marx.
Parecchi di loro tentano una illusoria fuga dalla realtà immigrando in Occidente. Non trovano un posto dove sistemarsi, cambiare vita e magari arricchirsi, solo una rischiosa, incerta, degradante situazione.
Il capitalismo non ha più le energie di un tempo per fornire accoglienza e speranze. Senza prospettive di integrazione, vanno ad alimentare quel rancore diffuso che rappresenta un inevitabile fattore di rottura e di distruzione dell’esistente ordine delle cose.


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* – Per informazioni su Riunioni Relazionali, Cfr. la Lettera 33 in nømade n.21.2023, e/o attività precedente in questo sito.