MORFOLOGIA DELLA GUERRA

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Allegato 2 a Lettera 35 . Riunione Relazionale* giugno 2024
!
arteideologia raccolta supplementi
made n.22 Luglio 2024
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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La Guerra che non Entra in Forma

Necessità della guerra

Con la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno conquistato l’egemonia mondiale, messo fuori gioco l’Inghilterra e il colonialismo, occupato militarmente la Germania e il Giappone, investito nel mondo intero la loro esuberanza di capitali.
Successivamente, con la cosiddetta “guerra fredda” hanno imposto una cintura di sicurezza economica e politica intorno alla sola potenza rimasta: l’Unione Sovietica, al fine di obbligarla ad accentuare l’autarchia in cui l’aveva condotta la controrivoluzione stalinista.
La guerra segue una logica ferrea, facilmente assimilabile: attaccare e sottomettere i paesi economicamente concorrenti alle leggi del vincitore, erodendo lo spazio vitale altrui.
La prima guerra mondiale scoppia quando la Germania, raggiunta la supremazia industriale in Europa, è in condizione di reclamare una nuova suddivisione delle colonie e del commercio mondiale, disputandole con la
forza delle armi alla Francia e all’Inghilterra.
Nella seconda guerra mondiale, lo status dei principali paesi imperialisti si scontra di nuovo per la necessità di controllare l’economia di interi continenti nei quali investire capitali, stabilire le regole del gioco e l’egemonia monetaria e politica.
Alla fine della guerra fredda o “terza guerra mondiale”, gli USA restano i soli vincitori, i cui interessi fanno il giro del mondo, blindati da una robusta rete militare costituita da 800 basi militari disseminate ai quattro angoli della terra.
Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 si ridefinisce il sistema monetario, da quel momento in poi basato sul dollaro. Una supremazia durata trent’anni (1946-75) che corrisponde alla fase di crescita più lunga e intensa che il capitalismo abbia mai conosciuto.
Una crescita industriale strepitosa che la borghesia americana si era illusa di poter prolungare eternamente; il risultato è stato lo sviluppo e l’aumento delle sue contraddizioni interne. Il resto è storia recente.
L’inceppamento del meccanismo di accumulazione spinge l’occidente a delocalizzare interi comparti manifatturieri, alla ricerca di bassi costi della forza lavoro e maggiori incentivi statali. La ricchezza si sposta così da Occidente ad Oriente; la Cina torna a occupare un posto centrale nel novero dei paesi industrializzati, con un balzo avanti che rappresenta attualmente il 19% della produzione mondiale, di contro al 20% di quella americana.
Nella lista delle 100 principali aziende capitalizzate 59 hanno base negli Usa, 18 in Europa e ben 14 sono in Cina.
La concorrenza cinese si è fatta valere, non solo nel settore dei beni di consumo, ma anche in campi propri dell’economia imperialista come quello della finanza.
Un segno tangibile del declino americano è rappresentato dall’enorme debito pubblico accumulato nei confronti di paesi cosiddetti emergenti, soprattutto verso la Cina, dove il capitalismo americano aveva de-localizzato gran parte della sua industria manifatturiera.
Come osserva Lenin nell’imperialismo “non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?”
E cosi dalla guerra commerciale si passa alla guerra dei missili sullo sfondo di un meccanismo di suddivisione e dominio del mondo che non corrisponde più a quello stipulato a Bretton Woods, e le potenze economiche di oggi sono, almeno in parte, diverse da quelle di allora.
Lo sviluppo disuguale è una legge fondamentale del capitalismo.
Essa ha scardinato i vincoli economici e rimanda alla violenza come unica soluzione per ridefinire un nuovo assetto mondiale, sulla base dei mutati rapporti di predominio. Non c’è altro modo di procedere nel sistema mercantile, basato sulla competizione fra aziende e stati nazionali in concorrenza fra di loro dove l’orizzonte di ognuno non va oltre la difesa dei propri interessi particolari.
Come non esistono nella fase senile del capitalismo monopoli in grado di sovvertire le leggi economiche della concorrenza, così non esistono stati, per quanto potenti, in grado di mantenere a tempo indeterminato il controllo sul mondo.
La guerra non scoppia per caso o per errore, essa interviene quando l’economia, la politica e le condizioni sociali generali sono al limite della rottura e devono trovare un riequilibrio di forza complessivo del sistema.
La formula usata per comprendere la funzione della guerra rispetto alla pace era: riavviare con la guerra un nuovo ciclo di accumulazione.
La guerra non è il frutto della volontà di qualcuno, bensì il prodotto naturale del modo di produzione capitalistico al culmine di una crisi.
È un tragico meccanismo per continuare ad accumulare: questo spazza via teoricamente il pacifismo come concezione politica, anticamera del “difesismo” nazionale.

Guerre convenzionali

In un contesto siffatto la prospettiva più realistica è quella militare ma presenta caratteristiche nuove rispetto al passato.
Nei periodi post bellici precedenti la nazione vincitrice stabiliva con la forza un nuovo ordine mondiale e nuovi equilibri.
Oggi, nessuna potenza è in condizioni di imporre la propria egemonia al mondo, e al contempo assistiamo alla decadenza dell’ordine americano del passato.
Nessuno, né gli USA né la Cina, ha la forza economica e militare per imporre al mercato mondiale le sue condizioni e un maggiore livello di
accumulazione.
Gli USA, unica potenza globale, hanno legato le sorti dell’economia mondiale alla propria, supportata e legittimata dalla loro potenza militare. Se cadono gli USA, come Sansone, trascineranno nella catastrofe tutta l’economia mondiale.
Un eventuale azzeramento dell’enorme debito americano accumulato coinvolgerebbe catastroficamente paesi creditori, come Cina, Giappone, Corea del Sud ed Europa; il dollaro, nonostante si sia indebolito, resta al momento la moneta di riferimento del mondo capitalista.
L’estesa socializzazione della produzione mondiale, l’intreccio sempre più stretto e intenso fra le economie nazionali, e soprattutto l’enorme sviluppo tecnico raggiunto, intralciano, in molti modi, la messa in atto delle norme belliche convenzionali, che permettevano al capitalismo di uscire ciclicamente, spingendole ad un livello più alto, dalle proprie contraddizioni.
Sono circostanze economiche e politiche precise che impediscono alla guerra di “entrare in forma”, di scattare per la risoluzione di una nuova spartizione del mondo. Le guerre in corso e quelle che verranno non possono assumere finalità morfologiche precise perché non ci sono soluzioni politiche e militari adatte allo scopo.

La guerra resta un’invariante del sistema ma, in assenza di un apparato politico-strategico che la conformi, si svolge con uno stillicidio di conflitti che appaiono circoscritti e locali ma che invece rappresentano gli interessi di più paesi imperialisti.
La questione, ridotta all’osso, è la seguente: siccome nessuno Stato è in grado, nella fase senile del capitalismo, di raggiungere l’egemonia globale, il mondo è condannato a una grande e continua conflittualità armata, senza più la successione di pace-guerra-pace, trascinando il mondo in un conflitto permanente.
Questo fondamentale elemento, impone la necessità di andare oltre i paradigmi con cui la guerra è stata trattata e combattuta fino ad oggi.

Finanziarizzazione crescente

Quello che abbiamo definito lo squilibrio morfologico del sistema mondiale, non è più sanabile, come in passato, con la conquista militare di aree geografiche da parte dell’imperialismo dove scaricare l’esubero di merci e capitali.
Da svariati decenni l’esubero si manifesta con una massa di “capitale finanziario” abnorme, che con i suoi 530 trilioni di dollari non è più assorbile dal sistema e troppo ingente per essere distrutto senza disarticolare il sistema finanziario mondiale.
Mai come oggi c’è tanto denaro in giro. Si calcola che ne circola di più in 5 giorni sul mercato finanziario che in un anno nell’intera economia reale. Si tratta di masse monetarie che si fissano nella circolazione finanziaria, senza possibilità di valorizzazione nella sfera della produzione e condannate a rimanere nel girone infernale del capitale fittizio . Si sono automatizzate dalla produzione e dagli stessi Stati di provenienza e infine dalla conformazione della condotta bellica tradizionale.
Più si ingrandisce il capitale finanziario, più si allenta o si recide il legame con la politica economica statale. Esso vaga autonomamente alla ricerca di valorizzare sé stesso creando denaro per mezzo di denaro, tramite l’investimento in titoli, azioni, buoni del tesoro, o attraverso strumenti finanziari come “derivati”, “futuri” e altri tipi di speculazioni.
Sebbene sia fittizio e autonomizzato è una forza potente che produce effetti tangibili, ha un suo movimento che si riflette nel mondo finanziario e viene trattato come fosse merce e capitale reale; infatti sulla sua compravendita si ottiene un guadagno.
La realtà economica viene così distorta, anzi capovolta: il denaro e la sua immissione nel mercato finanziario e speculativo viene considerato creatore di valore senza produrre niente di concreto.
Il capitale finanziario è sempre stato insito nel modo di produzione capitalista con una sua tendenza finalizzata. Da svariati decenni è passato da struttura al servizio della produzione di merci e plusvalore a uno strumento per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile, bypassando la produzione di merci.
La guerra segue lo stesso itinerario: è la riproduzione perenne di questa contraddizione, la manifestazione violenta del mondo cannibalizzato dal capitale fittizio in virtù del fatto che il movimento illusorio ha ripercussioni ed effetti reali sull’apparato statale e sulla vita dei singoli.
La sovrastruttura politica trasforma tutto il meccanismo statale per metterlo al servizio della finanza, per sostenerla e legittimarla. L’affidabilità dei fondi/titoli e quant’altro si regge sulla realizzazione di plusvalore futuro, su aspettative per le quale lo Stato deve farsi garante e, in ultima istanza, pagatore.
In questo modo la macchina statale si immedesima sempre più con la finanza, ossia con il parassitismo crescente.
Gli indici economici attestano quotidianamente che la “ricchezza reale” cresce sempre meno a fronte di un debito sempre più elevato (nel 2022 il PIL mondiale, cioè tutto l'ammontare di merci e servizi prodotti in quell’anno, corrispondeva alla somma di 110 trilioni di dollari, mentre la finanza balzava da 386 trilioni del 2020 agli 870 del 2022, quasi 8 volte il valore del PIL).

Lo stato non garantisce un bel niente

Lo Stato continua a esistere come sovrastruttura di forza e inflaziona la sua funzione repressiva, tuttavia – come confessano gli stessi teorici dell’argomento – non è in grado di regolare un bel nulla.
Non riuscendo più a svolgere il compito di “capitalista complessivo ideale” “garante” di uno stock di capitale realizzato sul territorio nazionale, deve spalancare le porte al capitale transnazionale. Questo processo, che possiamo
sintetizzare con il termine “globalizzazione” sta alla base della crisi dello Stato-nazione. Risucchiati nella rete di relazioni e contrasti mondiali gli Stati nazionali, divenuti superflui, non riescono ad abbozzare un disegno
strategico coerente di politica estera. Un contrasto che conduce al corto circuito fra politica intesa come scopo, guerra intesa come mezzo, e ideologia come supporto teoretico.
In effetti, come la crisi cronica sta dimostrando ampiamente, lo Stato e la politica si dibattono in difficoltà crescenti, impotenti a invertire la tendenza alla finanziarizzazione che fagocita la società e impossibilitati a cambiare le regole del gioco.
Come potrebbe determinare un nuovo assetto la guerra, continuità di questa impotenza espressa con altri mezzi?
E, ancora: il capitalismo senile si è evoluto a livello internazionale e i suoi interessi non coincidono più esclusivamente con quelli nazionali, la dinamica economica capitalistica è sovra-nazionale ma l’apparato militare resta a base nazionale.
La guerra entra in contraddizione con sé stessa.

Borghesie sbilanciate

Il difetto di strategia comporta anche improbabili alleanze militari fra stati.
La borghesia cinese, fra tutte la più interessata a sottrarre il proprio commercio estero all’egemonia del dollaro, ha dovuto, a questo scopo, concludere accordi con il partner russo, suo storico rivale, con il quale è venuto alle mani nel secolo scorso, per problemi di confine in Siberia, tuttora irrisolti.
Accantonati momentaneamente i dissidi storici, hanno stipulato accordi sul pagamento in rubli e in yuan nei loro scambi commerciali. La necessità della de-dollarizzazione attrae adesioni “contronatura”, come quelli dell’Arabia Saudita che ha cominciato ad accettare, seppur parzialmente, la moneta cinese per il pagamento del petrolio.
Un consorzio poco credibile al quale, a sorpresa, si è aggregata anche la Francia annunciando di voler regolare in renminbi (yuan) alcuni scambi con la Cina.
I BRIC (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sono il punto forte di questa compagine, costituiti da un insieme di realtà conflittuali fra loro, sostenute da fragili premesse tese esclusivamente a indebolire il dollaro, senza propositi “costruttivi” alternativi.
Sembra di assistere alla formazione di quei fronti movimentisti che puntualmente si raggruppano per fare numero contro qualcosa o qualcuno e si dissolvono appena si tratta di stabilire un percorso comune in vista di risultati di lungo respiro.
I BRICS (i precedenti paesi più Iran e Argentina) si sono costituiti per contrastare lo strapotere del dollaro e della NATO senza un progetto per il futuro assetto del mondo.
Abbiamo una polarizzazione imperialista che non riesce ad andare fino in fondo, con il coinvolgimento di paesi minori che, senza schierarsi apertamente da una parte o dall’altra, cercano di volgere a loro vantaggio i risultati dello scontro in atto. E abbiamo paesi dalle aspirazioni sub-imperialiste – come l’Iran che cerca di spezzare l’accerchiamento arabo, israeliano e americano alleandosi alla Russia – che è una nazione ad essa storicamente ostile.
E che dire della Turchia che gioca a tutto campo, con un piede dentro la NATO e l’altro nei BRICS?
La stessa Italietta ha numerose industrie impiegate in Russia e cerca di districarsi fra la genuflessione alla NATO e la difesa dei suoi interessi nazionali.
È talmente grande il disordine sotto il cielo, che è impossibile da razionalizzare, imbrigliare, da “mettere in forma”, sia pur con la forza.

Capitale contro nazioni

Per ingarbugliare ancor più il contesto già parecchio caotico c’è da tenere nella massima considerazione la situazione interna americana.
È recente la notizia secondo la quale la California avrebbe stabilito autonomamente affari e interscambi con la Cina, senza informare l’amministrazione centrale.
Una frattura profonda attraversa la borghesia a stelle e a strisce, fra chi ritiene indispensabile consolidare l’ordine americano nel mondo aumentando l’impegno militare su tutti i fronti possibili, e chi, più realisticamente, riconosce la fine del mondo unipolare e rivolge tutta l’attenzione militare contro la Cina trattandola come una minaccia esistenziale da eliminare a differenza, a esempio, di Russia e Iran.
Sono segnali contraddittori dell’azione del capitale transnazionale all’interno dei singoli paesi, che disarticola i comitati d’affari nazionali, già inconcludenti, disegnando futuri scenari di guerra civile.
Non si tratta di una contrapposizione unilaterale e ben definita fra frazioni borghesi, fra chi è legato a interessi interni regionali e chi a quelli delocalizzati all’estero. Questi elementi sono presenti, ma è soprattutto una frammentazione che riguarda qualcosa di più profondo quale la perdita di un senso identitario, che concerne una questione di appartenenza e fiducia, venuti a mancare nei confronti dei paradigmi ideologici della società.
La crisi cronica, la vacuità del capitale finanziario, il malessere sociale che aumenta, evidenziano tangibilmente la provvisorietà del rapporto sociale e mettono in primo piano una precarietà diventata percezione quotidiana.
La borghesia e, per il momento, anche il proletariato, non vedono via d’uscite da un mondo per niente rassicurante e assennato.
Lo stesso conflitto bellico, che si diffonde sistematicamente a macchia d’olio, esaspera un senso diffuso di ansia e incapacità di progettualità per il futuro.
Sullo sfondo del declino americano si staglia l’ombra del “vuoto di potere” dovuto alla mancanza di un “piano b”.
Questo è il punto fondamentale: la moneta, una volta sganciata dall’oro, è solo una questione di fiducia, è un titolo di credito verso il paese che l’ha emessa. Accettare una determinata cartamoneta in pagamento vuol dire fare credito a quel paese, e il credito si concede solo a colui di cui ci si fida o perché non si può rifiutare.

Mancanza di strategia

Consideriamo pure l’ipotesi che la guerra si configuri sul piano convenzionale, in un conflitto (BRICS contro NATO) che azzeri l’enorme surplus finanziario in eccesso e distrugga massicciamente quote di capitale costante e forza-lavoro, che una potenza vinca e detti a tutto il globo un nuovo ordine mondiale.
Al di là di ogni altra considerazione, bisogna tenere conto che una eventuale ricostruzione industriale post bellica non potrebbe che ripartire dal livello più alto raggiunto dalla tecnica e dalla scienza, cioè dal processo produttivo che ha ridotto, nel corso dei secoli, significativamente, la parte del lavoro umano nella produzione sociale, il solo che crea plusvalore, a vantaggio del sistema di macchine.
Una eventuale ricostruzione del ciclo di accumulazione dovrebbe ripartire da un saggio di profitto che si è già rivelato insufficiente a valorizzare il capitale investito.
Anche l’ipotesi di una guerra che “entra in forma” alla maniera tradizionale, non può compiere il miracolo di trasformare la composizione organica del capitale a livelli differenti da quelli che l’umanità ha storicamente conseguito: ogni risultato raggiunto nello sviluppo del modo di produzione capitalistico rappresenta il balzo di una gradinata che non si può ripercorrere all’indietro.
Il capitalismo si è esteso all’intero pianeta, i suoi meccanismi sono applicati universalmente: questo significa che la sproporzione sempre più accentuata fra forza produttiva in generale e forza lavoro in particolare ha toccato un punto nel quale il capitale addizionale ha difficoltà crescenti di valorizzazione.
Lo sviluppo tecnologico ha sconvolto la legge del valore riducendo a un minimo storico l’impiego della forzalavoro. La guerra, anche quando assume caratteri estremamente violenti e distruttivi, non riporta la composizione organica del capitale a un livello più basso del precedente e la ricostruzione post bellica avviene sulla base della tecnica più avanzata e a un saggio di profitto declinante, tipico del moderno sviluppo industriale.
Non si ricostruisce sulle rovine della guerra a partire dalla macchina a vapore ma dal moderno sistema informatico e dall’automatizzazione del processo produttivo.
Del resto, la guerra è sempre stata un elemento di innovazione, un impulso all’innovazione tecnica, mai di riflusso organizzativo e scientifico.
E poiché nessun rilancio della produzione di plusvalore è fattibile senza un ritorno alla tecnologia del secolo scorso, viene meno, in prospettiva, la possibilità di un’ulteriore centralizzazione imperialista del mercato mondiale.
Questo è il punto centrale: il conflitto mondiale che è una necessità vieppiù crescente e urgente per la difesa del rapporto sociale capitalistico diventa al contempo uno strumento superfluo ai fini della valorizzazione, impotente a governare le contraddizioni e il futuro del modo di produzione morente.
D’altro canto, non c’è un altro modo nel mercato mondiale: se la crescita della Cina continua diventa inevitabile un conflitto con gli Stati Uniti.

La potenza declinante è costretta a entrare in conflitto contro la potenza emergente, per impedirle di superare una soglia oltre la quale non può essere sconfitta con certezza. Mentre la Cina, potenza emergente, per poter crescere deve scontrarsi con gli USA, anche se non ha la forza economica e militare di imporsi come nuova potenza egemone mondiale.

Funzione fine a sé stessa

Non potendo perseguire il risultato preposto, la guerra diventa priva di logica a lungo termine.
Ciò che avrebbe dovuto essere un mezzo è diventato un fine.
Ci sono già sufficienti prove sperimentali di questo capovolgimento e sono rappresentate dallo stillicidio di conflitti iniziati, bloccati, ripresi e mai conclusi, privi di risultati conclusivi.
Dalla guerra nel Kosovo, al conflitto armeno-azero, alle vicende della Georgia, Siria, Libia, Somalia, Palestina, fino all'endemicità degli scontri in Africa, possiamo vedere la lunga catena di violenze che non hanno soluzioni politiche; sono una serie di conflitti che, quando conoscono soste, sono episodiche e brevi, sempre sul punto di riesplodere con maggiore violenza di prima.
Abbiamo già trattato questo argomento in una relazione dal titolo: africanizzazione dell’Occidente. Un’africanizzazione del conflitto che delinea la condotta di tutte le guerre a partire dal bombardamento NATO contro la Jugoslavia nel 1999. Da allora assistiamo a conflitti dispendiosi, distruttivi e interminabili con risultati monchi, sospesi, aperti, aleatori, transitori.
Ad esempio, la guerra in Iraq si è protratta per otto, lunghissimi anni, il doppio della durata dei due precedenti conflitti mondiali, e si è “conclusa” senza che il “vincitore” sia riuscito a imporre la “pax americana”, secondo la corrispondenza alla sua visione del mondo.
Anzi, ha consentito alle milizie islamiche e ad altri gruppi di insediarsi in diverse parti del paese, ha permesso un considerevole aumento dell’influenza dell’Iran nella regione, favorendo l’affermazione sul campo di forze confessionali sciite.
La stessa mancanza di risultati ha caratterizzato il conflitto, interminabile, combattuto in Afghanistan, conclusosi con distruzioni immani senza vinti né vincitori. Il paese è tornato, dopo venti, lunghissimi anni di guerra, a essere governato da quelli che si dovevano mandare via con le armi.

Nuovi scenari

Per delineare quali scenari si potrebbero aprire, ritorniamo al punto di partenza.
Potrebbe essere realistica la direzione del mondo a guida cinese in un ipotetico dopoguerra, se questi non hanno la forza (militare) sufficiente per sostituire la moneta americana? O, ancor peggio: come potrebbe farlo una cooperazione multipolare, aggregando una serie di monete nazionali di riferimento che sarebbero immediatamente fagocitate dal capitale finanziario? – come è avvenuto per la lira e la sterlina negli anni ’80 sotto gli attacchi della finanza internazionale.
Se l’economia russa dovesse resistere alla guerra e alle sanzioni economiche per lungo tempo, sarebbe l’economia e la politica europea a finire sotto scacco, (e già ci sono evidenti segnali in questa direzione) visto le tendenze anti-americane mai sopite, che rialzano la testa. Viceversa se la guerra per procura di Washington travolgesse la Russia si aprirebbe un gigantesco buco nero nella regione dai contorni indefinibili e incontrollabili per gli stessi vincitori.
Un compromesso potrebbe essere rappresentato dalla soluzione “coreana”, con il Dombass integrato alla Russia, che funga da frontiera fra le due nazioni; fattore che renderebbe endemico il conflitto in Europa.
Come si vede, ogni soluzione prevedibile comporta il sovrapporsi alla guerra di una guerra civile difficilmente evitabile in ogni caso.

Visto che nessuna borghesia è in grado di raggiungere il dominio mondiale globale come richiederebbe la situazione, siamo entrati nell’epoca della guerra imperialista perpetua che non ha uno scatto preciso e nessuna potenza può vincere o volgerla a proprio vantaggio.

Munizioni

Un altro aspetto considerevole del fatto che la guerra “non entra in forma”, è la relazione che si è storicamente determinata tra tecnologie militari e produzione di massa.
È fuori discussione che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, decisive per i successi militari immediati. Ma se consideriamo la prospettiva di una guerra di logoramento, la tecnologia
militare avanzata da sola non basta, anzi si rivela un’arma a doppio taglio.
Il consumo enorme di munizioni richiesto si rivela un limite praticamente invalicabile per la produzione bellica. Vale a dire, la quantità di munizioni che escono dalle fabbriche non riescono a tenere i ritmi del loro consumo sul campo di battaglia.
Nella guerra, come è normale che sia, si ritrovano tutti gli aspetti della produzione di merci. Una serie delle attività industriali è stata delocalizzata (per garantire profitti più alti, pagando meno la forza lavoro) ma la produzione in generale e quella militare in particolare risulta penalizzata. Il Pentagono si lamenta e si chiede se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile.
La guerra ci riporta all’economia reale.
Da questo punto di vista la Cina, la Russia e in generale l’area dei paesi di nuova industrializzazione risultano essere meglio attrezzati, anche se il contrasto fra la debole capacità bellica produttiva e l’enorme consumo degli eserciti si fa sentire con le stesse caratteristiche occidentali.
All’inizio della guerra in Ucraina, ad esempio, i russi sparavano 50-60 mila colpi al giorno che comporta un consumo di 18-22 milioni di proiettili l’anno; una quantità insostenibile di munizioni per le capacità produttive russe, in grado di fabbricare, al massimo sforzo, tra 1 e 1,5 milioni di munizioni standard da 155mm l’anno, che comunque resta una quantità superiore a quella prodotta dalla NATO.
Una simile bulimia di munizioni ha costretto i russi a ridurre drasticamente l’intensità di fuoco, riducendola a 10.000 proiettili quotidiani che risultano un consumo di munizioni appena sufficienti per un conflitto a bassa intensità della durata di un anno.
Qualcuno potrebbe commentare: basta aumentare la produzione di munizioni e il gioco è fatto. Non è così semplice.
Intensificare la produzione di munizioni non è affare di poco, ne sa qualcosa la società tedesca di armi Rheinmetall che ha elevato la produzione portandola da 100.000 proiettili, prodotti prima del 2022, ai 600.000 attuali. Un aumento considerevole (mezzo milione di pezzi in più all’anno) ma che, nonostante l’urgenza, ha richiesto quasi due anni per essere implementata. Inoltre, la stessa azienda sostiene di avere un arretrato di 10 miliardi di euro nella produzione di munizioni per le quali sono già stati conclusi i contratti.
Implementare la produzione di munizioni per adeguarla alle necessità di consumo dell’esercito, non solo richiede tempi lunghi e disponibilità di denaro ma non è numericamente possibile, per un conflitto generalizzato, in cui proiettili da mezzo quintale sono sparati a una cadenza di 3 colpi ogni 13 secondi. Il ritmo di tiro di un cannone M242, caricato da un motore elettrico, può essere di 200 colpi al minuto. Esiste una installazione antiaerea equipaggiata con due cannoni automatici con una cadenza di fuoco di mille colpi al minuto.
Nel caso del conflitto russo ucraino, si tratta di munizioni relativamente semplici ed economiche, ma cosa succederà quando scoppierà la guerra per Taiwan nell’Indo-Pacifico, che sarà combattuta con armi sofisticate da cinesi e americani?
Una delle previsioni ricorrenti stabilisce che le forze americane esaurirebbero molte delle più importanti munizioni guidate (intelligenti) di precisione in meno di una settimana.
Ricordiamo che nel 2011, a un mese dall’inizio dell’intervento in Libia, Francia e Gran Bretagna hanno esaurito le munizioni di precisione e l’esercito americano è dovuto intervenire per portare a termine la missione.
Per rifornire in tempi brevi di munizioni e armi gli eserciti bisognerebbe trasformare l'industria in economia di guerra, dando il via a una gigantesca ed improbabile delocalizzazione in tempi brevissimi dell’industria manifatturiera da Oriente verso Occidente. Solo che lo scenario industriale non è più quello del quantitativismo produttivo della seconda guerra mondiale, dove l’industria poteva passare dalla produzione di automobili agli aeroplani e dall’acciaio a quella dei carri armati. Oggi in America non si producono così tante automobili né così tanto acciaio. E senza un solido tessuto industriale è difficile che possa fiorire una industria militare adeguata al passo con i tempi.

Tutti questi elementi sono visibili nel teatro militare in Ucraina, che anticipa scenari futuri che stanno maturando, in altri angoli del mondo.
Si vede bene come la penuria di armamento e il vuoto strategico fa sì che l’assistenza occidentale all’apparato militare ucraino si limita a quel tanto che basta per allungare i tempi del conflitto. L’obiettivo della NATO non è quello di vincere ma costringere la Russia a un dispendio di mezzi e forze per fiaccarne la resistenza.
Con la guerra per procura in Ucraina gli Stati Uniti si erano illusi di poter ripetere lo stesso risultato ottenuto con la “guerra fredda”: ostacolare l’integrazione della Russia in Europa, e indebolire l'avversario. Il primo obiettivo è stato, momentaneamente, raggiunto, il secondo no in quanto, nel frattempo, nuovi attori, allora marginali, sono entrati in gioco, superando il peso economico europeo.
Paesi quali la Cina, l’India, l’Iran, hanno permesso, sostenendo la Russia, un contrattacco militare significativo di questa. Segno dei tempi e del declino di potenza del centro imperialista occidentale.

Scatto

Se teniamo conto dell’insieme dei fenomeni che si influenzano a vicenda, il conflitto che avanza non prevede uno “scatto” delle operazioni belliche. Prevede piuttosto una condizione di conflitto permanente instabile e aperto a un'alternanza di maggiore o minore intensità bellica a seconda degli armamenti disponibili, che si dipana in una serie di capitoli senza limiti spaziali e temporali, dove il fronte esterno si combina e si confonde con quello interno, in una sorta di “africanizzazione dell’Occidente” e con una eventuale “africanizzazione
dell’Oriente”, quando la guerra si sposterà a Taiwan e ne sconvolgerà gli equilibri regionali.
Si può parlare di scatto della guerra e dell’impossibilità di fermarla una volta avvenuto, solo se la guerra si autonomizza al punto che le macchine prendono il sopravvento e algoritmi matematici controllino il dipanarsi delle operazioni militari, compreso il controllo dell’arsenale atomico.
Allora non solo la guerra non si riesce a fermare al suo scatto , ma i risultati diventano catastrofici.
Anche in queste circostanze estreme si può conservare un filo di ottimismo derivante dal fatto che non appena le nuove tecnologie passeranno dallo stadio sperimentale a quello fattuale, si rivelino tanto potenti da risultare inutilizzabili, impedendo alla catastrofe di proseguire fino in fondo.
L’ipotesi è da approfondire e verificare ulteriormente.
Nel momento in cui le coordinate e i dati di navigazione satellitari diventano l'elemento centrale della guerra cibernetica, è contro di essi, come appare logico, che la potenza di fuoco viene indirizzata. Verosimilmente i primi bersagli militari delle macchine saranno i satelliti di comunicazioni, mireranno ad accecare i sistemi GPS, ad interrompere internet, a deviare e confondere le onde magnetiche, a interrompere le reti di cablaggio sottomarine, tutte infrastrutture importanti per le connessioni militari.
Tutte le grandi potenze hanno testato, fin dagli anni ’70, armi antisatelliti, basate su missili di varia natura, che permettono di abbattere eventuali pericoli orbitali. Vi è anche una tecnologia laser (russa) per distruggere i satelliti senza scontrarsi fisicamente con loro. Il pentagono ritiene che in caso di conflitto con Russia e Cina la disabilitazione delle comunicazioni e le operazioni di hackeraggio sui satelliti sarebbero le prime mosse di un attacco agli USA.
Non sappiamo quanto le contromisure a un attacco satellitare e la decentralizzazione delle decisioni militari siano efficaci, e non lo sapremo finché non saranno testate sul campo. Ma possiamo azzardare, con una certa sicurezza, che tali armamenti provocheranno danni ingenti ai flussi di informazioni che viaggiano nell’etere e nei fondali marini, che potrebbero sia interrompere, parzialmente o del tutto, la catena delle informazioni del comando militare, sia bloccare il sistema globale produttivo, spegnendo internet, macchine e algoritmi
compresi.
Non si tratta più di considerare la sola dialettica pallottola/corazza delle guerre convenzionali, spiegata da Engels (il proiettile diventa più potente, la corazza diventa più spessa in una dinamica che non ha fine). La guerra tecnologica ha spostato tutto a un piano superiore dove il rilevamento dei dati per ottimizzare il tiro o rafforzare la difesa diventano un esercizio molto improbabile da riprodurre.
Se è così l’evoluzione militare può dirsi conclusa, il militarismo è portato all'estinzione dalla sua propria evoluzione.
Se, nonostante questo, la guerra delle macchine non si ferma prima di aver coinvolto la tecnologia atomica, beh, allora, resta ben poco da dire e nulla da realizzare sul sottile stato di fossili radioattivi che rimane.
Questa configurazione di una guerra che “non prende forma” rappresenta, tra le altre cose e a certe condizioni, un vantaggio per il proletariato, in quanto, fin che gli assetti si manterranno in uno “stallo dinamico”, di transizione perenne, in un contesto di guerra imbrigliato nel disordine economico e politico sistemico, non riuscendo a imprimere quello scatto decisivo, il disfattismo rivoluzionario resta un elemento altamente praticabile nel corso stesso del conflitto.
Naturalmente parliamo di disfattismo attivo e operante solo a condizione della presenza contemporanea di tutta un’altra serie di elementi decisivi, prima fra tutti il maturare di un forte movimento di massa dai connotati di opposizione alla guerra.
La struttura del capitalismo globalizzato, impossibilitato ad andare avanti senza negare sé stesso, frena anche le possibilità alla guerra di scattare in avanti.
Da questo punto di vista diviene determinante comprendere, come fa notare Lenin che “il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado di sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso di un più elevato ordinamento economico e sociale”. Vale a dire: il conflitto in corso è la guerra che il capitalismo conduce contro il trapasso verso il nuovo ordine sociale che preme impellente per affermarsi.
È passato un secolo e possiamo constatare che i sintomi del trapasso di cui parla Lenin sono stramaturi e che il comunismo è la sola forza emergente dalla globalizzazione e dalla dissoluzione del sistema.
Quello in corso è un conflitto che il capitalismo conduce contro le sue stesse forze produttive, che non riesce più a mantenere in un involucro. Così facendo si auto-nega come specifico modo di produzione.
Insistiamo spesso su questo movimento di auto-negazione del capitale, che non significa, però, che il capitalismo scompare da sé, c’è bisogno di un becchino: e questo è il proletariato tramite il suo partito.
Dal punto di vista scientifico non possiamo escludere l’ipotesi che l’evoluzione capitalista, portatrice degli elementi della propria dissoluzione, pervenga in una sorta di processo naturale a negarsi completamente fino ad instaurare un sistema comunitario anti mercantile. Ma si tratta di un processo evolutivo che richiede tempi lunghi, forse secoli, mentre c’è una reale urgenza di fermare le forze distruttive del capitalismo, prima che sia troppo tardi.
Altro aspetto da sottolineare è come questo movimento di “auto negazione” coincide con il movimento di militarizzazione della società, sia per il peso crescente che assume l’apparato militare, con tutta la diffusione massiccia della propaganda bellica, sia per la blindatura che lo stato mette in atto per prevenire ogni tentativo di attacco.
In poche parole, per riprodurre le condizioni per la sua sopravvivenza il capitale deve negare sé stesso, ma può farlo solo a condizione di condurre una guerra sociale contro il proletariato e le sue condizioni di vita.
Le caratteristiche della guerra in corso, l’impossibilità di “entrare in forma” esprimono la prova inconfutabile della assoluta transitorietà del capitalismo. Tanto è vero che il principale rappresentante dell’imperialismo è costretto a guerreggiare per contrastare il suo declino con avversari esterni ed interni, e ne esce ogni volta indebolito socialmente ed economicamente anche quando vince militarmente le battaglie sul campo. Non può sconfiggere il nemico senza distruggere sé stesso, in una logica che fa a pugni, che stride contro ogni legge e norma della guerra.
Se non si spezza questa dinamica, se non interviene la guerra civile e un organismo antiformista a mettere la parola fine, l’umanità rischia di precipitare in una barbarie permanente, che potrebbe metterne a rischio la stessa esistenza.
Le parole scritte in prigione da Rosa Luxemburg durante la carneficina della prima guerra mondiale non sono mai state così tragicamente attuali: "Il futuro della civiltà e dell’umanità dipende dal fatto che il proletariato sappia (…) gettare la sua spada rivoluzionaria sul piatto della bilancia."
È di secondaria importanza stabilire i tempi della crisi a tavolino.
L’importante è conoscere quali conseguenze ha sulla società mondiale il corso dell’imperialismo, e soprattutto quale dovrà essere l’atteggiamento dei rivoluzionari, visto che è su questo terreno, quello dell’intervento tattico, che si è giocato in passato e ci giochiamo oggi ogni possibilità rivoluzionaria futura.

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