L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro comune . 2019
arteideologia raccolta supplementi
made n.22 Luglio 2024
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (appunti IV.3)

QUESTIONI DI STILE . 3

L’oggetto d'arte e la sua riconoscibilità . 2

La fotografia ha separato l’immagine dal corpo, e ha introdotto la possibilità di possederli separati... [Parafrasi da Sismondi, citato da Marx nei Grundrisse: Il commercio ha separato l’ombra dal corpo e ha introdotto la possibilità di possederli separati ]

Per comprendere lo sviluppo delle forme sociali e il grado di progresso raggiunto, spesso diciamo che bisogna vedere se una determinata forma ha raggiunto almeno il livello della precedente, e solo rispetto a questo possiamo valutare se una nuova forma rappresenta un reale progresso rispetto alle precedenti. Così, pure per valutare una singola opera d’arte dovremmo quantomeno cercare di inserirla lungo una individuata linea di sviluppo e trovargli qui il posto che gli compete – senza far confusione tra valori artistici e valori tecnici (così come non dovremmo farne, ad esempio, tra ciò che un movimento sociale dice di se stesso e ciò che concretamente fa).
Marx inizia i Lineamenti Fondamentali, specificando l’oggetto preso in esame: Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale.
Forse anche noi avremmo dovuto iniziare specificando l’oggetto di cui parlare.
Dapprima abbiamo cercato di avvicinarlo affidandolo alla capacità che la generica parola di “arte” avrebbe nell’indicarne i prodotti concreti; poi, visto come questa categoria poteva riferirsi a prodotti di varia forma e natura, abbiamo preferito circoscrivere il nostro interesse ad una particolare produzione artistica come quella dell’Arte visuale, e particolarmente alla pittura, scultura, ecc.
Abbiamo, cioè, fatto il possibile affinché l’oggetto della nostra conversazione potesse limitarsi alla produzione materiale di quelle opere che usualmente tutti chiamano “opere d’arte” con riferimento a quelle che (nella loro massima espressione) sono raccolte nei musei di Belle Arti, archeologici, antichi o moderni che siano.
Possiamo dire che queste istituzioni pubbliche, proprie dell’epoca moderna della borghesia, rappresentano sul territorio la fonte di informazione da cui principalmente si attinge per in-formare ciò che abbiamo indicato come “quadri di riferimento” personali e poter distinguere i tratti ordinari dell’opera d’arte (indubbia o intenzionale) tra tutti quegli oggetti che la vulcanica e anarchica produzione capitalistica ci apparecchia davanti agli occhi al mercato dei sensi e delle sensibilità artistiche ed estetiche.
Questo discorrere su un luogo comune potrebbe apparire inutile, se non fosse una premessa necessaria a fissare una fenomenologia dell’oggetto artistico valida per l’intero corso della storia dell’uomo fino alle sue manifestazioni nell’epoca moderna e attuale.
Difatti, nonostante il suo dominio economico e ideologico, alla borghesia e ai suoi ideologi l’arte moderna è iniziata procurandogli dei grattacapi: è la famigerata difficoltà della sottomissione sostanziale dell’arte al capitale?
Per rispondere a questa domanda e proseguire l’argomentazione, potremmo riproporre a questo punto l’intero paragrafo L’oggetto artistico e la sua riconoscibilità, apparso e svolto anticipatamente su nømade n.14 del 2017 [50].
Per comodità di tutti, preferiamo invece lasciare al lettore la facoltà di leggere, o rileggere, l’intero paragrafo e di concedere a noi di ricordare qui qualche passaggio conclusivo del paragrafo indicato, così da consentirci di andare avanti.
Dopo aver ricordato la controversia giuridica che nel 1926 aveva contrapposto l’amministrazione delle dogane statunitensi e un collezionista americano (che aveva acquistato la scultura in marmo di Brancusi, L’uccello nello spazio non riconosciuta alla dogana come opera d’arte e quindi classificata come “arnese da cucina o supporto da ospedale”) che provocò due anni di accesi dibattiti inconcludenti che infine costrinsero il giudice americano ad ignorare ogni criterio estetico per puntellare la sentenza con una categoria non estetica, non artistica ma sociologica, ossia ricorrendo all’arbitrio della “opinione del mondo dell’arte”. Così – commentavamo infine – il filisteismo del “comune senso del pudore” doveva trovare il suo corrispettivo in un “comune senso dell’arte”.
Dopo di ciò, constatavamo come oggi sia...

... possibile entrare in un museo di arte contemporanea e trovarsi indifferentemente davanti ad una tela dipinta con un solo colore o anche solcata da un verticale taglio netto; dalla riproduzione fotografica della Gioconda a cui l’artista ha messo i baffi e lasciato un commento pruriginoso in calce, o davanti ad un ferro da stiro irto di chiodi; dal filmato della pantomima ispirata da una crocifissione di Mantegna o dall’esibizione di attrezzature da palestra con allegate esortazioni pubbliche ad utilizzarle senz’altro»; e che ciò che a noi importa sono « le connessioni tra gli oggetti artistici e gli sviluppi tecnologici e sociali avvenuti nell’epoca industriale e poi informatica del capitalismo, ma soprattutto le rotture e il dissiparsi di paradigmi che avevano informato la produzione artistica dell’intero periodo borghese e che già nell’epoca industriale arrivano estenuati e privi di risorse…

E ponevamo la questione in questo modo:

Proprio come Marx chiedeva se era possibile concepire Achille accanto alla polvere da sparo o l’Iliade assieme alla macchina tipografica, noi oggi dobbiamo chiederci come sia possibile il dipinto di un cesto di frutta avendo la macchina fotografica, o la tela dipinta a olio di una crocifissione disponendo del cinema, della televisione o del video digitale. Con la fotografia e il cinema non scompaiono inevitabilmente le necessità di rappresentare, disegnare o dipingere una parte della natura o un evento? Non scompare la magnificenza e sacralità del dipinto e del dipingere? Non scompaiono tutte le sfide tecniche affrontate in precedenza? Non scompare l’intero ambiente fisico con tutte le condizioni che hanno reso necessario il sorgere e consentito lo sviluppo della pittura stessa?

Costantin Brancusi 1923, L’uccello nello spazio, scultura in marmo cm. 144,1 x 16,6 (con base); Metropolitan Museum, New York. Si fosse presentata sacralizzata dall’ambiente così come è stata fotografata poi da Edward Steichen durante l’esposizione, l’opera di Brancusi sarebbe forse stata immediatamente riconosciuta come Arte da parte del giudice americano … – e questo pone ed espone l’opera d’arte moderna ad altri tipi di problematicità.

Illusioni e illusionisti

Ma a scomparire non sono solo le forme con cui finora si era presentata l’arte visiva; scompaiono anche le illusioni che la borghesia si era fatta sul suo mondo.
Abbiamo detto, da qualche parte, che l’opera d’arte (e non solo il cosiddetto capolavoro) sembrerebbe non far parte del mondo delle merci perché in qualche modo è possibile distinguerla da un ferro da stiro, da un'automobile o da una locomotiva.
Sarebbe, diciamo cosi: estetica cosificata, cristallizzata, che si manifesta in un particolare prodotto all’intuizione o alla sensibilità comune che l’accoglie immediatamente nell’ambito della bellezza piuttosto che in quello dell’uso empirico.
E tuttavia tale bellezza – che nel dire di diversi belli spiriti, dovrebbe salvare il mondo – viene intanto portata al mercato come ogni altro prodotto del lavoro sociale – né più né meno di un ferro da stiro o di una automobile.
E qui l’opera assume i caratteri propri della merce caricandosi di quel “feticismo” proprio delle merci, descritto per primo da Marx nelle prime pagine del Capitale, e divenuto per molti analisti dell’arte un cruccio inestricabile più che un problema irrisolvibile.
Anche il termine di “mercificazione” riferito all’opera d’arte è stato spesso usato per esprimere un giudizio negativo, e manifestare un rammarico per il moderno degradarsi dell’arte in mera merce e patire il medesimo destino che nel mondo capitalistico subiscono tutti i prodotti del lavoro umano.
Certe anime candide, non solo borghesi ma anche sedicenti marxisti, ovviamente si erano immaginata l’Arte come un processo metastorico, accampato fuori dai reali rapporti sociali, sottratto e sottraibile (previa comprensione dei reali rapporti sociali attestata dal partito) alle influenze del modo economico nel quale si attualizza. Hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono, hanno modi e “macchine” per conoscere ma non per capire. Noi li vediamo, e li piangiamo.
Diversamente magari potrebbero considerarsi quanti ritengono di poter sempre facilmente distinguere le opere d’arte da ogni altro prodotto d’uso comune o merce.
È un sentire collettivo radicato nel senso comune, ed ha pure un suo fondamento, o piuttosto lo ha avuto fintanto che tale distinzione la si è potuta fare rapidamente per analogia con le opere del passato, tradizionalmente riconosciute e riconoscibili come opere d’arte, di pittura, scultura, architettura ecc.
Ma intanto nell’epoca industriale questo fondamento inizia a vacillare, e si frantumerà ben presto; al punto che già nel secondo decennio del 900 un semplice pisciatoio di porcellana o un ferro da stiro si presentano come opere d’arte, e, abbiamo visto con Dada, una anonima illustrazione tecnica diventa un ritratto di donna.[51]

Nei decenni seguenti sembra proprio che il corso dell’arte visiva sia andato ad insidiare sempre più il pensiero filosofico sull’estetica figurativa che aveva ormai grande difficoltà (abbiamo visto il caso della scultura di Brancusi) ad individuare, fuori dagli ambiti deputati, quindi “aprioristicamente”, il suo proprio oggetto nel mondo stesso dell’arte figurativa postmoderna e attuale – figuriamoci fuori da esso.
Così può accadere, ad esempio, che ancora nel 1981 Arthur Danto, nel suo saggio – dal significativo titolo La trasfigurazione del banale [52] – continua ad andarsene in cerca di criteri ontici validi a stabilire, non tanto cosa fa di un mero oggetto “banale” un’opera d’arte, ma che cosa (piuttosto di “chi” o come) gli consente di esserlo; e noi, qui, potremmo anche rispondere, senza andarcene in giro sottobraccio ai grandi filosofi: “glielo consente il Mercato e il Capitale”.
Una risposta certamente istintiva da parte nostra, ma non priva di valore e di promesse critiche. Ecco l’esempio del nostro filosofo dell’arte:

L’anno scorso, ispirato da certe teorie dell’arte piuttosto famose, avanzate da Platone e da Shakespeare, J. [il suo ipotetico artista] ha esposto uno specchio. Il mondo dell’arte era pronto ad accogliere un evento di questo genere e nessuno ha sollevato la questione se si trattasse o meno di un’opera d’arte; ma la questione di cosa permettesse allo specchio di essere un’opera d’arte non è priva di un certo interesse filosofico…

Dunque, il nostro filosofo constata che “il mondo dell’arte era pronto ad accogliere”, che nessuno solleva questioni… e parte in cerca del sostegno di una stampella filosofica per far poggiare meglio questo enigmatico “pronto consenso” del mondo.
Ma il mondo era stato preparato in che modo, o da cosa?
Non certo dalla filosofia – che deve mettersi ad interrogare sé stessa (proprio come in uno specchio) invece di volgersi al mondo reale e acciuffare l’arte tra le imbrogliate leggi che regolano i reali rapporti tra gli uomini pronti, in una certa epoca della loro storia, ad accogliere proprio oggi un mero specchio come opera d’arte, così come erano pronti cinque secoli fa ad accogliere una tavola di Giovanni Bellini, o ancora nei primi anni del ‘900 un bronzo di Bourdelle… sempre con la medesima deferenza e ammirazione.
Certo non è facile per nessuno districare i nessi che legano la struttura economica di un periodo con la corrispondente sovrastruttura, ideologica, culturale, legislativa. Sappiamo bene che la sovrastruttura è multiforme, caotica, apparentemente indecifrabile per chi si accingesse a ricavarne le leggi che la governano. D'altra parte è così perché non è generata direttamente dalla struttura economica, altrimenti sarebbe la sua trasposizione perfetta anche in termini politici ecc.
La sovrastruttura è condizionata in generale, dice Marx nella Introduzione a Per la critica dell’economia politica, dal modo di produzione.
Questo significa che la sovrastruttura si adegua al modo di produzione e, siccome esso cambia nel tempo, adeguandosi lo segue, nel senso che la sovrastruttura cambia dopo che il modo di produzione è cambiato. Ma la sovrastruttura potrebbe portarsi dietro caratteristiche dei modi di produzione precedenti.
Ciò accade effettivamente, e quando succede a volte provoca anche nel mondo dell’arte quel vacillamento dei fondamentali che getta nel dubbio teorico i suoi più attuali fini pensatori, ma nel quale noi riconosciamo senz’altro il lavoro della rivoluzione: ben scavato, vecchia talpa, fin sotto il piedistallo dell’arte!
Come, ad esempio, sono spariti i capitalisti ma permane all’occhio la persona come stipendiato del Capitale, così, sparita l’arte e l’artista, possono permanere alla visione gli oggetti con i quali si è a lungo manifestata e le figure che la portano al mercato, con più o meno successo d’impresa.
Per il momento abbandoniamo questo filo del discorso, sempre pronti però ad afferrarlo quando si ripresenterà nuovamente per svolgerlo e metterlo in riga con i nostri intendimenti, per quanto sapremo farlo.


Kasten Höller, Test Site, Tate Galery 2006: “Per Carsten Höller, l'esperienza di scorrimento è ben riassunta in una frase del francese Roger Caillois quale 'il panico voluttuoso su una mente altrimenti lucida'. Le diapositive mostrano sculture a sé stanti, e bisogna sfrecciarvi dentro per apprezzare l'opera. Ciò che interessa all’autore è sia lo spettacolo visivo di guardare la gente durante lo scorrimento che lo 'spettacolo interiore' vissuto dagli scivolarori, la gioia e l’ansia che mostrano mentre sfrecciano giù.” (sic!)

Il quadro della situazione

La crisi dell’oggetto e del soggetto artistico potrà continuare ancora a rappresentare un dilemma per il pensiero ideologico della borghesia; se però la vedessimo alla luce della nostra teoria, là dove ci dice che il “modo di produzione capitalistico trasforma ogni cosa in merce”, e connettessimo questo suo carattere con le componenti del feticcio e dell’alienazione…, ecco spiegarsi in grandi linee quale è stato il processo “reale” che ha trascinato l’oggetto artistico tradizionale in un mondo dove ogni cosa si equivale e prende il suo unico valore solo dal mercato e non più da sé stessa.
Questa impostazione del problema non è affatto originale ed è stata condivisa da diversi studiosi, ed anche se non esaurisce tutte le questioni, aiuta perlomeno a non farci ingannare e sedurre dalle aure sacrali o dai paramenti sacerdotali – la perdita dell’aura dell’opera d’arte non è dovuta alla tecnologia della riproducibilità, che è un epifenomeno, ma allo sviluppo del capitalismo, che è il fenomeno prodotto nella convergenza coevolutiva delle forze di produzione sociale con il suo proprio sistema delle macchine.

Il vecchio metodo di indagine e di pensiero, che Hegel chiama “metafisico”, e che si occupava prevalentemente di indagare le cose considerandole come oggetti fissi determinati, e le cui sopravvivenze ossessionano ancora oggi fortemente gli spiriti, ebbe, a suo tempo, una grande giustificazione storica…. Se le scienze naturali furono fino alla fine del secolo scorso scienze prevalentemente raccoglitive, scienze di cose compiute in se stesse, nel nostro secolo la scienza è essenzialmente ordinativa, è scienza dei processi, dell’origine e dell’evoluzione delle cose e del nesso che unisce tutti i processi naturali in un grande tutto.[53]

Partita coi materialisti francesi del settecento, che raccolsero il corpo delle Arti triangolandolo con le Scienze e i Mestieri, la borghesia ha dovuto, prima e ben presto, rinnegare quei suoi esordi rivoluzionari e far poi tutto il possibile per dividere e mantenere separate e statiche tutte le cose che componevano il suo mondo.
Così, molte “storie dell’arte moderna” sono condotte in questa separatezza e la mantengono prolungando nella modernità i vettori (categorie estetiche) dedotti dai paradigmi precedenti, e incistandola in una specifica membrana nel corpo vivo della storia dell’uomo.[54]
Ma oggi, a ben guardare (al netto cioè delle inevitabili sopravvivenze fossili), sembra proprio che ogni sforzo del pensiero borghese in questo senso sia stato vano su tutti i fronti; e mai come oggi anche l’arte è sempre più “visibilmente” intrecciata con la scienza, la tecnica e la vita immediata dell’uomo; e l’insieme di tutte le particolari conoscenze appaiono oramai, anche intuitivamente, così intimamente connesse e aderenti all’ambiente del vivere umano che ignorare questo stato di fatto ci vieterebbe di comprendere alcunché del mondo reale.
Allora, il compimento pratico del programma filosofico della borghesia unitamente al compimento sociale del modo capitalistico sancisce il livello raggiunto dell’esaurimento storico definitivo di ogni sua funzione.
Già le prime rotture dei limiti dell’opera d’arte segnalano a modo loro che è iniziato uno stato di cambiamento di fase, che tuttora persiste e che si consuma nel corso di tutto il secolo trascorso.[55]
Gli stessi quadri di riferimento, istituzionali o personali, ne vengono sconvolti e continuamente ridiscussi; e alla fine trionfa la tautologia: l’opera d’arte è ciò che viene comunemente ritenuto opera d’arte!
Il superamento di vecchi paradigmi dell’arte possiamo verificarlo anche in Lukacs, essendoci casualmente imbattuti in questa sua affermazione risalente alla metà degli anni 50, in cui dice:

E’ vero, d’altra parte… che nell’arte tali concetti, idee, concezioni del mondo ecc. concretamente universali appaiono sempre superati nella particolarità; vale a dire, l’oggetto del lavoro artistico non è il concetto in sé, non questo concetto nella sua pura e immediata verità oggettiva, ma il modo come esso diventa fattore concreto della vita in situazioni concrete di uomini concreti…[56]

Alla metà degli anni 50 il paradigma era dunque che «oggetto del lavoro artistico non è il concetto in sé»; ed invece ecco che alla metà degli anni 60 si afferma l’arte concettuale, che appunto fa del concetto l’oggetto esclusivo del proprio lavoro artistico – che possiamo vederla manifestarsi esemplarmente da Joseph Kossuth.


Joseph Kosuth 1965, Una e tre sedie, sedia pieghevole di legno, fotografia di una sedia e ingrandimento fotografico della definizione del dizionario di "sedia" (sedia cm. 82 x 37,8 x 53, pannello fotografico cm. 91,5 x 61,1, pannello di testo cm. 61 x 76,2; Museum of Modern Art, New York.

Come si è potuta verificare da parte dell’arte figurativa questa presa in carico del concetto (linguistico, semantico, filosofico-estetico, storicistico, ecc. insomma: autoreferenziale e autocitazionistico…) è cosa su cui riflettere.
Ciò che al momento volevamo segnalare è il sospetto che alcuni osservatori specialisti non riescono a vedere nell’arte a loro contemporanea, non diciamo gli elementi che la rivoluzioneranno, ma neppure quelli che ne anticipano lo sviluppo – così ad es. Lukacs, appunto. Difatti, poco prima egli faceva riferimento ai vecchi paradigmi della tragedia greca e di Dante, Michelangelo e Shakespeare, Goethe e Beethoven. Il musicall e Rimbaud, Duchamp e Becket, Joyce e Schoenberg, sembrano proprio non dover e non volere fare i conti con l’estetica “marxista” istituzionale, la quale, proprio come tutta la cultura borghese può solo ripetere e perfezionare i concetti sviluppati nel corso della sua ascesa, del suo passato e del presente – che si illude di eternare.
Lungo il mezzo secolo che ci separa dai suoi (di Lukacs) prolegomeni sull’arte, intanto l’oggetto della nostra conversazione, ossia l’opera d’arte come oggetto, è andato perdendo sempre più una sua certa e definitiva fisionomia per presentarsi oggigiorno con il medesimo volto di ogni cosa possibile, e riflettere così l’attuale marasma economico, politico e sociale come proprio marasma artistico.
È facile immaginare come da questa situazione di continua rottura dei limiti delle forme e dei modi artistici, si pervenga infine ad uno stato in cui tutto e ogni cosa è suscettibile di convergere nell’ambito della produzione artistica, così come da quest’ultima di spandersi sopra e in ogni cosa del mondo che ci circonda.
È proprio a questo punto, allora, che il prossimo capovolgimento storico della prassi sociale potrà attuare in un unico colpo anche il capovolgimento dell’Arte, nella sua produzione e nei suoi oggetti… >

Eccomi qui: ve l’ho fatta!

Joseph Kosuth, la serie delle “Art as idea as idea” del 1968


Barnet Newman al lavoro nel suo studio di 100 Front Street, New York, Aprile 1961 (Photo: Fred W. McDarrah)
Barnet Newman 1949, Cerniera III (Ornement III) olio su tela cm. 182.5 x 84.9; Museum of Modern Art, New York.


Mark Rothko nello studio di New York, nel 1960 - foto di Rudy Burckhardt
Mark Rothko, “Untitled, 1969,” acrilici su carta intelata, cm.136.5 x 108.

Jackson Pollock nello studio di East Hampton, New York, 1950. – Jackson Pollock, Number 5, 1948, colori a olio su compensato cm. 240x120. 

Lo so fare anch'io

Qualcuno ha notato che il modo spontaneo di dipingere da parte dei pittori dilettati moderni ha i caratteri della pittura impressionista; ed è fuor di dubbio che in questa pittura si è espressa la componente “democratica” della borghesia moderna: il colore già miscelato nei tubetti dall’industria, pennelli, tele, materiali plastici già tutti pronti all’uso; ed ha creato anche un pubblico di massa ben disposto non solo verso l’immagine, ma anche a partecipare alla formazione dell’immagine, oltre che a negarla, rinnegarla e distruggerla – c’è un doppio legame che imprigiona tutti tra iconofilia e iconoclastia… e anche questo è un anello della catena che la rivoluzione spezzerà.
Oggi siamo veramente alla disgregazione della società capitalistica ma nello stesso tempo non è forse questa la prova che nella collettività umana dell'epoca capitalistica si sta preparando il fatto che tutti saranno liberi di
imbrattare tele… di fare pittura... ecc.? Non possiamo parlare di una specifica capitolazione della borghesia davanti al comunismo, ma ne ha tutta l’aria…

LUI – Lasciamo perdere la merda d'artista, ma un quadro di Pollock lo so fare anche io. Non sono un artista, non sono Pollock, non riuscirò a vendere una mia tela a 1 milione di dollari, però un quadro di Pollock lo so fare anche io.
LEI – Ma, parafrasando Marx, la difficoltà non consiste tanto nell’intendere che la pittura è legata a certe recenti forme di sviluppo sociale – maestro artigiano, abilità personale ecc. – ... la difficoltà è rappresentata dal fatto che queste tele imbrattate suscitano in alcuni un godimento estetico e costituiscano, sotto un certo aspetto, una norma e un modello da imitare… E la tua reazione istintiva “lo so fare anch’io”, è una conferma di questo fenomeno… tutto da indagare… Perché è qui che la faccenda ci si complica sotto le mani e gli occhi: non si tratta tanto della capacità di imbrattare, ma di avere una ragione per imbrattarla ed, eventualmente – se vuoi venderla – di riuscire a stimolare un qualche tipo di godimento a chi guarda l’imbrattato, giacché il tuo lavoro dell’imbrattare deve pur darsi uno scopo...

Ora, il semplice fatto – per altro discutibile – che tutti oggi sappiano fare un quadro informale vi apparirebbe ancora una cosa da poco se la mettessimo a confronto con l’alfabetizzazione di massa avviata necessariamente dall’industrializzazione?
Che dire, ad esempio, di un tale che credesse di svalutare Leopardi dicendo che anche lui è capace di scrivere L’infinito? Già, perché è fuor di dubbio che ne sia capace, se appena sa leggere e scrivere…
Ma tra le tante domande da porsi, una è da rivolgere immediatamente: a cosa serve riscrivere L’infinito quando è stato già scritto e appartiene alla conoscenza dell’umanità … o pensi solamente ad uno scopo che riguarda i borghesissimi e ignobili diritti d’autore?
Tutti sappiamo dipingere un quadro astratto.
Allora perché vuoi farlo anche tu?... Ne senti la mancanza, forse?
Non vedi la paradossale situazione in cui ti vuoi cacciare?
Se lo vuoi fare perché provi gusto nel pitturarlo, nel guardarlo appeso in casa tua o nel gesto di regalarlo a qualcuno… devi pure ammettere che questa pittura ti ha dato molto senza chiederti nulla in cambio... Saresti forse un ingrato?
O sei tu un essere talmente egoista da desiderare essere il solo a saper fare quel quadro?
Oppure un essere così patetico da credere di darla a bere e guadagnarci su qualcosina?
E poi, non ultimo, c’è del luddismo in questa sprezzante argomentazione: ”Lo so fare anch’io”. Non te lo impedisce certo nessuno, e non è cosa di poco conto. È un progresso reale anche se farai una brutta cosa, una cosa di poco conto o anche una cosa per nulla originale… Non ci vorrà nessuna autorizzazione … e non ci sarà nessun giudizio.

Proviamo tuttavia a dar corso alla sfida proposta di riprodurre un quadro di Pollock.
Dunque, fatelo pure, e alla fine vedrete che, per quanti sforzi imitativi abbiate fatto, non avete ottenuto la riproduzione di quel quadro di Pollock ma un quadro di cui esclusivamente voi siete gli autori.
E questo non tanto e non solo perché il vostro quadro non sarà “identico” al modello originale, ma semplicemente perché nell’esecuzione stessa del modello originale come della vostra tentata “copia”, sono messi in atto dei processi governati non più dalle leggi dell’ordine ma da quelle del disordine, e le caotiche variabili che hanno condotto all’originale di Pollock intervengono anche nel vostro per determinare un risultato che trascende il vostro totale controllo….
Ecco come la pittura “astrattista” può avervi reso un pittore comunque sia, più o meno capace o originale ma soprattutto, e questo importa, privo di ogni timore di esprimersi visivamente.
Privi, cioè di quel timore descritto da van Gogh:

…se si desidera essere attivi non bisogna aver timore di fallire né di sbagliare… Non c’è che da buttar giù qualcosa quando si vede una tela vuota che ci sta a guardare in faccia con una sorta di imbecillità...[57]

E quella vostra svalutazione iniziale della pittura vi si rivela adesso come una reale svalutazione di voi stessi.
Lasciamo da parte questo tipo di provocazioni spontanee; giocano un po', guadagnano immediatamente l’approvazione, però muoiono anche di fame… a meno di non mandare a segno una strategia personale che riconduce tali voglie di mimesi alla mimesi nell’alveo istituzionale delle tendenze artistiche sacramentate dal mercato.
Eggià!
La storia di tanto in tanto si concede all’ironia di farsi carico delle facezie dell’ingenuità umana e premiare chi ci ha saputo fare.
Accade così che nel 2011 il Leone d’oro per l’arte viene assegnato proprio ad una pittrice, Elaine Sturtevant [58], che ha fondato proprio sul plagio di opere di artisti famosi la propria pittura.
Come ce lo spiegano? Così:

…quest’attitudine [al plagio] è stata generalmente definita con il termine “appropriazione”, ma anche in questo caso sono molteplici le declinazioni che in esso si iscrivono. […]
…il doppio di cui ci si occupa, è un doppio che rasenta il plagio (o il furto) operato da un artista nei confronti di un altro artista; qualcosa che contraddice sia l’originalità, con il principio di invenzione, che l’autorialità e che destabilizza le attese dell’osservatore, necessariamente spaesato di fronte a un’opera che si presenta come replica di qualcosa che, al contrario, era nata come unica, all’interno del percorso di un determinato autore, della sua vita, della sua poetica. Sembra in questi casi sostituirsi alla poesia degli omaggi, delle passioni segrete o dichiarate che legano tra loro le opere e gli artisti, un’algida operazione concettuale di raffreddamento.[59]

Con ogni evidenza è una “attitudine” del tutto equivalente a quella che si attua comunemente, con meno dispendio o sperpero di energia e a beneficio di tutti, ogni volta che si mette o si condivide un post di immagine nei social network; con la differenza, infinitamente superiore, che quest’ultima attività se ne frega delle credenziali rilasciate da autorevoli e stimati istituzioni pubbliche o private dell’arte e dalla sua filosofante lobby.
Si possono fare altre interessanti considerazioni al proposito di questa “appropriation art”, ma l’unica che ci interessa è vederla come l’ennesima prova, semmai occorresse, che l’attuale formazione sociale non riesce più a dare corso ad ulteriori sviluppi delle proprie forze produttive, e allora segna il passo con l’originale dell’originale, dell’originale, dell’originale…, in attesa che nuovi e superiori rapporti di produzione rompano il cerchio allucinato delle coazioni.
L’imitazionismo o il plagio, il falso e il fasullo nell’arte divenuto palese appropriazionismo annulla la mala fede per accogliere nel sistema dell’arte anche quei caratteri essenziali del kitsch che in precedenza gli si contrapponevano.
Ed è forse proprio in quanto il sistema è arrivato concretamente a questo punto che abbiamo potuto formulare l’ipotesi che i caratteri del Kitsch possano descrivere lo “stile” artistico che manca per l’intera epoca del capitalismo maturo.
Sembra infine che tale ulteriore passo sia propriamente un ultimo passo che trasforma l’attuale “sistema dell’arte” in un “sistema d’impresa”, nel quale la scala dei valori è ordinata esclusivamente dal successo commerciale.
Anche così il capitale si sottomette sostanzialmente l’arte; ma è anche così che gli espropriatori vengono espropriati e la produzione sociale si libera finanche dell’illusione della genialità e creatività dei singoli.
Forse dovremmo chiudere questa prima parte delineando i caratteri dell’arte nella società comunista; ma non ci interessa per nulla e neppure perdiamo tempo ad immaginarceli. Possiamo tuttavia dire che ci stiamo arrivando con una conoscenza abbastanza estesa sulle possibilità dell’arte, con un repertorio di soluzioni figurali abbastanza nutrito, con le componenti elementari e i codici costitutivi della pittura abbastanza definiti se non definitivi e, soprattutto, con una umanità non intimorita di fare, quando preferirà, tanto l’arte che la pesca, la carpenteria o le patate.
Probabilmente fin qui abbiamo messo in ballo troppe questioni e sollevato problemi lasciati poi irrisolti.
Ma tutto ciò che è stato messo nel piatto da questo parlare attorno alle cose dell’arte non risulterà del tutto vano se è riuscito anche solo a far vacillare il rispetto e lo scontato riguardo nei confronti degli artisti, dell’arte e dei capolavori quel tanto da poterli guardare tutti senza timidezze per dirgli in faccia:
tenetevi pure i baffi, tanto vi abbiamo riconosciuti.

In alto: Elaine Sturtevant, Leone d’oro alla carriera della 54 Biennale d’arte di Venezia del 2011, davanti una sua opera dal titolo Eccomi qui: ve l’ho fatta! , un remake Handy Warhol del 1964 + 40 = 2004
Piero Manzoni 1961, l'artista che produce i suoi propri escrementi come
capolavori del XX secolo
Mike Bidlo 1983, Not Pollock (n. 5 1948). L’artista che riproduce fedelmente capolavori del XX secolo
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[50] . Vedi nømade n°14, ottobre 2017, pgg. 51-54, o anche nella corrispettiva pagina web del sito di Forniture Critiche. qui linkata.

[51] . Sarà poi negli anni ’50 che certi “atti mancati” (rimossi) dell’arte si ripresenteranno sulla scena dell’arte non meno che al ri-pensamento estetico; e ad iniziare da questa loro seconda volta, al pari dell’atto mancato freudiano, sembrano prendere un corpo stabile nell’analisi critica e nell’immaginario sociale…

[52] . Arthur C. Danto, La trasfigurazione del banale - Una filosofia dell’arte (The Trasfiguration of the Commonplace. A Philosophy of Art), Harvard University Press, Cambridge (Mass.) London 1981; ed. It. Gius. Laterza & Figli, prima edizione marzo 2008 (ed. italiana 27 anni di ritardo).

[53] . Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach. 1886-1888, Ed. Riun. p. 59.

[54] . Così in alcune possiamo leggere, ad esempio, come tra i “fondamenti” dell’arte moderna si argomenti sull’emancipazione del contenuto formale senza interrogarsi sulle condizioni reali e il processo materiale che ha portato a tale emancipazione, ecc. [Werner Hofman, I fondamenti dell’arte moderna (1987), Ed. Donzelli, Roma 1996].

[55] - Come abbiamo già ricordato in precedenza (cfr. nømade n°14, 2017, pgg.55 sgg.) tra il 1861 e il 1863 Marx fissava i termini economici della produzione non materiale in questi termini:
“Nella produzione non materiale, anche quando è esercitata unicamente per lo scambio, cioè quando produce merci, sono possibili due casi:
1) Essa ha per risultato merci, valori d’uso, che possiedono una forma indipendente, distinta dal produttore e dal consumatore; che quindi possono consistere in un intervallo fra produzione e consumo, possono circolare come merci vendibili in quest’intervallo, come nel caso dei libri, dei quadri, in breve di tutti i prodotti artistici che hanno una esistenza distinta dalla prestazione dell’artista che li eseguisce. In questo caso, la produzione capitalistica non può trovare che un’applicazione molto limitata. In quanto, per esempio, uno scrittore sfrutta per un’opera comune – una enciclopedia per esempio – tutta una serie di collaboratori. Qui si resta per lo più alle forme di passaggio verso la produzione capitalistica: i diversi produttori scientifici o artistici, artigianali o [intellettuali], lavorano per un capitale compratore comune, l’editore. È un rapporto che non ha niente a che fare con il modo di produzione capitalistico propriamente detto e che anche formalmente non può ricondursi ad esso. Il fatto che in queste forme di transizione lo sfruttamento del lavoro sia intensificato al massimo, non cambia niente alla cosa. >
2) La produzione non è divisibile dall’atto del produrre, come nel caso di tutti gli artisti esecutori, attori, insegnanti, medici, preti, ecc. Anche qui il modo di produzione capitalistico si attua in un ambito ristretto e non può aver luogo, per la natura delle cose, che in alcune sfere. Negli istituti di istruzione, per esempio, gli insegnanti possono essere semplici salariati dell’imprenditore dell’istituto, come è frequentemente il caso in Inghilterra. Benché rispetto agli alunni essi non siano lavoratori produttivi, lo sono rispetto al loro imprenditore. Questo scambia il suo capitale con la loro forza lavoro e si arricchisce mediante questo processo. Lo stesso si può dire per le imprese teatrali, i locali di divertimento, ecc. Per il pubblico è un artista, ma per il suo imprenditore è un lavoratore produttivo. Tutti questi fenomeno della produzione capitalistica in questo campo sono così insignificanti, paragonati all’insieme della produzione, che possono essere completamente trascurati... L’elemento caratteristico del modo di produzione capitalistico è appunto quello di separare e ripartire fra differenti persone i differenti lavori, intellettuali e manuali – o i lavori in cui prevale l’uno o l’altro aspetto; ciò che tuttavia non impedisce al prodotto materiale d’essere il prodotto comune di queste persone, o di oggettivare il loro prodotto comune in ricchezza materiale, e tanto meno impedisce che il prodotto di ognuna di queste singole persone sia, rispetto al capitale, quello di un operaio salariato, di un lavoratore produttivo nel senso eminente.”
K. Marx, Storia delle Teorie Economiche, I La teoria del plusvalore da William Petty a Adam Smith, ed. Einaudi, Torino 1954, pgg. 396-98.

[56] . G. Lukacs, Prolegomeni a un’Estetica Marxista, editori Riuniti, Roma 1957, pag. 189.

[57] - Lettera di Vincent a Theo, Nuenen 2 ottobre 1884 (n. 464-378.79).

[58] . Vedi qui nella pagina di fianco due opere esemplari di questi “appropiazionisti”, molto impropriamente definiti anche come “citazionisti”.

[59] . Lucilla Meloni, Arte guarda Arte, ed. Postmedia, Milano 2013, p. 79. – Vedi anche in Wikipedia la voce “Appropriation (art)”.




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