L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro comune . 2019
arteideologia raccolta supplementi
made n.22 Luglio 2024
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (appunti IV.1)

QUESTIONI DI STILE . 2

Modelli e luoghi comuni sull'avicendamento delle forme

STILE […] Per estensione, nelle arti figurative (con uso che risale al sec. 19°), l’insieme dei caratteri di un artista o di una scuola (in sostituzione di maniera, in uso dal sec. 16°, e gusto, in uso dal sec. 18°): s. classico, e s. dorico, ionico, corinzio, composito, nell’architettura e nella scultura greca e in genere classica e classicheggiante; s. bizantino, arabo, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, rococò, neoclassico, ecc., nell’architettura e nella scultura e pittura medievale e moderna (v. anche le singole voci). […] . Genericamente, modo abituale di comportarsi, di agire, di parlare; costume, consuetudine. (Da Vocabolario Treccani)

Nel susseguirsi temporale delle fasi artistiche sembra di andare avanti, di tornare indietro, e di procedere lungo un percorso accidentato, non univoco, non lineare.
Con ogni probabilità questo andamento attribuito all’evoluzione naturale (storica) dell’arte non riflette altro che il modo discontinuo, spesso personale, con il quale gli storici dell’arte hanno cercato (specialmente dall’epoca più recente del positivismo borghese) di descrivere l’intera storia millenaria di questa particolare branca dell’industria umana, facendolo però alla luce di categorie e nozioni che invece appartengono soltanto alla modernità, che sono cioè peculiari esclusivamente all’attuale forma sociale capitalistica.
Nei manuali scolastici, primari o secondari, sembra persistere un racconto della storia dell’arte occidentale che passa dall'arte antico classica – essenzialmente greca, che noi tutti abbiamo imparato a ritenere elegante, armoniosa e rispondente alla visione reale – a forme di rappresentazione, nell'Impero tardo romano e Bizantino, che appaiono più rozze e statiche o sia pure classicheggianti – come nell'Arte paleo-cristiana, che, attingendo alla statuaria pagana passa rapidamente dallo stile Bizantino a quello Romanico che innesta, ad esempio, ai capitelli classici figure di fantasia appena abbozzate, come se si fosse perduta la capacità e l’abilità di raffigurare la realtà.
Se prolungassimo questa visione semplicistica all’intera storia dell’arte, questa ci apparirebbe come un succedersi ciclico di guadagni e perdite di capacità e abilità nel rappresentare la natura.
Probabilmente avremmo l’impressione di vedere confermato un suo svolgersi parallelo nella società di un analogo movimento continuo di dissoluzione, ricomposizione e ridefinizione anche delle forme sociali, troppo simile al giudizio borghese sulle società del passato per non essere gravato dal pregiudizio teleologico che muoverebbe la storia verso la forma definitiva superiore dell’attuale capitalismo.
Se poi tale visione fosse realizzata cinematograficamente crederemmo di veder dimostrato sotto i nostri occhi l’intero processo cinetico di tutte le forme artistiche, dall’origine dell’arte ai nostri giorni, in un vivido succedersi, dopo la nascita dell’arte (ovviamente nella Grecia classica), di fasi alternate di epoche di dissoluzione e ricomposizione di certe forme artistiche ideali, ovviamente sottintendendo che tutte erano tese verso la realizzazione di un futuro e finalmente attualizzato modo di produzione superiore.
Una visione che potrebbe anche risultare grosso modo plausibile – e non per niente è comune tra gli estimatori del liberalismo borghese non meno che tra i lottatori del proletariato, entrambi costernati però di fronte alla completa mancanza di uno “stile” unitario per l’epoca presente. Una mancanza che magari i primi spiegano con il trionfo dell’individualismo e del libero arbitrio, i secondi come la provata dissoluzione della Gemeinwesen nella società capitalistica…ecc.
Ed è tra questi ultimi che già in precedenza abbiamo raccolto e commentato questo enunciato:

Non contestiamo l'invocazione del principio di partiticità dell'arte. Sentire anzi affermare detto principio contro astrattisti e formalisti, e in genere tutta la canaglia piccolo-borghese, può costituire un piccolo motivo di soddisfazione. Questa accozzaglia viscida e parassita, non solo imbratta tele e raccatta immondizie, ma esprime tutto il fondo melmoso della controrivoluzione”.[25]

Ora lasciamo perdere perché uno si mette a scrivere cose di questo genere, probabilmente facendo un colpo di mano nel giornale; ma noi, pur indifferenti al giudizio di gusto, come dovremmo analizzare il fenomeno dell’Arte attuale e contemporanea? Potremmo forse dedurne le leggi che realmente la regolano limitandoci al riflesso pavloviano (condizionato) di urlare contro una tela tagliata o a delle scatolette con dentro merda d'artista? [26]
Dobbiamo guardare tutto il prodotto di questa società: dal tubetto del dentifricio, al cappello del pubblicitario, dall'automobile alla poltrona su cui sediamo, dal quadro alla scultura, sia esso un capolavoro o un accrocco bizzarro. Non importa se l'artista fa una determinata azione o se tutti gli artisti contemporanei sono oggettivamente dei raccoglitori e accozzatori di immondizia urbana o di rifiuti storici. Noi abbiamo già visto e continueremo a discutere soprattutto proprio di quell’arte disprezzata in sommo grado.
Proprio in quanto siamo già teoricamente fuori da questa società, che ci disgusta da diversi decenni, non ci accontentiamo di assistere ogni giorno agli sviluppi del suo disfacimento; dobbiamo invece rintracciare, tra le sue forme del disfarsi, quelle che sono già gravide della società futura, senza tuttavia spingerci a preconizzarne le fattezze particolari oltre la fase rivoluzionaria.
Abbiamo visto che al primo congresso dei Proletkult, Lenin mette subito a tacere i rappresentati di tutti quei culturalisti che subito dopo la rivoluzione avevano cominciato a teorizzare l'esistenza o a progettare la creazione di una “cultura proletaria”, e toglie ogni autonomia e incarico a tutti i tirapiedi della vecchia società che hanno la prurigine di una nuova “cultura” prima ancora che il capovolgimento dei rapporti materiali abbia provveduto organicamente a modificarne le condizioni ambientali.
In queste faccende artistiche anche la borghesia era andata per le spicce chiamando pornografica la pittura degli impressionisti – quando le sue accademie intanto producevano e vendevano quadri con donne nude da appendere nelle garçonnières, lavandosi poi l’anima filistea con il classicismo e la Venere del Botticelli. Ed è proprio per scandalizzare questo tipo di borghese bacchettone e ipocrita che i pittori impressionisti andranno a dipingere scene direttamente nei bordelli per rispondere così come quel nano di Toulouse-Lautrec: "Io adoro dipingere puttane nei bordelli che sono un po' come le vostre mogli e le vostre case". Si era nell'epoca di una borghesia in ascesa, in piena rivoluzione industriale e si avevamo anche i prodotti artistici che la rivoluzione industriale si meritava di avere... dopo però aver liberato definitivamente (con la fotografia, la pantografia industriale ecc.) l’arte figurativa dall’onere sociale di riprodurre, con indole artigiana, le visioni della realtà circostante, di illustrare le storie degli uomini o decorare le loro stoviglie.
Ma torniamo alla visione di uno svolgersi ciclico dell’arte tra presunte fasi storiche di ascesa e dissoluzione spiegate come acquisti e perdite di capacità e abilità da parte dei lavoratori dell’industria artistica nel rappresentare la natura.
Questa visione sembra dura a morire anche se da oltre un secolo ha preso a vacillare sotto i colpi che gli hanno assestato coscenziosi studiosi di fine ottocento che, come il Riegl, hanno preso ad osservare le opere, non per l’uso o il significato ma solo per la loro forma artistica. Una osservazione messa alla prova non con la grande arte di epoche che offrono profusione di sublimi capolavori, ma con la produzione artistica di anonimi produttori durante una lunga fase comunemente ritenuta di “imbarbarimento”, decadenza e dissoluzione.

«Si crede che si sia aperto un incolmabile abisso tra la arte tardo romana e la precedente antichità classica. Mai, così si pensa, per una via di naturale sviluppo dell’arte classica sarebbe potuta derivare quella tardo romana. Questo punto di vista sembra strano specie in un tempo che ha posto il concetto di “sviluppo” a principio di ogni visione universale e di ogni spiegazione del mondo. E proprio solo nell’arte della morente antichità si dovrebbe eliminare l’idea di sviluppo? Una simile concezione sarebbe stata davvero inammissibile e così ci si aiutò nell’immaginare una formidabile rottura di questo sviluppo dovuta ai barbari. L’arte figurata sarebbe piombata giù dall’alto grado di sviluppo cui era stata portata dai popoli mediterranei dall’irrompere distruttore delle popolazioni barbariche a settentrione e ad oriente dell’impero romano così da dover dare inizio ex novo a uno sviluppo progressivo a partire dall’età di Carlo Magno. Il principio dello sviluppo era così salvato ma gli si era lasciato accanto il concetto della violenta intromissione di una catastrofe come già nella storia delle formazioni geologiche.
Però è tipico il fatto che nessuno si è mai dato la briga di esaminare più da vicino l’affermato processo di questa violenta rottura dell’arte classica per opera dei barbari. Si è parlato solo in generale di imbarbarimento e se ne sono lasciati i particolari in una nebbia impenetrabile ché, una volta distrutta questa, l’ipotesi non avrebbe potuto più reggere. Che cosa però si sarebbe messo al suo posto dal momento che valeva per acquisito che l’arte tardo romana non significa un progresso ma una decadenza? Spezzare questo pregiudizio è lo scopo principale di tutte le ricerche contenute in questo volume» [27]

Ciò che può essere interessante notare in questo brano di Riegl è principalmente la confutazione di una consolidata e diffusa visione dello svilupparsi dell’arte per punti “catastrofici” negativi. Noi lo noteremo più di altri dato che è proprio un modello catastrofico anche quello ereditato dalla Sinistra italiana, adottato per rappresentarci gli avvicendamenti dei regimi di classe, che passerebbero dall’uno al successivo non secondo una curva continua discendete che riprende ad ascendere sinuosamente, ma con uno schianto e un balzo ad un livello superiore. Forse per ciò stesso dovremmo respingere la visione storica di Riegl per l’arte?
Se non siamo qui per celebrare Cesare, neppure siamo qui per ucciderlo. Questo lo lasciamo fare ai filistei.
Se invece siamo qui per trarre dei benefici – s’intende conoscitivi – in un primo luogo dovrebbe venire subito alla luce che qui lo storico pone alla base della sua sensibilità storiografica la visione (allora e ancora “rivoluzionaria”) dell’evoluzione darwiniana, e questo dovrebbe, in qualche modo, rassicurarci.
In un secondo luogo dovremmo richiamare alla mente quanto abbiamo già ricordato circa il “metodo di Marx” – certo riepilogato da un economista russo [28] ma che Marx stesso approva nel proscritto al Capitale del 1873: "che cos'altro ha rappresentato l'egregio autore se non il metodo dialettico?”.
Ecco dunque cosa questo autore ci dice per raccapezzarci in questo frangente:

"I vecchi economisti, confrontando le leggi economiche con le leggi della fisica e della chimica, mostravano di non aver capito la natura... Un'analisi più approfondita dei fenomeni ha dimostrato che la distinzione fra i vari organismi sociali è altrettanto fondamentale di quella fra organismi vegetali e gli organismi animali... Anzi, il medesimo fenomeno ubbidisce a leggi differentissime in conseguenza delle differenze fra la struttura complessiva di quegli organismi, della variazione dei loro singoli organi, delle distinzioni fra le condizioni nelle quali gli organi stessi funzionano, ecc.” [29]

Ora, a ben guardare, una qualche conferma alla rispondenza teorica di questa concezione discretizzante la si potrebbe ravvisare anche in una lettera di Engels del 1890:

“…le forme politiche… le forme giuridiche, e persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi partecipano le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose e la loro evoluzione ulteriore fino a costruire un sistema di dogmi – esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di esse che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (cioè di cose e di avvenimenti il cui legame intimo reciproco è così lontano o così difficile a dimostrarsi, che possiamo considerarlo come non esistente, che possiamo trascurarlo). Se non fosse così, l’applicazione della teoria [“concezione materialistica della storia”] a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado”.[30]

Ed inoltre, nella medesima lettera possiamo trovare esposta, tra la spiegazione di certe necessarie semplificazioni teoriche generali, anche il corollario alla riconosciuta diversità (per forma e “leggi differentissime”) dei vari organismi sociali, e pertanto, quando si giunge ad “un [determinato] periodo della storia”, le cose cambiano e non si possono più assolutamente più trascurare certe specificità peculiari degli organismi sociali.

“Il fatto che i giovani talora annettono al lato economico un’importanza maggiore di quello che gli spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari noi dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre il tempo, il luogo e l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione reciproca. Ma non appena si giungeva all’esposizione di un periodo della storia, cioè all’applicazione pratica [della nostra teoria], la cosa cambiava e nessun errore era possibile. Ma purtroppo accade anche troppo frequente che si crede d’aver perfettamente compreso una nuova teoria e di poterla senz’altro maneggiare, non appena ci si è appropriati dei princìpi essenziali e per di più non sempre in modo esatto.” [31]

Se ora ci fosse consentito raccogliere le forme politiche, giuridiche, filosofiche ecc., e dunque anche artistiche, come “prodotte” da altrettanti distinti organi sociali, ci troviamo a dover considerare le specificità di funzionamento di ognuno di tali organi in determinate condizioni… eccetera.
Insomma, questo ci aiuta a mettere un po’ d’ordine, soprattutto a non confrontare rozzamente i fenomeni artistici con altri fenomeni sociali. Nella società ogni fenomeno è governato da leggi proprie, tanto differenti quanto differenti sono le strutture complessive degli organismi che partecipano ad influenzare (“in molti casi in maniera preponderante” precisa Engels) la forma sensibile con la quale si manifestano. Dunque, possiamo dire sbrigativamente, che un modello diagrammatico di tipo “catastrofico” può risultare efficiente, ad es., per le funzioni dell’organo “partito” (come certamente lo è per il nostro “programma” storico in attesa di una forma storica concreta), tuttavia… non appena si giunge all’esposizione di un [determinato] periodo della storia, cioè all’applicazione pratica [della nostra teoria], la cosa cambia… e non si più sbagliare… E necessariamente cambia ancor più non appena si giunge all’esposizione di una particolare fenomenologia di forme, ad esempio quelle artistiche : allora “la cosa cambia e nessun errore dovrebbe essere possibile”...
Allora, ecco che ad esempio il nostro Riegl, si prende “la briga di esaminare più da vicino l’affermato processo di questa violenta rottura dell’arte classica per opera dei barbari” …
Intendiamoci bene: qui non interessa affatto cercare una inesistente intesa consapevole tra la concezione materialista di Marx e quella di Riegl – come qualcuno tra noi ha giustamente paventato – per farne magari un seguace inconsapevole; e neppure cercare il grado di scientificità dell’uno o dell’altro. È semplicemente accaduto che leggendo il suo studio sull’industria artistica tardoromana sono emerse fin da subito parecchie risonanze con la nostra comune visione del mondo, che abbiamo cercato di spiegarci, ed ora proviamo a darne conto anche a voi. Per intanto, prima di continuare a sbirciare tra qualche altro brano di questo storico, vogliamo confessarvi di aver cercato una qualche concreta ragione anche alla preferenza che stiamo dando a certi studi sull’arte di fine ottocento, al di là e oltre l’ovvia ragione che proprio in quel periodo – come abbiamo già visto – inizia a svilupparsi e consolidarsi una nuova concezione teorica e pratica dell’arte orientata verso le forme particolari e specifiche dei vari mezzi espressivi (quasi inevitabile, quando si vuole esaminare più da vicino l’oggetto circoscritto in sé); concezione che noi, con valore esteso, abbiamo appunto indicato con il termine di “formalismo”. E per spiegare a noi stessi questa preferenza, è riemersa ancora quell’osservazione che Marx svolse per la “scienza economica borghese” posteriore al 1830, ma che possiamo anche indirizzare al pensiero artistico di tutti i periodi fino ad oggi.

«… non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica.». [32]

Non è per compiacere un occasionale giudizio di Marx, ma più ci avviciniamo e inoltriamo nel 900, più manchiamo di incontrare (ma potrebbe essere a causa di una nostra insipienza) dei pensieri saldi e rigorosi capaci di offrire una visione unitaria sull’avvicendarsi delle epoche storiche della produzione artistica; dei pensieri, cioè, che non salgono sul ring a menar pugni, ma capaci di abbracciare e spiegare il corso dei mutamenti sul filo della continuità e dell’invarianza millenaria dei prodotti artistici, senza introdurre la volontà e l’arbitrio personale, senza ricorrere al sostegno di fattori esterni all’opera, senza cercare consolazione nelle opinioni consolidate dalle mitologie e ideologie passate o contemporanee.
Così, ad esempio, Ernest Gombrich (1909-2001) riassume, nel 1951, quella che chiama la “moda” tedesca di lavorare nel campo della storia dell’arte con coppie di concetti contrastanti introducendo, dice lui, delle false dicotomie a cui tuttavia riconosce un indubbio valore euristico, ad iniziare proprio dalla coppia tattico–ottico di Riegl (1958-1905) e proseguendo con quella idealismo–naturalismo di
Dvorák (1841-1904), fisioplastico–ideoplastico di Verwon (1863-1921), molteplicità–unità di Wolfflin (1864-1945), paratattico–ipotattico di Coellen (1875-1945), astrazione–empatia di Worringer (1881-1965).
E lasciamo perdere che la confutazione di Gombrich si basa su un altrettanto presupposto personale – se non falso, fasullo – divenuto di moda nel corso del 900 grazie alla narrativa psicologica dell’animo umano [33] specializzatasi nella teoria della percezione visiva.
A noi è sembrato che Riegl, e altri studiosi a lui più o meno coevi, si prepara ad osservare [34] l’oggetto artistico dell’antichità proprio nell’epoca in cui lo sviluppo brutale del capitalismo industriale aveva iniziato a mandare in frantumi le vecchie certezze materiali e spirituali e ne servivano di nuove, prive di illusioni, per comprendere e adattarsi alle mutate condizioni sociali. Una concomitanza, questa, che avrebbe favorito l’osservazione attenta (seppure con la strumentazione euristica di un dualismo di moda) del materiale empirico di una altrettanta simile transizione di fase, ovvero quello prodotto nell’agonia dell’impero romano, nel quale intravede i sintomi dell’affiorare di una “volontà artistica” rivolta a nuovi valori, il cui pieno sviluppo lo trovava peraltro confermato nei materiali artistici delle epoche successive.
Così, ad esempio, riguardo la rappresentazione dello spazio e la prospettiva, svolge delle considerazioni introduttive alle analisi particolari che si appresta e fornire:

Nessuno dubita che la posizione moderna in tutti i campi nei quali si può esercitare la volontà umana, offre vantaggi positivi di fronte al mondo antico: così nella natura dello stato, nella religione, nella scienza. Per permettere però alle moderne condizioni di affermarsi, si dovettero infrange le basi sulle quali era stato costruito l’antico stato di cose e far posto a forme di transizione che in sé certamente ci possono piacere anche meno di certe forme antiche, ma la cui importanza, quali gradini necessari per le forme moderne, non può venir posta in dubbio. Così per esempio lo stato dioclezianeo-costantiniano ha contribuito in misura decisiva alla moderna emancipazione dell’individuo entro la massa, per quanto la sua dispotica forma esterna di regime possa piuttosto destare disgusto di fronte a quella ateniese dell’età di Pericle o a quella romana dell’età della Repubblica. In modo del tutto simile, appare chiaro il rapporto nelle arti figurative. Nessuno dubita per esempio che la prospettiva lineare sia applicata in modo più esatto e completo nell’arte moderna [35] che non nell’arte antica. Gli antichi nelle loro creazioni artistiche partivano da determinati presupposti … per cui non era loro possibile farsi una chiara idea della nostra moderna concezione della prospettiva lineare. Ora l’arte tardo romana non mostra certo di osservare la prospettiva lineare come noi moderni, anzi sembra piuttosto allontanarsene ancora di più se la si confronta con la trascorsa antichità; ma essa ha messo alla creazione artistica delle nuove basi al posto delle antiche sulle quali si poté poi, nell’era seguente, sviluppare a poco a poco la moderna prassi della prospettiva lineare. Non si afferma assolutamente con questo, e va subito asserito in modo decisivo per evitare un facile malinteso, che l’arte tardo romana abbia avuto solo il compito negativo di distruggere per far posto alle nuove creazioni. Piuttosto anche l’arte tardo romana si è sempre lasciata guidare da scopi positivi; solo che finora essi sono stati misconosciuti essendo lontani dagli scopi correnti dell’arte moderna e da quelli, ad essa collegati in certa misura, dell’arte classica e della augustea-traianea.[36]

In questo brano ci è parso interessante per noi, aver posto qui in primo luogo una incondizionata precondizione “antiformista” nei confronti del vecchio ordine per far posto a nuove forme che, per quanto possano apparire peggiorative delle precedenti, rappresentano tuttavia i gradini necessari per raggiungere l’affermarsi di nuove forme, superiori alle antiche. In secondo luogo è interessante aver chiarito che la continuità dell’arte ha radici più profonde dell’abilità e delle capacità realizzative dei singoli, ma fonda le sue basi particolari su quelle ben più concrete e determinanti costituite dai rapporti materiali di produzione, e dunque anche dai nuovi valori immateriali che li accompagnano.

“Come accade per altri miti sociali dell’epoca moderna, la moda ha poco a che fare con l‘individuo, l’individuo a poco a che fare con la moda, i loro contenuti si sviluppano come mondi evoluzionisticamente separati […]…a dare loro un carattere di oggettività autonoma, voglio … indicare un ulteriore momento che risulta in questo senso di contenuto assai efficace. Penso alla pluralità degli stili con cui ci si presentano gli oggetti che vediamo ogni giorno – dal modo di costruire le case alla rilegatura dei libri, dalle opere delle arti figurative alla struttura dei giardini e all’arredamento delle stanze, in cui si insediano l’uno accanto all’altro il Rinascimento e lo stile giapponese, il Barocco e lo stile impero, lo stile preraffaellita e i canoni di un utilitarismo realistico. Questa è la conseguenza dell’estensione del nostro sapere storico che è anch’esso in rapporto di interazione con quella volubilità dell’uomo moderno che è stata messa in evidenza. La comprensione della storia richiede una grande flessibilità mentale, una capacità di proiezione empatica nelle strutture più lontane dal nostro stato e di riproduzione in noi stessi; infatti, ogni storia, per quanto tratti di cose visibili, ha senso e può venire intesa solo come storia di interessi, sentimenti, aspirazioni che ne costituiscono la base: persino il materialismo storico altro non è che una ipotesi psicologica. Per appropriarsi del contenuto della storia è richiesta una grande capacità di immaginazione e di riproduzione, una sublimazione interiore della variabilità. Le inclinazioni storicizzanti del nostro secolo, la sua incomparabile capacità di riprodurre e di rendere vitale ciò che è più lontano – in senso temporale come in senso spaziale – è soltanto l’aspetto interno del potenziamento universale della sua capacità di adattamento e della sua generale mobilità. Di qui la varietà sconcertante degli stili che nella nostra civiltà vengono accolti, rappresentati, compresi.
Se ogni stile è una lingua dotata di suoni e inflessioni particolari e di una propria sintassi per esprimere la vita, finché ne conosciamo uno solo, col quale modelliamo noi stessi e il nostro ambiente, lo stile non si presenta alla nostra coscienza come una potenza autonoma che vive una propria vita. Nessuno sente nella propria lingua madre, nella misura in cui la parla con scioltezza, la presenza di una legalità oggettiva, alla quale debba riferirsi come a qualcosa di trascendente il soggetto, per ricavare da essa la possibilità, in base a norme che sono da lui indipendenti, di esprimere la propria interiorità. Piuttosto ciò che viene espresso e l’espressione stessa sono in questo caso immediatamente la stessa cosa e noi non sentiamo la lingua materna come un’entità autonoma che si sta di fronte, come quando impariamo una lingua straniera. >

Così gli uomini che possiedono un solo stile unitario che informa tutta la loro vita presenteranno lo stesso stile connesso in modo non problematico ai contenuti della loro vita medesima. Tutto ciò che creano e vedono si esprime naturalmente in esso e in nessuna occasione psicologica questo stile si separa di contenuti materiali di questa creazione o da questa visione per porsi di fronte all’Io come una struttura dotata di origine propria.
Solo quando è disponibile una pluralità di stili il singolo stile si separerà dal suo contenuto in modo tale che di fronte alla sua autonomia e alla sua autonoma significatività esista la nostra libertà di sceglierne uno oppure un altro.
Con la differenziazione degli stili ogni singolo stile, e quindi lo stile in generale, diventa qualcosa di oggettivo, che vale indipendentemente dal soggetto e dai suoi interessi, dalle sue attività, dai suoi piaceri o dispiaceri. Il fatto che tutti i contenuti visivi della nostra vita culturale si siano distinti in una pluralità di stili sopprime quel rapporto originario con essi in cui soggetto e oggetto sono ancora per così dire indissociabili e ci pone di fronte ad un mondo di possibilità espressive che si sviluppano secondo norme proprie, un mondo di forme di espressione della vita tale che queste forme, da un lato, e la nostra soggettività, dall’altro, siano come due partiti tra cui domina un rapporto puramente casuale di contatti, armonici o disarmonici.
Questo è dunque, approssimativamente, l’ambito in cui la divisione del lavoro e la specializzazione, in senso sia personale che oggettivo, portano avanti il grande processo di oggettivizzazione della cultura moderna [di mercificazione, diremo noi, senza alcuna inflessione spregiativa].
Di tutti questi fenomeni si compone il quadro complessivo in cui il contenuto della cultura diventa sempre più, e sempre più consapevolmente, spirito oggettivo, non soltanto nei confronti di quelli che lo recepiscono, ma anche nei confronti di quelli che lo producono. Nella misura in cui questa oggettivazione procede, diventa più comprensibile quello strano fenomeno dal quale sono partite le nostre riflessioni: il potenziamento culturale degli individui può restare notevolmente arretrato rispetto a quello delle cose, sia tangibile che funzionale e spirituale”. [37]

Un controverso studioso ci può descrivere una sua osservazione riguardo un aspetto facilmente rilevabile da tutti al cospetto dell’arte moderna, che, diversamente da Riegl, si riferisce più chiaramente all’arte della prima metà del novecento.

Quando ci si sia resi conto della validità naturale e illimitata che prìncipi del genere, pur originari della tecnica, hanno anche in ambito non tecnico, si diffiderà di quel popolare pregiudizio che nega alla nostra civiltà uno “stile”; pregiudizio che del resto all’epoca del suo sorgere – con molta probabilità nella cerchia di Nietzsche – era forse più giustificato di oggi. A tale proposito dobbiamo rivolgere ancora una volta lo sguardo alle arti moderne. Infetti i campi poco adeguati all’alta razionalità della nostra cultura non sono più quelli dove ontano soprattutto i modi di vedere, i prìncipi, perché il principio puro e “immateriale” fa parte anch’esso del suo mondo stilistico, bensì i campi in cui pur volendosi produrre un effetto specifico e calcolabile non si è sicuri di raggiungerlo: e ciò può dirsi appunto delle forme più moderne della musica, pittura e poesia. Tendenzialmente esse aspira all’effetto isolato, puro ed assoluto, ma non possono valutare con esattezza la probabilità della riuscita, ed è questa la ragione più profonda per cui devono provvedersi di un’altra garanzia di successo, supplementare ma necessaria, e di azione più sicura: un’instancabile propaganda.
Questo mirare all’effetto puro e irresistibile non impedisce ad ogni modo di razionalizzare il processo lavorativo stesso, che può essere ridotto ad esempio alla più parsimoniosa riproduzione dell’immagine pensata: Picasso, come riferisce Misia Sert, dipingeva in una sola giornata parecchi quadri. La sua produttività supera quindi quantitativamente di gran lunga quella di un Renoir il quale, a detta della stessa autrice, per ciascuno dei sette od otto ritratti che dipinse di lei la fece posare, almeno per un mese, tre volte alla settimana, e ogni seduta durava una giornata intiera.
Rammentiamo questo caso, perché ci sembra avere significato esemplare. Gli artisti, gli scienziati, ecc. agirebbero in fondo ragionevolmente e “adeguandosi” alle leggi del secolo se non esigessero più per le loro produzioni “durata” e “validità extratemporale”. Produrre calcolando a priori la rapidità dello smercio sul mercato corrisponde non soltanto alla categoria di una società informata dalla tecnica, nella quale il consumo è divenuto parte integrante del progresso: è ciò che accade quando Bernard Buffet dipinge in dieci anni 2000 quadri.
Anche l’impressione provocata dall’opera di un artista è instabile, è una massa di stimoli che dopo un determinato periodo di tempo si disgrega, e a questa fuggevolezza dell’effetto non sarebbe adeguata un’accuratezza troppo grande nella sua preparazione. [38]

Certamente così non viene spiegata né l’arte contemporanea né quella di Picasso o Dubuffet, ma ci dice qualcosa di più aggiornato sullo sviluppo storico di quei rapporti più diretti tra arte e produzione materiale, già mostrati esistenti nella continuità tra pratiche produttive diffuse di un’epoca e il linguaggio artistico coevo [39].
Nel Quattrocento – dicevamo – “era il mercante colto e devoto che costruiva con pietra, marmo e laterizi tagliati e sagomati ; ora – cinque secoli dopo – è il grande industriale che dispone di materie plasmabili da gettare in stampi e dare forma ad una forma. Lo stampo (modello) presuppone sempre la riproduzione dell’originale, la macchina e l’elettricità faranno il resto che manca per riprodurlo invariato in una serie infinita di originali, altrettanto farà l’artista per riprodurlo variato in una massa di singoli stimoli personali: duemila quadri in dieci anni.
Successivamente, la digitalizzazione delle istruzioni da dare al dispositivo strumentale, altro non fa che velocizzare i tempi di realizzazione e, ridotto e quasi annullato il lavoro versato all’oggetto prodotto, non fa intravedere più alcun legame del lavoratore con l’oggetto realizzato. Sembra che tanto più l’uomo ripone le capacità che gli sono proprie fuori da sé stesso, tanto più i suoi prodotti si fanno avanti con le loro proprie pretese di autonomia autopoietica.
Così quello che agli inizi della produzione di merci poteva descriversi per Marx ancora come una fenomenologia del feticismo, con l’automazione attuale sia del lavoro sia dell’intelligenza, il feticismo prende a bazzicare la paranoia.

Un'epoca senza stile?

Tranne la nostra ipotesi del Kitsch come stile, sembrerebbe che a detta di molti e per la prima volta nella storia, la forma capitalistica ultramatura non presenti uno specifico stile artistico dominante, simile a quelli elencati nei manuali scolastici: arte egizia, mesopotamica, greca, romana, antico-classica, bizantina, romanica, gotica, rinascimentale, barocca, neoclassica, romantica, Art Nouveau… e infine – con termine temporale e non qualitativo: arte moderna.
Si tratterebbe allora di stabilire se tutto ciò che viene mostrato negli ambiti istituzionali dell’arte attuale possa avere le qualità comuni tali da rappresentare uno stile particolare, specifico dell’epoca attuale del capitalismo – e che magari nell’epoca successiva sarà considerato lo stile dell’ultramaturità borghese, o, nella nostra visione, quello che ha caratterizzato la dissoluzione del modo capitalistico, cioè l’ultimo stile artistico della preistoria umana. Sarà forse quello di un’epoca che già viene definita come “postmoderna” e improntata all’eclettismo, al dilettantismo, al sincretismo, all’indifferenza pratica e teorica tanto nel produrre che nel consumo estetico? [40]
Così come le società antiche si dissolvono in quelle che le seguono, anche nelle forme cosiddette artistiche c’è stato ed è tuttora in atto un processo organico di dissoluzione e ricomposizione della forma e delle morfologie visive.

Per quel che concerne poi gli ambiti ideologici maggiormente campati in aria, religione, filosofia, ecc., questi hanno a che fare con un patrimonio che risale alla preistoria e che il periodo storico ha trovato e si è accollato – quella che oggi chiameremmo stupidità. Il fattore economico è alla base di queste varie idee sbagliate sulla natura, sulla stessa condizione umana, su spiriti, forze magiche ecc. per lo più solo in modo negativo; il basso sviluppo economico del periodo preistorico ha come complemento, ma talvolta come condizione e persino causa, le idee sbagliate sulla natura. E anche se l’esigenza economica era ed è sempre più divenuta il principale impulso per la progressiva conoscenza della natura, sarebbe da pedanti voler cercare cause economiche per tutte queste stupidità primitive. La storia delle scienze è la storia della graduale eliminazione di questa stupidità, ovvero della sua sostituzione con stupidità nuove, ma sempre meno assurde. Coloro che provvedono a ciò appartengono a loro volta a determinate sfere della divisione del lavoro, e presumono di trattare un ambito indipendente. Ed in quanto essi formano all’interno della divisione sociale del lavoro un gruppo autonomo, le loro produzioni, compresi i loro errori, hanno un influsso che si ripercuote sull’intero sviluppo sociale, persino su quello economico. [41]

Alle parole di Engels potremmo far seguire quelle del matematico Renè Thom e carpire anche la pregnanza universale che forse è alla base del godimento o della commozione che risuona nella nostra esperienza dell’opera d’arte.

Senza dubbio scienziato e artista cercano entrambi di spostare sempre più oltre i limiti dell’intelligibile ma lo scienziato non ha la libertà ludica dell’artista, assoggettato com’è alla regola imperativa di dover essere compreso. La scienza non può fare altro che proseguire nel suo compito di esaminare obiettivamente i fenomeni; progredisce accumulando fatti, ma sul piano delle idee il suo percorso rammenta quello di Sisifo… Quanto all’arte, essa non progredisce ma manifesta, al cospetto del mondo, il voler-essere ininterrotto dell’Uomo. [42]

Un essere dell’Uomo non certo inteso nella sua singolarità (relativa) ma nella sua pienezza (universale) di specie; e l’ininterrotto volerlo non può che richiamare il suo inconscio ottico al filo rosso delle società collettivistiche che ricongiungono il suo spirito frantumato all’umanità, che così risuona

Nessuno stile in particolare ma tutti i precendenti

Una connessione possibile tra l’arte e in nostro modo di procedere è rappresentata dall’argomento che riguarda la scarsa eventualità che un sistema superiore sviluppi le sue morfologie con le medesime dinamiche di una fase superata. Come comprendiamo, ad esempio, che l’odierna fase del capitalismo non produrrà quelle forme di aggregazione di sociale prodotte nella fase precedente (sindacati, partiti, ecc), comprenderemo anche che all’interno dello sviluppo di un sistema si succedono differenti modi di espressione per ogni fase del suo sviluppo (successione degli stili).
Qualcuno di noi ha formulato questo tipo di osservazione:

L’ultimo livello di un processo storico è comprensivo di tutti i livelli precedenti.
Iniziamo procedendo all’indietro nel tempo, un po’ come se risalissimo da “n+1” agli “n” precedenti.
Alla borghesia la storia non riserva alcun futuro, e questa privazione fa di essa l’ultima classe.
Arrivata a questo suo punto estremo la borghesia non può, come si dice, rispecchiarsi in un organico (armonico, statico) stile artistico particolare. Allora si appropria di ogni cosa e di tutti gli stili delle epoche passate, ispirandosi (meccanicamente o criticamente, è un problema di qualità) a tutto ciò a cui l'umanità precedente ha dato forma (si rivolge al flusso delle immagini): dalle pitture delle caverne all’arte rinascimentale, alle maschere africane, alla fotografia e al cinema, come attingendo da un catalogo che comprende l’intero l'arco dei 2 milioni di anni della storia umana. È così che attualizza l’intera morfologia, e rimette in gioco l’intero armamentario dell’arte…

… Come per poterlo consegnare, al momento della sua definitiva liquidazione storica, alla nuova società? … Se questa però ne accetterà i lasciti – ci viene di aggiungere.

Ciclicità

E’ capitato altre volte che in determinati periodi l’arte si sia soffermata programmaticamente (e vistosamente) a riflettere su se stessa; così nel periodo del Manierismo, per approfondire ed ampliare le recenti conquiste del Rinascimento, così nei primi decenni dell’Ottocento per recuperare storicamente e riutilizzare tutti gli stili del passato, così nella fase aperta dal secondo dopoguerra per passare a riflettere sull’intera storia dell’arte e le singole componenti del suo specifico linguaggio. Sembrerebbe proprio essere attualmente nelle prese di un ciclo ricorrente di fasi di bilancio, se non fosse che questa ultima che viviamo ha tutta l’aria di una fase di definitiva chiusura di tutti i bilanci precedenti.
La possibilità di questi cicli di forme è stata anche avanzata da Wylie Sypher e da altri.

« Recentemente un certo numero di critici d'arte continentali (Karl Scheffler, Gustav Rene Hocke e Walter Friedlaender) hanno sostenuto come le arti del diciannovesimo secolo abbiano seguito uno sviluppo analogo a quello del precedente ciclo artistico che va dal periodo classico al manierismo, al barocco e al rococò. Il parallelismo tra questo ciclo e le varie fasi dell’arte del diciannovesimo secolo può essere molto facilmente tratteggiato.»
E aggiunge: « Questo mutamento indica un intervallo rilevabile nei cicli dell’arte occidentale, di integrazione, disintegrazione e reintegrazione degli stili. I più ampii di questi cicli appaiono percorrere tutti i molteplici cambiamenti che vanno dall'arcaico, al classico, al barocco al romantico, all’arte naturalistica; alla quale segue poi una reintegrazione dello stile in una nuova forma di arte astratta. Questo grandioso ciclo è forse percepibile nel passaggio dall’arte dell’Ellade all’arte ellenica, a quella greco-romana e infine a quella bizantino-romana.» [43]

Mentre il Settecento, l’epoca dei lumi e della borghesia rivoluzionaria, era stato capace di creare dei nuovi sistemi, l’Ottocento, con la sua borghesia consolidata, sembra accontentarsi di studiare e riprodurre i sistemi e le forme già esistenti. Ciò è particolarmente evidente nell’architettura di quest’epoca, nella quale il concetto di “stile”, formatosi nell’epoca dei Lumi, avrà uno sviluppo con gli studi storici così da fornire all’architetto dell’ottocento una scelta ben ordinata e pronta all’uso di forme architettoniche storiche da imitare, variare o interpretare, tali da rendere inutili e quasi insensato affaticarsi su questioni estetiche in cerca di uno stile personale ed originale.
I nuovi committenti erano in gran parte self-made man, impenitenti individualisti che non avevano scrupoli sociali o estetici; e se per qualsivoglia motivo prediligevano uno stile particolare non esitavano ad imporlo per costruire in quello stile una casa di abitazione o un edificio industriale, un palazzo per uffici o la sede dei loro club esclusivi.
E disgraziatamente questi committenti avevano a disposizione un numero illimitato di stili possibili, resi disponibili grazie ai supercolti conoscitori del settecento. La divisione e la specializzazione del lavoro, l’introduzione delle macchine e l’inizio della produzione industriale in serie, non sono certo estranee e favoriscono questo andazzo della produzione artistica. Nelle nostre città possiamo individuare agevolmente i risultati di tutto questo: edifici a dir poco eclettici nella composizione, bizzarri nelle forme, ibridati nei decori, in una parola: pittoreschi.
Un dibattito particolarmente vivace e animoso si svolse tra i fautori della “riviviscenza greca” e quelli della “riviviscenza gotica”. Ma il linguaggio dello stile neo-gotico non poteva contare su elementi consolidati dalla più recente tradizione neoclassica; doveva ricostruire i principi, le ragioni e i motivi del lontano stile medioevale mettendole alla prova dei tempi (e dei suoi capricci) sotto i cui colpi il rapporto imitativo (specialmente prospettico) poco a poco si consumò per penetrare oltre le apparenze formali e scalzare i fondamenti da cui dipendevano tutte le abitudini correnti.
E poiché molte correnti revivaliste, ispirate ad ogni epoca e cultura del passato, attraversano e imperversano per quasi tutto l’intero secolo [44], questo processo di decostruzione dei linguaggi e delle estetiche visuali troverà delle sintesi espressive nei movimenti artistici che dal 1830 si avvicenderanno (realismo, impressionismo, postimpres-sionismo) incalzandosi l’un con l’altro fino alla rottura culminante, nel primo decennio del 900, con il Cubismo e le avanguardie storiche: futurismo, astrattismo, suprematismo, dadaismo, surrealismo, espressionismo, ecc. [45]
Con la grande crisi del primo dopoguerra e i vari New Deal (europei, russi e americani) sembra prevalere da parte dell’arte un generale “ritorno all’ordine” con un recupero della rappresentazione realistica e della figura umana (D’altronde la fame e la guerra richiamano l’attenzione e la cura sul corpo sofferente e i disastri…)
Poi, nel secondo dopoguerra, assistiamo ad una certa ripresa delle linee di ricerca che si esauriscono presto, non prima però di aver assicurato l’assiomaticità alle vecchie linee iniziate dalle avanguardie storiche del primissimo novecento (astrattismo espressionista, il new-dada ecc.)
Ecco: adesso, quando sentiamo dire “ma questo lo so fare anche io”, ci si riferisce in genere ai prodotti dell’arte del 900 (e per chi sa disegnare un pochettino anche a quelli dell’impressionismo o dello espressionismo). Ma questo è un rilievo ingannevole: prima di arrivare a tanto occorreva lottare con le contraddizioni tra le vecchie forme e il nuovo ambiente sociale.
Bisognava farlo e qualcuno lo ha fatto. Non importa chi sia stato. Una volta fatto è fatto per tutti, anche per te, che adesso non hai più timore di affrontare il bianco di una tela intatta che ti guarda e sembra dirti: “non sai fare...!”
E se la risposta fosse: si sta preparando l’epoca in cui tutti potranno dedicarsi all’arte senza essere artisti?
Una tale reazione verbale davanti ad un’opera dell’arte (comunque sia, astratta o figurativa) ha tutta l’aria di una conferma ingenua di un dispositivo conoscitivo di recente scoperta: i neuroni specchio nei macachi.

La maggior parte dei fruitori di opere d'arte ha dimestichezza con le sensazioni di collaborazione empatica con ciò che si vede nell'opera. Si tratta di una comprensione empatica delle emozioni degli altri rappresentati oppure, in modo più sorprendente, di un impulso all'imitazione interiore delle azioni compiute da altri che si osservano in quadri e sculture. Queste considerazioni ci portano a formulare due dilemmi: quanto conta l'empatia nell'esperienza estetica, e quali sono i meccanismi neuronali coinvolti?” [46]

È probabile che, di fronte all’esperienza di una immagine che offre una semplice imbrattatura o addirittura lo squarcio netto di una tela, il corpo intanto risponde provando le medesime sensazioni avute dal loro artefice nel produrle… Sensazioni che non potevano certo generarsi, con altrettanta perentoria chiarezza corporale, da un classico dipinto della Natività, che distrae i sensi con la narrazione e la riproduzione delle apparenze immediate.
Ci si deve dunque fermare a queste? Certamente no. Allora, intanto, possiamo segnare un altro punto, e andare avanti.

Le due linee di produzione e la rottura dei limiti

I punti che segnano un progresso a volte sembrano trovarsi ad un bivio; per un versante prevale la spinta inerziale, nell’altro quella dell’accelerazione (una è sul vettore principale, l’altra sulla risultante, e così via)…
Il neurofisiologo Eric Kendel ci ha fatto il favore di riassumere recentemente e in pochissime parole chiarificatrici l’intero arco millenario della storia dell’arte raccontata da Gombrich:

Nella sua straordinaria opera La storia dell’arte Gombrich ricostruisce l’evoluzione dell’arte occidentale in tre fasi. Nella prima fase, gli artisti non avevano il controllo delle regole della prospettiva o della miscelazione dei colori; dipingevano quindi ciò che sapevano. Nella seconda, gli artisti avevano imparato i principi della prospettiva e del colore, e potevano dipingere ciò che realmente vedevano. Durante queste due fasi, che coprono un periodo di trentamila anni, dai dipinti nella grotta Chauvet ai paesaggi naturalistici degli artisti britannici del XIX secolo, l’indirizzo principale dell’arte – nonostante deviazioni, sviluppi laterali e ripensamenti – puntava a rappresentare il mondo esterno in termini sempre più realistici e tridimensionali. Ma l’avvento della fotografia alla metà del XIX secolo, con la straordinaria capacità di catturare la realtà, fermò questa progressione. La pittura perse quella che Gombrich chiama “la sua nicchia ecologica unica al mondo della raffigurazione”, e così “iniziò la ricerca di nicchie alternative”. [47]

Non possiamo stupirci quindi se, alla fine di questo processo migratorio verso nuove nicchie ambientali, la riproduzione delle immagini reali, analogiche o digitali, giunta alla sua perfezione tecnica ha lasciato sul campo al compianto le vecchie attrezzature e i suoi vessilli, i suoi morti e le tradizionali capacità e abilità degli artefici – queste ultime trasferite di peso ai macchinari e al tecnium.
Tuttavia per raggiungere il suo scopo la persistente necessità di “produrre immagini” (sempre artificiali, ed ora, in più, meccaniche [48]) dispone adesso, assieme a tutti i precedenti modi, anche dei nuovi altri mezzi – pur se, con le abilità di produrle alla vecchia maniera, si perde in qualche modo anche la sensibilità di goderne come allora: con nuove abilità si producono quindi nuove sensibilità [49] – e anche la possibilità di tenerle separate per adeguarle alla descrizione plastica del visibile immediato.

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[25] . Il recente dibattito sull'Arte e sulla Letteratura in Russia, da “Il programma comunista” nn. 5,6,7,8 del 1964 – ne abbiamo discusso in precedenza, Cfr. nømade n. 15.2018, pag. 62 seg..

[26] . In questa reazione (condizionata) si esprime ancora tutto il rispetto, sacrale e metafisico, per la “cultura” e l’ideologia di questa società in putrefazione. Certo, non si separano il disgusto per la società capitalistica e la sua cultura, ma nella dissoluzione non si vedranno gli elementi del futuro ma l’insinuarsi dell’egemonia gramsciana…

[27] . Alois Riegl, Industria artistica tardoromana, ed. G.C: Sansoni, Firenze 1953, pag. 5 seg..

[28] . I.I. Kaufman (1848–1915).

[29] . K. Marx, poscritto alla seconda edizione (1873) de Il Capitale, lib. I, vol.1.1, pag. 27, Editori Riuniti, Roma 1970.

[30] . Friedrich Engels, Lettera a Joseph Bloch, Londra 21 settembre 1890 (in Scritti sull’arte, ed. Laterza, Bari 1967, pag. 63 seg.). )

[31] . Engels, ibidem, pag. 64.

[32] . K. Marx, poscritto alla seconda edizione (1873) de Il Capitale, lib. I, vol.1.1, cit. p.ag. 23.

[33] . Ci è parso interessante riportare qui il brano del sociologo tedesco Arnold Gehlen (“un conservatore modernista che accettò i cambiamenti culturali portati dalla rivoluzione industriale e dalla società di massa”, cfr. Wikipedia), che nel suo studio del 1949, L’uomo nell’era della tecnica, avanza questa osservazione sull’opera di Freud: “L’interpretazione delle forme più alte della vita dello spirito in base ai modelli del sogno e della neurosi venne condotta da Freud, perlomeno per quanto riguardava l’arte, con un tatto squisito. In generale egli si accontentò di mettere in rilievo singoli motivi che aveva sviluppati partendo dal suo metodo analitico e ritrovati in opere d’arte classiche. Col suo intervento la psicologia raggiunse una profondità e una raffinatezza degli strumenti del pensiero e della descrizione, che la misero [la psicologia] finalmente in grado di sostenere la concorrenza della letteratura per quanto concerneva la caratterizzazione dell’animo umano” (cit. ed. it. Sugar, Milano 1967, pag. 161 seg.).

[34] . Osservazione per la prima volta non solo “diretta”, con esperienza mandata a memoria en souvenir, ma anche “indiretta”, consentita dalle recenti tecnologie di riproduzione litografica e soprattutto fotografica, la quale non riproduce soltanto l’immagine ma anche l’esperienza stessa dell’osservazione diretta dell’originale…

[35] . Non si capisce bene se con la nozione di “moderno” l’A. intende riferirsi all’epoca rinascimentale, a quella barocca o a quelle più recenti.

[36] . A. Riegl, Industria artistica tardoromana, cit., pag. 10 seg. (corsivi nostri).

[37] . Georg Simmel, Filosofia del denaro (1900, 2a ed. accresciuta 1907), ed. it. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1984, pag. 651 seg. Il lungo brano è la conclusione di un capitoletto significativamente intitolato “La divisione del lavoro come causa della discrepanza tra cultura soggettiva e oggettiva”, facente parte del Capitolo VI - LO STILE DELLA VITA, del testo citato.

[38] . Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (1949), edit. Sugar, Milano 1967, pag. 59 seg.
[39] . Cfr. nømade n°21, pag. 60: “Con Baxandall abbiamo già mostrato che c’è una continuità tra pratiche produttive diffuse di un’epoca e linguaggio artistico coevo... Allora era il mercante colto e devoto che costruiva con pietra, marmo e laterizi tagliati e sagomati; ora è il grande industriale che dispone di materie plasmabili da gettare in stampi e dare forma ad una forma: ecco mostrarsi la forma come contenuto di una forma... in una dialettica svelata dalla positività del negativo (nella fotografia e in edilizia). Certo questo accadeva anche quando si fondeva una campana o una statua equestre. Ma rimaneva un’esperienza eccezionale soffocata di stupore; diversamente avviene nelle mastodontiche acciaierie, nei cantieri a cielo aperto dei lavori pubblici, nelle stamperie dei rotocalchi, o nei retrobottega dei fotografi lungo i boulevards ...”

[40] . L’aggettivazione adottata non ha intenzione valutativa, ma solo descrittiva della realtà della più estesa agenzia dell’immaginario mondiale: la Rete web. – La rete è simile all’acqua che costituisce gran parte degli organismi viventi, in cui sono di-sciolti “tutti” gli altri componenti (anche i memi) che si connettono tra loro appunto per suo tramite …

[41] . F. Engels, Lettera a Conrad Schmidt a Berlino, da Londra, 27 ottobre 1890.

[42] . René Thom, Locale e globale nell’opera d’arte, rivista Alfabeta n. 44, gennaio 1983; aggiornato nel 1992 e ora in R. Thom, Arte e morfologia, Mimesis Edizioni, Milano 2011, p. 109.

[43] . Wylie Sypher, Rococo to Cubism in Art and Literature, Random 1960, p. 169.

[44] . Scrive Gombrich nella sua Storia dell’arte: “…sta di fatto che, per un centinaio di anni, molti artisti, grandi e piccoli, ravvisarono il loro compito proprio in questo genere di ricerca erudita, utile a far rivivere l’immagine dei momenti essenziali del passato” (Op. cit. pag. 480).

[45] . Non abbiamo qui dato conto di tutti i movimenti artistici, ma solo di quelli che riteniamo possano dare un’immagine immediata delle cose di cui parliamo

[46] . David Freedberg e Vittorio Gallese, Movimento, emozione, empatia nell'esperienza estetica, in Teorie dell'immagine, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Ed., Milano 2009, pag. 334.

[47] . Eric R. Kandel, L’età dell’inconscio, Raffaello Cortina Ed., Milano 2012, p. 217

[48] . [nella produzione delle immagini si trovano sempre intrecciate tra loro la linea sintetica (ciò che si sa) e la linea analitica (ciò che si vede) – si tratta di cogliere il prevalere dell’una sull’altra e le connessioni con gli elementi costitutivi – es. lo spazio, la prospettiva eccetera]

[49] . Il grado di parossismo farsesco sembra elevarsi sempre più grazie ad un gruppetto di “artisti” britannici, che portano la Body-art alle sue conseguenziali premesse: “Nella loro visione il Cyborgism è l'arte di trovare e creare il proprio senso extra: un senso in più attraverso cui esprimere se stessi e ampliare la percezione di ciò che ci circonda. Per Moon Ribas è stato prima la velocità, poi il senso sismico: un impianto installato nel braccio e collegato a un sismografo online che le trasmette una vibrazione ogni volta che, in una parte qualsiasi del mondo, la terra si muove. Per Nail Harbisson è la capacità di sentire i colori grazie a una telecamera che invia stimoli quando riconosce le tinte primarie. E, almeno per lui, l'installazione supplisce anche a una malattia che gli fa vedere il mondo solo in bianco e nero. – Il farsesco consiste nell’inversione (reattiva) che re-incorpora lo strumento…
Cfr. www.repubblica.it/tecnologia/2016/05/30

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