IL SIGNOR MONOD E LA DIALETTICA |
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Programme Communiste . n.58 . 1973
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Come il signor Monod distruggerebbe la dialettica
1.7 . La Cittadella Scientifica Universale Dopo aver visto di fronte a che razza di filosofia «soprannaturale» il mondo borghese, con alla testa il premio Nobel, si inchina, prenderemo in esame come il nostro adoratore dell’irrazionale concepisce un ordine sociale razionale, quello che, in opposizione col socialismo proletario profano, egli battezza «vero socialismo». 2o . I criteri distintivi umani e il ruolo avuto dal lavoro nel processo di trasformazione della scimmia in uomo È importante innanzitutto ricostruire la lotta portata avanti dalla Paleontologia umana contro le resistenze religiose e razionaliste, contro due concezioni ideologiche e storiche entrambe espressione di interessi di classe ben precisi: da una parte, il conservatorismo teologico e teocratico feudale che non può accettare le grandi categorie storiche ed evolutive che rimettono in causa l’idea di un ordine naturale e umano immutabile, fissato una volta per sempre dalla volontà divina nelle linee ferree di un piano prestabilito. Dall’altra parte, l’idealismo speculativo borghese il quale, se è vero come è vero che ha storicamente prodotto la geologia e la paleontologia, ruotanti entrambe intorno ai concetti di «divenire storico» e di «evoluzione», ciò è dovuto al fatto che il materialismo volgare dei suoi ideologi rifletteva la concezione del mondo di tutta una classe tesa a farla finita con la maniera di produrre, di scambiare e, per ciò che ci interessa qui, di pensare tipica di una formazione sociale che avendo ormai esaurito tutte le sue possibilità di sviluppo era divenuta fondamentalmente reazionaria.Nondimeno, queste teorie non potevano non andare incontro anch’esse, per le conclusioni radicali implicite nelle grandi scoperte dell’antropologia, a resistenze ancora più forti e che erano espressione, nel cuore stesso del pensiero scientifico contemporaneo, degli interessi di classe di uno strato sociale che, avendo in mano le leve di comando della società, non poteva né voleva in ultima analisi che chiudere gli occhi sul significato di quelle conclusioni. È classica tesi marxista che le scienze borghesi sono costrette, mano a mano che si sviluppano, a confermare le leggi del Materialismo dialettico; ma, fatto anche più importante, gli ideologi borghesi, sono portati a negare continuamente il carattere dialettico dei risultati della loro stessa scienza. Cosciente o meno, questo «rigetto» ha un senso politico preciso: esprime i limiti oltre i quali la speculazione borghese non può andare senza negare i fondamenti stessi della sua ideologia, vale a dire la concezione generale del mondo che incarna i suoi interessi di classe. Questo fenomeno è stato particolarmente evidente per quel che concerne lo sviluppo della Paleontologia umana. Già un secolo fa Engels aveva formulato in un breve ma denso studio l’ipotesi che il lavoro, inteso essenzialmente come attività tecnica, fosse stato alla base dello sviluppo della specie umana. Facciamo notare che questa ipotesi non poggiava su alcuna base «materiale» certa, data l’ignoranza degli «specialisti» dell’epoca e sparse le indicazioni provenienti dagli scavi. Riassumiamo l’ipotesi di Engels nei suoi punti più importanti: – a) L’andatura eretta (bipedismo) costituisce il fatto decisivo per il «passaggio» dalla scimmia all’uomo e si accompagna con la liberazione della mano, anch’essa correlativa alla divisione delle funzioni (locomozione e prensione) tra gli arti anteriori e i piedi;– b) La mano è l’organo e il prodotto del lavoro;– c) In virtù della legge di correlazione dello sviluppo secondo cui «.determinate forme di singole parti di un essere organico sono sempre collegate a certe forme di altre parti, che non hanno apparentemente alcun rapporto con le prime. Modificazioni di determinate forme portano con sé modificazioni della forma di altre parti del corpo senza che noi siamo in grado di spiegare tale rapporto.»;– d) Lo sviluppo del lavoro garantito dalla liberazione della mano e dalla funzione locomotoria ha dato luogo a rapporti di assistenza e comunicazione tra i membri dei gruppi primitivi. Dall’attività tecnica discende dunque la nascita del linguaggio considerato come strumento di produzione: «.Dapprima il lavoro; dopo il lavoro e contemporaneamente al lavoro il linguaggio.». Queste quattro tesi formulate da Engels sono state accuratamente ignorate dalla scienza ufficiale borghese che, nella questione generale della determinazione dei caratteri specifici dell’uomo legata al problema del meccanismo evolutivo, ha preferito avventurarsi nelle sabbie mobili dell’idealismo. La Paleontologia umana in effetti nel XVIII secolo parti dall’idea dell’affinità dell’uomo con i grandi primati; e non seppe far altro che imboccare la strada mediana tra le scimmie ad essa note e l’homo sapiens. L’errore più grave e persistente fu quello di stabilire una linea diretta che univa a noi, attraverso i Neanderthaliani, il quartetto di antropoidi attuali: gorilla, scimpanzé, orango e gibbone. La ragione di questo atteggiamento va ricercata nei presupposti idealistici dell’ideologia borghese sempre alla ricerca di un «grado zero» della coscienza umana. Rousseau nel suo "Saggio sull’origine dell’ineguaglianza" ne dà una tipica esemplificazione: l’uomo, che allo stato di natura è dotato di tutti gli attributi «attuali», s’allontana dallo zero iniziale, inventa poco a poco sia attraverso l’imitazione degli animali sia attraverso il ragionamento ciò che, nel campo tecnico e sociale, lo conduce al mondo presente. Siamo di fronte a una concezione «cerebrale» e quindi idealista dell’evoluzione umana, che si pone agli antipodi della tesi di Engels secondo la quale l’uomo non è definito da testa, coscienza e spirito, ma dalla facoltà specifica e sociale di produrre gli strumenti di produzione al fine di trasformare la natura e piegarla ai suoi bisogni. La colomba disinvolta dell’idealismo non si preoccupa di poggiare le ali su una qualche base ben fondata, e teorizza i propri interessi di classe sublimandoli in «concetti». Non è nostra intenzione ripercorrere le disavventure della Paleontologia borghese, impotente a integrare nella sua visione «razionalistica» anche le scoperte materiali più probanti, ma bisogna tuttavia arrendersi all’evidenza: il ritrovamento del clan degli «Australopiteci» e in particolare dei resti rinvenuti in Kenya dello Zinjantropo, grande australopiteco che faceva già uso di utensili di pietra, ha definitivamente smentito le castronerie che negli ultimi due secoli si sono scritte sull’argomento. Con questo grande antenato si è delineata un’immagine dell’uomo a dir poco sconcertante per il piccolo-borghese universitario e democratico che concepisce se stesso e l’individuo umano in generale solo attraverso la testa: quella di un vero uomo con un piccolo cervello e non di un superantropoide con una grossa scatola cranica. Ma per fortuna i fatti sono testardi, sicché il materialismo dialettico finisce sempre per penetrare anche nei cervelli più ottusi. E nel campo delle scienze la via è una sola: precisamente quella dialettica materialista, che prima o poi arriva ad imporsi. È quanto riconosce implicitamente lo specialista di turno, Leroi-Gourhan, nel suo studio sui rapporti tra tecnica e linguaggio: «A più di un secolo dalla scoperta del cranio di Gibilterra, quale immagine che presenti criteri comuni alla totalità degli uomini e dei loro antenati è possibile costruirsi? Il primo e più importante di tali criteri è la stazione eretta; ma è anche l’ultima ad essere stata riconosciuta, sicché per diverse generazioni il problema dell’uomo è stato posto su basi false. Tutti i fossili noti, per quanto possono essere strani come l’Australopiteco, possiedono la stazione eretta. Altri due criteri fanno da corollari al primo: la faccia corta e la mano libera durante la locomozione. Per comprendere il legame esistente tra la stazione verticale e la faccia corta (che Engels aveva chiarito più di un secolo fa, n.d.r.) è stato necessario attendere questi ultimi anni con la scoperta del bacino e del femore dell’Australopiteco... La libertà della mano comporta quasi necessariamente una differenziazione dell’attività tecnica dell’uomo rispetto a quella delle scimmie: il fatto di avere libere le mani durante la locomozione unitamente a una faccia corta e priva di canini offensivi impone l’utilizzazione di organi artificiali, vale a dire gli utensili. Posizione eretta, faccia corta, mano libera durante la locomozione e possesso di utensili mobili sono effettivamente i criteri fondamentali per distinguere l’uomo. Questo elenco tralascia del tutto i caratteri specifici delle scimmie, e da esso appare come non si possa pensare all’uomo nelle forme di transizione che avevano soddisfatto i teorici fino al 1950. Può stupire il fatto che l’importanza del volume del cervello intervenga solo in seguito (aprite bene le orecchie signori borghesi, siete stati traditi proprio da uno dei vostri specialisti più disinteressati, costretto ad ammettere la validità delle tesi di Engels!). In realtà, è difficile dare la preminenza ad un certo carattere piuttosto che a un altro, perché nell’evoluzione della specie tutto è collegato; mi sembra certo però che lo sviluppo cerebrale sia in qualche modo un criterio secondario. Sul piano dell’evoluzione in senso stretto esso è correlativo alla posizione eretta e non, come si è creduto per molto tempo, essenziale». Resta da precisare il ruolo svolto dal lavoro nelle trasformazioni successive della nostra specie, alla luce delle ultime scoperte della Paleontologia umana. Vedremo che, lungi dal contraddire la concezione marxista classica, per la quale il lavoro ha creato l’umanità, esse confermano in pieno le ipotesi di Engels e il metodo materialista dialettico. Cominciamo con l’analizzare la categoria marxiana di «lavoro». Dopo aver chiarito nella II sezione del I Libro de "Il Capitale" il rapporto capitalistico borghese della compravendita della forza-lavoro, Marx arriva a definire il significato di lavoro nella sua forma più generale come: «astratto da ogni impronta particolare che può imprimergli questa o quella fase di progresso economico della società, ovvero pensato non come attività produttrice di merce (sotto l’aspetto esteriore di valore di scambio), bensì di valore d’uso, cioè di utensili o di oggetti non scambiabili necessari al consumo quotidiano. In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, di fronte alla natura, gioca egli stesso il ruolo di una potenza naturale. Egli mette in moto le forze di cui è dotato il suo corpo, braccia e gambe, testa e mani, per appropriarsi i materiali della natura e dar loro una forma utile alla vita. Operando mediante tale moto sulla natura esteriore e modificandola, egli modifica allo stesso tempo la natura sua propria e sviluppa le facoltà in questa assopite». Ciò che caratterizza l’umanità sia a livello di specie come fattore di maturazione biologica, che sul piano individuale nel suo rapporto singolare con la natura, è quindi l’attività tecnica lavorativa poiché: «L’impiego e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, caratterizzano eminentemente il lavoro umano». Per questo Franklin definisce l’uomo «un animale che fabbrica strumenti». A questo stadio dell’analisi del processo lavorativo nei suoi momenti semplici e astratti, «da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali, sono sufficienti... e non abbiamo bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori... poiché l’attività finalizzata alla produzione di valori d’uso, l’appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, è la condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, una necessità fisica della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita o, piuttosto, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana». A scorno del piccolo-borghese ozioso e degenerato che vede nel lavoro la «maledizione della specie», da cui lo libererebbe la società «comunista» (allegoria della caduta originale e del paradiso ritrovato), termineremo con una luminosa citazione che ben esprime quella necessità materiale sentita nella carne e assimilata nel suo piccolo cervello già dal nostro lontano antenato: «In quanto produce valori d’uso, in quanto è utile, il lavoro, indipendentemente da ogni forma di società, è la condizione indispensabile dell’esistenza dell’uomo, una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura» ("Il Capitale", I, 1). Proprio su questa tesi cardinale - l’attività tecnica, il lavoro definito come la caratteristica specifica dell’uomo - convergono peraltro, come vedremo, le più recenti ricerche della Paleontologia umana. Il problema ultimo intorno al quale hanno ruotato i grandi dibattiti che nel tempo hanno infiammato la scienza dei fossili umani è imperniato sul significato da attribuire alle trasformazioni della capacita encefalica e delle possibilità cerebrali verificatesi nel corso del divenire della specie. Per la tesi idealista, il graduale diffondersi dell’homo sapiens va inteso nel senso di una ininterrotta crescita verso un punto di massima coscienza. In questa concezione, in cui l’umanità si definisce partendo dalla testa, la cultura emergerebbe a poco a poco dalle incerte brume dell’animalità per dar vita ad un essere dotato di lucida coscienza e portato a una vaga religiosità. Questa, a grandi tratti, la prospettiva di un Teilhard de Chardin, che scopre nel «fenomeno umano» una sorta di vettore lanciato verso l’acquisizione di facoltà spirituali. Naturalmente, oggi come oggi, è assolutamente impossibile dare a questo grande affresco idealistico la minima base materiale probante, contrariamente alla concezione materialistico-dialettica che poggia ormai su un complesso di prove inconfutabili. Di fatto, la tesi che viene fuori da queste ricerche in campo paleontologico attesta che, lungi dal precedere l’evoluzione delle tecniche e del corpo, il divenire della «coscienza» va ravvisato nel suo stretto legame con le capacita di adattamento, che sono, nel caso dell’uomo, di ordine essenzialmente tecnico. Conviene però mettersi d’accordo sul termine di «coscienza». Per la tradizione filosofica idealistica, da Aristotele a Hegel, passando per Cartesio e Kant, la «Ragione» rappresenta l’unico criterio distintivo tra uomo e animale. Il linguaggio viene considerato come una realtà, schermo che maschera il pensiero attraverso cui, in qualche modo, potremmo identificarci con Dio. Così, secondo Aristotele, l’uomo «è un animale ragionevole» e le parole sono «i simboli degli stati d’animo». Per Cartesio, la Ragione è l’insieme delle nostre idee chiare e distinte, la totalità di ciò che la divinità, nella sua infinita Grazia, ha voluto che potessimo concepire. In questa tradizione, ora agonizzante, il linguaggio rappresenta la maschera dello spirito, il velo che bisogna strappare per afferrare il pensiero in tutta la sua purezza. Per il Materialismo Dialettico, al contrario, l’umanità (conviene ancora «relativizzare» quest’astrazione idealistica) non è determinata dalla testa o dalla coscienza, ovvero non esiste altra coscienza che quella espressa in una duplice materialità, come linguaggio e come prodotto sociale: «Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» (da Marx, "L’Ideologia tedesca"). – >
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Il lavoro di Erostrato
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Linguaggio, capacità cervicale e tecnicità devono essere intesi nel loro sviluppo parallelo e nella loro interazione reciproca, cioè come i differenti aspetti di uno stesso processo dialettico: questo, non se ne dolgano i più recalcitranti idealisti, obiettivamente confermano le ricerche e i fatti materiali recentissimi.
2.1 . La nozione di antropomorfismo è legata a quella di tecnicità I concetti cardine della tradizione idealistica in campo paleontologico secondo cui i nostri più lontani antenati, gli Antropiani, sarebbero affini all’attuale famiglia delle scimmie da cui si sarebbero separati alla fine del terziario, si possono considerare ormai superati. La serie di categorie quali Pitecantropo, Preominide, Australopiteco hanno fatto il loro tempo, riflessi di una mentalità antimaterialista per la quale l’evoluzione umana esprimeva la maturazione della coscienza o dello «spirito». 2.2 . La corteccia media e la sua evoluzione La nozione di «espansione cerebrale» e in special modo quella relativa alla corteccia media è di fondamentale importanza poiché quest’ultima è la sede della motilità primaria. Come quello dei mammiferi superiori, il cervello dell’uomo presenta, lungo il canale di Rolando, sulle circonvoluzioni frontali ascendenti, una zona motoria primaria nella quale è possibile distinguere con precisione, dalla base al vertice, i gruppi di neuroni che controllano la faccia, le dita della mano, l’arto superiore, il tronco, l’arto inferiore. 2.3 . L’evoluzione tecnica degli Antropiani L’evoluzione degli utensili nell’età della pietra è avvenuta in quattro tempi: «all’origine», gli strumenti da taglio, i raschiatoi, sono ottenuti tramite semplice frantumazione di due ciottoli. In un secondo momento, gli strumenti sono «nuclei» da cui sono state rimosse delle schegge il più delle volte su entrambe le facce usando un percussore di pietra. Il terzo tempo vede la produzione di arnesi realizzati percuotendo il «nucleo» con strumenti da taglio in cui le schegge sono lavorate su una sola faccia. Infine, il quarto episodio di questa storia della lavorazione degli strumenti di pietra è quello della produzione di utensili tramite sagomatura delle schegge. Conclusione La confutazione fornita dalle tesi di Engels alla teoria del «caso creatore», principio ultimo della trasformazione della specie secondo Monod, sebbene insufficiente, vista la limitatezza delle conoscenze, a mettere in luce tutti i meccanismi dell’evoluzione, consentirà tuttavia di orientare le ricerche future di questi settori delle scienze della natura su tutt’altre basi materialistico-dialettiche di quelle proposte finora. Ma occorrerà che la ricerca si affranchi dall’idealismo, il che presuppone la dissoluzione delle sue basi economiche e sociali, il deperimento dei rapporti borghesi di produzione. Questo farà fare un enorme salto in avanti alle scienze in generale, senza perdere di vista il soddisfacimento pratico dei bisogni reali degli uomini [1](28). |