IL SIGNOR MONOD E LA DIALETTICA

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Programme Communiste . n.58 . 1973
arteideologia raccolta supplementi
made n.18 Dicembre 2019
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Come il signor Monod distruggerebbe la dialettica

1.5 . Caso, Necessità, Probabilità

Nella "Dialettica della Natura" il nostro Engels (quello stesso Engels che Monod considera a dir poco ingenuo) ha non solo chiaramente posto, ma definitivamente risolto il problema che Monod così pietosamente ingarbuglia:

« Sul piano della teoria, la scienza della natura ha perseverato da un lato nella vuotezza di pensiero della metafisica wolffiana, per la quale qualcosa o è necessario o è casuale, ma non entrambe le cose nello stesso tempo; e dall’altro lato, nel determinismo meccanicista appena un po’ meno vuoto di pensiero, che a parole nega in generale il caso, per riconoscerlo nella pratica in ogni singolo avvenimento... Hegel scese in campo contro entrambe le concezioni con i principii, fino ad allora mai uditi, che il casuale ha una causa perché è casuale, proprio come non ha una causa perché è casuale; che il casuale è necessario, che la necessità determina se stessa come casualità, e che d’altra parte questa casualità è piuttosto assoluta necessità (Logica, I, sez. III, cap. I, La Realtà). La scienza della natura ha semplicemente lasciato da un canto questi principii come paradossali giochi di parole, come contraddittori assurdi » [1].

Proprio come continua a fare il metafisico Monod, più di un secolo dopo Hegel!
Avendo stabilito da un lato un principio di invarianza assoluto (fissità del patrimonio genetico) e dall’altro lato un principio di varianza anch’esso assoluto (piccole perturbazioni fortuite e perciò impercettibili e imprevedibili), Monod pensa che questa opposizione sia irrisolvibile con il solo ausilio delle categorie ereditate dalla vecchia metafisica idealista: il caso (come negazione della necessità) e la necessità (come negazione del caso). Viene quindi a trovarsi doppiamente confutato come materialista meccanicista rifugiatosi nelle braccia della metafisica (vedi passo sopra citato di Engels).
A un siffatto manicheismo pseudo-biologico, i marxisti oppongono il concetto di varianza o di invarianza relativo: invarianza e mutazione non si escludono, ma sono l’una la condizione dell’altra. Lo stesso trattamento riservano al determinismo stile Laplace, secondo il quale la necessità nega radicalmente la casualità: sulla scorta di Hegel i marxisti comprendono non solo che la necessità è causa della casualità e che la casualità è causa della necessità, ma che la categoria dialetticamente superiore in cui si risolve questa opposizione apparente, «esteriore», non è altro che la possibilità reale o, come si dice oggi, la probabilità.
Come si vede, la dialettica svolge qui in pieno il suo ruolo di prevenzione degli a priori metafisici che per gli scienziati borghesi restano sempre la causa delle ricadute nel vecchio modo di pensiero feudale-scolastico!
Lo stesso superamento dell’opposizione necessità assoluta-caso assoluto si ritrova in fisica, e proprio per non aver compreso ciò Monod tenta di presentare il suo antideterminismo biologico come un semplice aspetto dell’antideterminismo generale, verso il quale dovrebbe spingerci, secondo lui, «la fonte di incertezza più profonda che è ancora radicata nella struttura quantistica della stessa materia!»
Le leggi della fisica - leggi di conservazione o di invarianza - si applicano, spiega [2], su queste incertezze elementari.
Inoltre, tutte le leggi particolari hanno fondamento in una grande legge, quella dell’inesorabile degradazione dell’energia, che trova formulazione nel secondo principio della termodinamica, principio assolutamente non compreso da quell’ingenuo di Engels [3].
Applicate tutto questo al mondo biologico e avrete la soluzione!
Per disgrazia del nostro metafisico, la meccanica quantistica non è affatto «indeterminista» come pretende la cattiva letteratura filosofica borghese: il famoso principio di incertezza di Heisenberg, che viene sempre tirato in ballo per affermare il contrario, serve solo a dissolvere il determinismo assoluto [4], insieme a un certo numero di nozioni sclerotizzate [5], in un determinismo tutto affatto rigoroso delle probabilità.
La meccanica serve a prevedere, sulla base dello stato meccanico di un sistema in un momento dato e delle forze che agiscono su di esso, il suo «stato» in un dato momento ulteriore. Se non è in grado di fare questo, non serve a niente, e la meccanica quantistica rivendica senz’altro di saperlo fare.
La leggenda sul suo «indeterminismo» è nata dal fatto che il punto di partenza era dato dalle concezioni accreditate dalla meccanica classica (Newton) e valide nel suo ambito.
Classicamente, la «particella» è una «massa puntiforme» o «punto materiale» il cui stato meccanico è descritto dalle coordinate di posizione e di velocità.
Questa concezione non poteva più essere di nessun aiuto per lo studio dei fenomeni osservabili alla scala microscopica degli elettroni e dei fotoni, costituenti ultimi della materia e della luce.
A questa scala, in effetti, non solo le definizioni assolute («sostanza delle cose») si risolvono in definizioni relative (diventa impossibile distinguere tra «sostanza» e suoi «attributi»: il corpuscolo elettrico, per esempio, non è più «un piccolo corpo carico di elettricità»), non solo la nozione di massa perde la sua assolutezza (i corpuscoli non possono essere definiti che come degli stati e i loro rapporti che come inversioni da uno stato a un altro stato), ma, come peraltro si evince da quanto precede, diviene impossibile determinare rigorosamente e contemporaneamente la posizione e la velocità della «particella» (o la dislocazione spazio-temporale e la specificazione energetica).
La meccanica quantistica sostituisce quindi alle «categorie» classiche una nuova categoria: la funzione d’onda, che designa la probabilità della presenza dell’elettrone, per esempio, in un punto dello spazio sottoposto al campo di forza del nucleo.
La meccanica quantistica perciò non è altro che l’insieme delle leggi e teoremi [6] che permettono di prevedere la funzione d’onda in un istante qualsiasi (se la si conosce in un istante dato), così come le forze che agiscono sulla «particella».
Le famose «relazioni di incertezza» di Heisenberg inficiano così poco il determinismo (!) che servono anzi a definire proprio i margini di incertezza, come per esempio la posizione di un corpuscolo di cui è nota la velocità (o inversamente), laddove non è possibile conoscere simultaneamente entrambi i dati: è chiaro che se la regola dei fenomeni fisici fosse... «l’incertezza fondamentale», la «gratuità», e a maggior ragione la «libertà» (!) tanto care ai Sartre-Monod, quest’operazione sarebbe del tutto arbitraria e votata al fallimento.
Ma non è così!
In conclusione, l’utilizzazione che Monod fa della fisica quantistica conferma appieno quanto diceva Lenin decenni addietro circa l’impotenza a pensare dialetticamente che, sul piano logico, è alla base dello sfruttamento idealistico della crisi di questa scienza all’inizio del secolo, sfruttamento che, sul piano sociale, serve perfettamente agli interessi della borghesia.
Dedicheremo perciò al nostro filosofo della reazione morta questo passo di "Materialismo ed Empiriocriticismo":

« L’errore della dottrina di Mach (Monod)... è di non prendere in considerazione ciò che separa il materialismo metafisico dal materialismo dialettico. L’ammissione di non si sa quali elementi immutabili, dell’essenza immutabile delle cose, non costituisce il vero materialismo: è un materialismo metafisico, cioè antidialettico ».

Questo è l’uomo che, in nome della Scienza, ha condannato non solo Engels, ma tutta quanta la dialettica.

1.6 . Engels e il 2° principio della termodinamica 

Attaccando Engels sul 2° principio della termodinamica Monod ha voluto stabilire la tesi dell’incompatibilità di dialettica e scienza [7].
Ma per sua disgrazia, la scienza contemporanea ha dato ragione proprio ad Engels.
Vediamo come.
Il primo principio della termodinamica non è altro alla fin fine che il principio della conservazione dell’energia. E siccome è un principio di conservazione, non consente di trovare un senso di evoluzione.
Ma l’esperienza insegna che i processi fisici hanno luogo sempre in un senso e mai nel senso inverso.
Per fare un esempio classico, consideriamo una barra di rame le cui estremità siano a contatto una con un blocco di ghiaccio, l’altra con una fiamma. Viene a stabilirsi allora nella barra un gradiente termico, cioè una temperatura che varia a seconda del settore considerato. Isolando bruscamente la barra dall’ambiente esterno, si constata che essa evolve verso uno stato di equilibrio con temperatura uniforme in ogni sua parte.
Supposto che l’energia totale resti costante, non contraddice il primo principio l’apparizione spontanea di un gradiente termico in una barra (o altro sistema) isolata: ma alla luce dell’esperienza questo non avviene mai.
«Un sistema isolato che ha subito una evoluzione non ritorna mai al suo stato iniziale»: questa la definizione del 2° principio della termodinamica, che proprio esperimenti di questo genere hanno generalizzato ed innalzato a verità assoluta.
È in questi termini «assoluti e definitivi» che la termodinamica enunciava il 2° principio, che diveniva dunque un principio di irreversibilità dei processi naturali, dal momento che «l’entropia» (grandezza il cui senso di variazione esprime l’irreversibilità) di un sistema isolato può solo aumentare o al massimo rimanere costante, con una tendenza verso uno stato di massima entropia.
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Il lavoro di Erostrato
Si trattava insomma di un tentativo di applicare il 2° principio non solo alle macchine a vapore, ma all’intero universo.
Tentativo che nel secolo scorso portò a questo risultato: l’universo è un sistema isolato (sic!); quindi deve tendere verso uno stato di equilibrio finale in cui tutta la materia e tutti i raggi saranno uniformemente distribuiti e in cui nulla potrà più accadere (in altre parole, in cui l’entropia sarà massima).
La previsione di questo stato «di equilibrio finale» dell’universo, o, come si diceva, della sua «morte termica», presupponeva d’altronde uno stato «originario» di squilibrio totale, cioè, sotto un’altra forma, l’idea della... creazione del mondo.

Contrariamente a quanto insinua Monod, questa concezione era tutt’altro che accettata da tutti gli scienziati, se pure borghesi, del secolo scorso. Non si va per il sottile, visto che si tratta di imputare ad Engels il crimine di «lesa scienza».
Infatti, non aveva forse egli osato negare formalmente il 2° principio dicendo, nella "Dialettica della Natura":
« In qualunque modo si formuli il secondo principio di Clausius, esso comporta in ogni caso una perdita di energia... L’orologio dell’universo, per camminare, deve essere prima caricato; e cammina finché non arriva allo stato di equilibrio, dal quale solo un miracolo può farlo uscire e rimetterlo in movimento di nuovo. L’energia impiegata per caricarlo è scomparsa (corsivo nostro), perlomeno qualitativamente, e può essere restituita solo da un impulso esterno (corsivo di Engels)... quindi la quantità di movimento o di energia presente nell’universo non è costante ».

Ma allora, notava ancora Engels,

«tutta la teoria della conservazione della forza è assurda», come sono assurde «tutte le conclusioni che Clausius ne trae; quindi l’energia deve essere stata creata, quindi dev’essere creabile, quindi distruttibile. Ad absurdum!»
E concludeva che «nel modo che spetterà agli scienziati dell’avvenire mettere in luce» la contraddizione tra il secondo principio di Clausius e il principio della conservazione dell’energia doveva essere superata.
Quegli «scienziati» per noi appartengono già al passato (o al massimo al presente): hanno trasformato il secondo principio in un semplice teorema di meccanica statistica, cioè hanno tolto ogni carattere assoluto a ciò che non era che una estrapolazione e generalizzazione dell’esperienza, per lasciargli solo un significato statistico. Vediamo come, molto schematicamente.
Alla base di questa questione c’è il fatto che la materia non è un continuum, ma è costituita di elementi discreti, diciamo di molecole, definizione che qui può bastare.
È normale che le «leggi» o principi che reggono il comportamento, per esempio di una massa di gas, devono potersi spiegare sulla base dei teoremi della dinamica dei sistemi materiali. Ma ci si scontra qui con una difficoltà: il numero delle molecole che entrano in gioco negli esperimenti correnti è talmente enorme che è fuori questione studiare il movimento di ciascuna di esse individualmente presa: bisogna ricorrere alla meccanica statistica.
Prendiamo il caso limite in cui la quantità di gas tende allo zero, come può essere ad esempio quello in cui un serbatoio A contenente solo dieci molecole di gas viene messo in comunicazione col serbatoio B.
Supponendo che non ci sia interazione tra le molecole (se ci fosse il risultato qualitativamente non cambierebbe, ma il tutto sarebbe solo un po’ più complicato), ogni molecola avrebbe le stesse possibilità di trovarsi indifferentemente sia in A che in B, e questo indipendentemente dal posto in cui si trovano le altre.
L’eventualità più probabile è quella che corrisponde all’equilibrio: 5 molecole in A e 5 in B.
Tuttavia, delle eventualità che si scostano dallo stato d’equilibrio devono per forza realizzarsi, anche se la probabilità che si realizzino è tanto più bassa quanto più lo scarto sarà grande.
È un po’ come il gioco a testa o croce fatto con 10 monete.
La probabilità che si ottenga 0 (zero) «testa» e 10 «croce» (o viceversa) e di 1/1024, mentre è di 252/1024 per 5 «testa» e 5 «croce».
Ciò non toglie che se uno lanciasse le monete 1.024.000 volte, quella bassissima probabilità dovrebbe realizzarsi all’incirca 1.000 volte: vi è dunque una differenza essenziale tra una probabilità piccola quanto si vuole e una probabilità nulla!
Grosso modo, il secondo principio quale lo si comprende ora discende da questo aspetto «probabilistico», che non ha niente a che vedere col rigetto del determinismo a profitto di non si sa quale «libero arbitrio», ma è semplicemente un’altra forma del determinismo, come Engels, a differenza di tanti scienziati, aveva perfettamente visto.
Praticamente, in tutti gli esperimenti correnti, mettendo in gioco un numero di molecole dell’ordine di 1023 (1 seguito da 23 zeri), e un numero totale di concatenazioni dell’ordine di 10 alla potenza 1023  (1 seguito da 1023 zeri), la probabilità che tutto il gas si concentri spontaneamente in uno dei due serbatoi è così ridicolmente bassa che, in pratica, su spazi e in tempi osservabili per noi, possiamo accettare il secondo principio nella sua forma classica.
Ma se si esce dai limiti cui sono soggetti la capacità visiva e la durata della vita umana per osservare le cose alla scala cosmica, la prospettiva cambia completamente: nello spazio e nel tempo infiniti, ogni fenomeno possibile deve realizzarsi.
Allora la rappresentazione globale che dobbiamo farci del comportamento dell’universo è completamente differente da quella che discendeva dal secondo principio inteso classicamente: anche supponendo che l’universo sia finito, non si può più dire che esso deve evolvere «a senso unico» verso uno stato di equilibrio di massima entropia: tutto quello che si può dire è che lo stato di equilibrio è il più probabile, ma che necessariamente devono presentarsi (seppure sempre più raramente mano a mano che ci si scosta dall’equilibrio) tutti gli stati possibili. In realtà l’universo è infinito, sicché parlare di «sua entropia» non ha più senso che parlare del suo volume o della sua massa! La sola cosa che si può definire è al massimo una densità locale di entropia, che deve rispondere a due requisiti:
1) variare nello stesso istante da un luogo all’altro e nello stesso luogo nel corso del tempo;
2) essere costante in media, a condizione di prendere questa media su grandi spazi per un tempo breve, e viceversa, laddove «grande» va inteso naturalmente alla scala cosmica.
Engels rifiutava di lasciarsi legare le mani dal secondo principio, metteva in guardia dal trarne conclusioni «filosofiche» e prevedeva che si sarebbe dovuto cambiarlo. Ma in nome di cosa?
Ma in nome della metafisica naturalmente, assicura Monod, affibbiando al povero Engels l’appellativo di «animista», e mettendo il tutto a carico della... Dialettica! Balle!
Quello che Engels opponeva a una delle leggi della fisica era la concezione globale della fisica.
Egli metteva in discussione un’affermazione particolare della scienza in nome dell’affermazione generale della scienza.
Solo la dialettica è, quindi, scientifica. >
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[1] . Da "Dialettica della natura", Casualità e necessità.

[2] . v. "Il caso e la necessità", cap. 6, Invarianza e Perturbazioni.

[3] . v. "Il caso e la necessità", cap. 2, Vitalismi e Animismi.

[4] . Determinismo metafisico sì, ma valido entro dati limiti, poiché fino alla metafisica materialistica ha avuto storicamente il suo contenuto positivo (Marx: "Contributo alla storia del materialismo francese") e ha fatto scoperte in «scienze che sembravano di sua competenza»  dal che si può arguire che nel suo campo di competenza la stessa metafisica conserva un certo valore (Engels: Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca), mentre non serve più a nulla in altri campi. La dialettica serve qui a prevenire l’opposizione assoluta tra positivo e negativo, perfino per la metafisica materialista... e la meccanica classica.

[5] . Per esempio, la nozione che una realtà dev’essere una cosa avente dimensione, forma, individualità e suscettibile inoltre di essere misurata. Al contrario, lo sviluppo della conoscenza mostra che esistono realtà che hanno solo «un ordine di grandezza», e non «una geometria», che si presentano come pluralità e non come individui, che sono calcolabili e non misurabili, in breve che sono cose senza essere «cose», «esseri»  concepibili solo nel «divenire»  (ciò che confuta in pieno la concezione esistenzialista di Sartre secondo cui «il movimento non è che una malattia dell’essere» !!!), scoperte perfettamente intelligibili e niente affatto fuorvianti per un pensiero dialettico, così come la dissoluzione del vecchio dualismo materia-energia che Lenin chiamava, in polemica contro le interpretazioni idealistiche: «Scomparsa della materia». >
Ciò significa che scompare il limite al quale finora si arrestava la nostra conoscenza della materia, scompaiono certe proprietà della materia che prima ci sembravano assolute, immutabili, primordiali (impenetrabilità, inerzia, massa, ecc.) e che ora si dimostrano relative, esclusivamente inerenti a certi stati della materia, poiché l’unica proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà oggettiva, di esistere fuori della nostra coscienza (Cf. "Materialismo ed Empiriocriticismo, La materia è scomparsa").

[6] . Per esempio: il quadrato della funzione d’onda che indica la proporzionalità di presenza; la funzione d’onda più semplice per un campo centrale come quello determinato da un nucleo atomico è «una funzione che si traduce mediante una decrescenza esponenziale della probabilità di presenza man mano che la distanza cresce», ecc...

[7] . v. "Il caso e la necessità", cap. 2, Vitalismi  e Animismi (vai).