L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI |
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Tracce di Lavoro Comune . 2017
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Marx, Engels e l'arte Nella considerazione marxista anche letteratura poesia e scienza sono forme superiori e differenziate degli strumenti produttivi e nascono per rispondere alla medesima esigenza della vita mediata ed immediata della società. E tuttavia…
Marx e lo stile dei greci Tra parecchi commentatori di Marx circola la diceria che egli prediligeva su tutto l’arte dell’antica Grecia, derivandola da alcune famose pagine tratte da suoi studi economici (Elementi, Grundrisse, Introduzione, ecc.).
In verità tali questioni non si sarebbero poste se solo il nostro storico fosse andato a leggere personalmente alla fonte invece di attingere da una citazione isolata il suo convincimento. Si sarebbe accorto che la risposta è già nell’esordio: “per l’arte è noto che determinati periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l’ossatura per così dire della sua organizzazione” [7].
Attenzione; Marx prende l’arte greca (o anche Shakespeare) “ad esempio” … proprio per dire che “certe” particolari manifestazioni dell’arte (generi, come l’epica, ad es.) sono possibili solo in determinati stadi dell’evoluzione artistica, superati i quali (i suoi presupposti) non è più possibile produrli nella loro forma classica [8]; ossia, non prende l’arte greca per (ri)proporla come modello “esemplare”. Solo il tramestio grossolano tra certe faccende può tirar fuori dalla pagina di Marx una vena di rimpianto per un’epoca del passato da indicare come un programma artistico per il presente – e sia pure la Grecia di Omero, di Prassitele o di Epicuro – figuriamoci poi per il futuro.
Ma questo non può assolutamente fraintendersi come una prescrizione cui attenersi; come sistemare altrimenti il fatto che “Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile”? Difatti, se tuttavia certe forme tornassero o rinascessero dopo la loro morte naturale [9], si mostrerebbero nella loro natura fittizia, parodistica, farsesca – dirà Marx ne Il diciotto Brumaio – o anche grottesca e mostruosa, aveva commentato Mary Shelley già nel secondo decennio dell’ottocento, durante la prima fioritura dell’industrialismo moderno.[10] Diventa perfettamente intuibile — nonostante la confessata difficoltà a spiegarlo — come solo nella loro forma originaria certe opere e certi generi artistici continuano a produrre in noi un godimento estetico. Qui Marx pone un altro mero “esempio”, che svolge del tutto naturalmente nel senso del paragone tra l’arco della vita individuale e quello delle epoche storiche; è però l’ingenuità della fanciullezza (individuale o storica) ad esercitare il suo fascino sull’uomo adulto, che se ne compiace e vorrebbe rivivere per riprodurne le verità ad un livello più alto.[11] La pagina si chiude ripetendo ancora una volta, se ce ne era bisogno, che quelle forme “non possono più ritornare”. In verità qui Marx invita più volte a rivolgersi ad una sorta di epos a lui contemporaneo, che ha dissolto, anzi: sepolto quello classico greco – di cui tuttavia rimangono le spoglie e le vestigia. E quali migliori illustrazioni visive potrebbero accompagnare il brano di Marx che abbiamo citato, se non le cinquanta litografie della Histoire Ancienne che Honoré Daumier - praticamente un suo contemporaneo - aveva pubblicato sul Charivari dal 1841 al 1843? Nell’arte greca è invece assente qualcosa di cui probabilmente sia Engels che Marx avrebbero sentito la mancanza, ed è una componente specificatamente moderna: l’ironia – che non è la satira…[12] E d’ironia è intessuta la loro produzione teorica, come pure lo sono i disegni che spesso Engels amava inserire nelle lettere che scriveva.[13] Per non parlare poi del romanzo giovanile di Marx, Scorpion und Felix, definito da lui stesso “umoristico”, e che, per quanto sconfessato nella lettera al padre del novembre 1837 come una prova sforzata e deludente, non autorizza nessuno a trasformarla in ripudio di questa particolare forma espressiva che vivificherà l’intera sua prosa scientifica.[14] >
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> Siamo certi che come noi anche lo scrittore e critico statunitense Edmund Wilson si sia divertito parecchio a leggere Il Capitale. Ecco difatti cosa ne dice:
Serve a qualcosa, per chiudere questa faccenda coi greci, ricordare infine che Marx intendeva scrivere un libro su Balzac e non su Luciano di Samosata? Marx, Engels e l'arte moderna
Il capolavoro sconosciuto è un breve racconto di Balzac, apparso la prima volta in due puntate sulla rivista L’Artiste del 1831, e inserito poi nella raccolta dei suoi Romans et contes philosophiques; in seguito verrà modificato e quindi pubblicato nella versione definitiva solo nel 1847 nel volume Le provincial à Paris con il titolo di Gillette.
Ora a noi non interessa fare di questo racconto l’oggetto di particolari analisi; ci importa solo il fatto che Balzac abbia fatto balenare davanti agli occhi - di Marx, Engels, e vostri - la possibilità di un’opera di pittura che Poussin descrive come «un confuso ammasso di colori, delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura»: un’opera astratta, si direbbe.[16]
In verità quello che piuttosto risulta qui esser venuto meno è l’autonoma conoscenza dell’oggetto di cui discute e con ciò la reputazione stessa del pensiero borghese, che non ha più nulla da perdere ma neppure più nulla da guadagnare dalla propria prolungata agonia.[22] A conclusione di questa parte, un’interesse ben diverso possiamo trovare ancora una volta dalla lettura della citata introduzione al romanzo giovanile di Marx:
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[1] - Nella sua monumentale Storia della letteratura tedesca Mittner ci informa in una nota che “la raccolta dei testi sulla teoria letteraria [di Marx ed Engels] fu iniziata intorno al 1930. Cfr. Marx und Engels, Über Kunst und Literatur, a cura di M. Lifschitz, Berlin 1948” [Ladislao Mittner, Op. cit., tomo 1, Dal Biedermeier al fine secolo (1820-1890), ed. Einaudi, Torino 1971, pag. 402]. I testi di questa raccolta sono riportati in una edizione italiana curata da Carlo Salinari, “Scritti sull’arte”, Universale Laterza, 1967. In Italia questa edizione è stata preceduta da una del 1954 curata e prefatta da Valentino Gerratana (collezione Univerale Economica, Milano 1954); una terza è Marx, Arte e lavoro creativo (scritti di estetica), con l’introduzione e la cura di Giuseppe Prestipino, ed. Newton Compton, Roma 1976. Di un’altra, uscita nel 2012 per le edizioni Pgreco, non si conosce il curatore e l’estensore delle note a commento. In tutti i casi elencati, sarebbe interessante scorrere e confrontare i titoli dati dai curatori alle parti sotto le quali ogni volume raggruppa i brani dei testi antologizzati.
[2] - Ad esempio, dalla frase di Marx per cui la storia si ripete sempre due volte (la prima volta come tragedia, la seconda come farsa)… e poi tutto il seguito sulle virtù dei greci e romani ecc…. E’ come l’apertura del programma artistico dall’ottocento in poi (tutto quello che è avvenuto dopo potrebbe essere messo all’insegna di queste pagine…. Rottura dei limiti: confluenza della satira nell’arte moderna: Daumier, ecc…. e poi eclettismo stilistico, citazionismo (autoreferenzialismo), tautologia, disfacimento, dissolvimento e sparizione dell’oggetto artistico… (stiamo forse parlando della morte del capitale? della proprietà privata? dello stato? dell’azienda?.... o solamente della (hegeliana?) morte dell’arte? Forse, invece che di morte, qualche critico (Hal Foster?) preferisce non considerare la pittura una pratica storicamente superata ma solo una di quelle che subisce oggi, al pari di altri media, un processo di revisione e riappropriazione permanente che tende a mostrare una sua nuova natura eterogenea, ibridata con altri campi di formazione dell’immagine (fotografia, cinema, televisione, architettura e così via)… (subisce cioè lo stesso processo di semplificazione e complessificazione a cui la tecnologia sottopone ogni altro tipo di informazione…) [3]. D’altronde il Marx diciottenne scrive al padre dicendo di aver “bruciato ogni poesia e ogni abbozzo di novelle”, aggiungendo subito “Nell’illusione di non poter continuare in ciò, di cui non ha finora, per la verità, fornito ancora alcuna prova contraria”; ma in precedenza gli aveva confessato: “Eppure queste ultime poesie sono le uniche in cui mi sia balenato di fronte improvvisamente come per un colpo di bacchetta magica — oh! il colpo fu al principio tale da sbalordire — il regno della vera poesia come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla”… E nulla vieta di pensare che il Marx adulto abbia praticamente risolto arte e poesia nell’unificazione della sua produzione teorica con il suo essere e agire comunista… (è stato di questa natura il suo risolutivo “colpo di bacchetta magica”?)… [4] - da Marxismo e conoscenza umana, in Prometeo, n.1 1950: Dalla dottrina dei rapporti tra l’uomo-specie e la natura amica e nemica, noi non espelliamo l’Arte ed i suoi fastigi con un calcio nel deretano. Noi diciamo costruibile una storia del lavoro, della tecnica e della produzione, sulle cui solide fondamenta si reggono, e una storia della scienza applicata e teoretica, e una storia dell’Arte, i cui prodotti sono inesplicabili se non si intende quel duro cammino ad aprire il quale tutti i viventi - e tutti i giorni - contribuirono. " Ergai kai emèrai! " (Opere e Giorni). L’arte degli uomini espresse non qual fosse la potenza del Genio, ma quale grado avesse raggiunta quella che Marx chiamò la potenza di specie.” [5] - C’è qui una importante distinzione terminologica tra Arte e Cultura; la prima rivoluzionaria, la seconda conformista. Il problema si porrebbe nel formare il criterio che distingue l’una dall’altra. Sennonché la cultura deve passare nel setaccio delle istituzioni della classe dominante, l’arte soltanto in quello del tempo che lega gli uomini nell’arco millenario della loro storia... [6] - Donald Drew Egbert, Arte e sinistra in Europa (1968), ed. Feltrinelli, Milano 1975, p. 106. [7] - K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, p. 39, ed. la Nuova Italia, Firenze 1968. [8] - Ovvero sì nella forma parodistica – come dirà nel Diciotto Brumaio. [9] - Il nostro storico immagina pure di confondere il suo racconto tirandovi dentro il Classicismo, Mengs e Winckelmann e, vedremo, “l’ammirazione di Marx per la democrazia greca”. [10] - Mary Shelley, Frankenstein (1818) “Dopo giorni e notti di incredibile lavoro e fatica, riuscii a scoprire la causa della generazione della vita; anzi, di più, divenni capace di animare la materia inerte.” [11] - La "meraviglia" sorge forse dal paradosso dell’insorgere persistente di un bisogno sensibile pur sapendolo irrealizzabile? [12] - Questa nostra illazione sui greci ha trovato un fortuito conforto in una nota nella citata Storia della letteratura tedesca, nella quale leggiamo: “La polemica anticlassica di Jean Paul s’inizia con la Geschichte der Vorrete zur zweiten Ausgabe des Fixlein (Storia dell’introduzione alla seconda edizione del Fixlein, 1796), in cui la caricatura di un sovrintendente alle belle arti è implicita condanna della scuola classica dell’arte per l’arte. La Vorkschule der Ästhetik (Avviamento alla studio dell’estetica, 1804) accetta almeno in parte i principi (ed anche il linguaggio) del romanticismo; di veramente nuovo non vi è che la giustificazione dell’umorismo eretto a «genere letterario» per eccellenza moderno; genere giudicato validissimo, anche se sconosciuto ai greci.” [L. Mittner, Op. cit. Dal Pietismo al Romanticismo, ediz. Einaudi, Torino 1964, pag. 645]. [13] - “Il movimento di avvicinamento-allontanamento dall’oggetto rende l’ironia affine alla conoscenza. Il paradosso dell’ironia, il contrasto tra condizionato e incondizionato che si consuma in essa, è analogo, infatti, al paradosso della conoscenza…” (Valentina Cisbani, Umorismo e sublime in Jean Paul Richter, ed. Nuova Cultura, Roma 2013, pag. 28)
[14] - Nella lunga e interessante introduzione ad un’edizione del 2011 del romanzo umoristico di Marx, Gabriele Pedullà scrive che dal 1929 «cioè da quando la pubblicazione di Scorpione e Felice mise in imbarazzo più di un discepolo di Marx, è stato citato innumerevoli volte come prova di una rapida e definitiva conversione a una nuova poetica. Non ci vuole molto a comprendere per quali motivi un testo sperimentale come Scorpione e Felice potesse dare fastidio ai militanti e intellettuali socialisti e comunisti che si rifacevano al pensiero di Marx (sic!). Al posto del severo teorico della lotta di classe da queste pagine emergeva un ragazzo impertinente, ostile all’ipocrisia della provincia tedesca e al codice civile prussiano (e fin qui andava bene) ma incline a irridere con altrettanto gusto l’opera del grande Goethe e l’erudizione accademica: quasi un nichilista, deciso a non risparmiare per nulla e a nessuno il proprio umorismo. Un Marx - diciamolo pure - che tra i comunisti di quegli anni sarebbe potuto piacere soltanto ad André Breton e ai surrealisti. Era necessario dunque un ravvedimento, e proprio la lettera al padre sembrava fornire la prova che il “giovane” aveva messo “la testa a partito”, lasciando i panni del moquer e del goliarda per quelli del rivoluzionario consapevole della serietà della propria missione.
Tale lettura, fino a qualche anno fa sostanzialmente avallata da tutte le biografie marxiane, non regge all’analisi. La delusione per il proprio lavoro non implica un ripensamento sui propri modelli e men che mai una radicale abiura di una tradizione umoristica alla quale viceversa Marx sarebbe rimasto affezionato per tutta la vita.> |
> Nella lettera al padre, infatti, non si dice che il progetto originario era sbagliato, né si contrappone una nuova poetica, realistica, alla lezione sterniana (come pure si è spesso scritto), perché il giovane Karl si limita soltanto a notare che il proprio tentativo di incamminarsi sulle orme di Sterne (ma anche di Heine e Diderot) si è risolto ancora una volta in un sonoro fallimento, senza che da questo [suo proprio] risultato si possa trarre alcuna conclusione sul valore di quegli autori. Un fallimento doloroso che magari si potrebbe risolvere nella formula “Volevo rifare Tristram Shandy, e invece mi sono ritrovato a imitare Jean Paul!». [G. Pedullà, cit., pagg. XXXII seg.].
[15] - Edmund Wilson 1940, To The Finland Station; Fino alla stazione di Finlandia, Editoriale Opere Nuove, Roma 1960, pag 321 e seg.. – I ed. italiana, Rizzoli 1949. - (dalle ultime parole di Wilson, sviluppare che: ... l'arte (ma non solo) è un produrre modelli che riorientano...) [16] - Al proposito, Gabriele Pedullà, ancora nella introduzione al romanzo di Marx, riferisce che proprio questa opera di Balzac ossessionava Marx “perché temeva di riconoscersi nella figura del pittore geniale che, a forza di ritoccare senza sosta un quadro alla ricerca della perfezione, finiva per creare soltanto una massa indistinta di colori” (cit. pag. XIII). Naturalmente noi oggi potremmo rassicurarlo: in entrambe i casi, pittorico e teorico, nella pittura contemporanea o nell’opera di Marx, l'indistinto c’e solo per i sensi dominati da paradigmi tradizionali in crisi irreversibile … e c’è piuttosto da rimpiangere che Marx non abbia avuto più anni ancora per “ritoccare senza sosta” anche quel capolavoro del Manifesto… [17] - Parole che ricordano – con esito invertito - quelle pronunciate da Frankenstein: “Dopo giorni e notti di incredibile lavoro e fatica, riuscii a scoprire la causa della generazione della vita; anzi, di più, divenni capace di animare la materia inerte.” [18] - Nella sua meritevole Storia sociale dell’arte Arnold Hauser commenta: Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx: il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del proletariato esattamente come quella delle altre classi, una lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece vi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’attuazione di una condizione ideale e definitiva. Prima di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esemplare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero. «La virtù comincia con il benessere», dice nella Rabouilleuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indica come procede il formarsi dell’ideologia. «Le rivoluzioni si compiono – egli afferma – prima nelle cose e negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si trasformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’esistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osserva, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sempre più chiara la materialità del pensiero. Evidentemente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico più chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi materiali della società borghese non solo già di per sé erano più trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di travestire ideologicamente le premesse economiche del suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora troppo recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine. – Op. cit. II vol., ed. Einaudi, Torino 1964, pag. 281. [19] - Nel 1883 Morris entrò a far parte della Social Democratic Federation e, nel 1884 fondò la Socialist League. Morris si trovò così a mediare tra i marxisti e gli anarchici socialisti, spaccatura che infine portò al fallimento della Socialist League. Questo lato della vita di Morris è ampiamente discusso nella biografia di E.P. Thompson William Morris. Romantic to Revolutionary. [20] - Se qualche conforto per l’ironia ci è arrivato dalla storia della letteratura tedesca di Mittner (vedi nota 20), qualche altro continua a fornircene nel tomo seguente riguardo certe “anticipazioni” artistiche di carattere anche letterario di cui Marx ed Engels hanno sicuramente fatto esperienza diretta. Così è stato per gli elzeviri di Georg Weerth pubblicati tra il 1848 e il 1849 sulla Neue Rheinische Zeitung, di cui leggiamo: «L’articolo stesso è spesso soltanto una notizia oggettiva con una breve glossa ben nascosta nella notizia medesima; talora non è che un avviso economico, genere di cui Weerth si dichiara innamorato fino alla follia, il solo genere letterario che sia degno di essere tramandato ai posteri. Alcuni articoli della rivista ufficiale berlinese, collocati senza commento accanto ad articoli di un giornale scandalistico parigino, bastano a mostrare la differenza tra lo spregiudicato libertinaggio untuoso dei predicatori di corte e quello dei più ghiotti pettegolezzi erotici…». In tali premature “sperimentazioni” editoriali non sembrano risuonare, anticipate di oltre un secolo, forme e modi espressivi Dada e pop-artistici? Elzevirista ufficiale della Neue Rheinische Zeitung di Colonia, Weerth era fin dal 1845 annoverato da Marx tra i suoi amici più fidati e risoluti, ed Engels lo considerava il primo e più notevole poeta del proletariato tedesco… E il Manifesto stesso sembra presentare - con la scelta del titolo spudorato con cui si rivolge alla pubblica opinione – un analogo tenere il polso anche alle espressività antiformali che sorgevano nel clima delle rivoluzioni del 1830 e 1848. – Per quanto lo teniamo in scarso conto, in queste ultime nostre annotazioni, abbiamo visto riconosciute alle opere di Marx ed Engels anche un ruolo e un valore letterario; ma mentre Mittner le assume solo per le idee, Wilson ne coglie la specificità artistica e letteraria. [21] - D. D. Egbert, Arte e sinistra in Europa, cit., pag. 106 e 107. – Per quanto rabberciata, è chiaro che la bizzarra costruzione di quest’ultimo capitolo aveva di mira la conclusione - comunque risibile – di questo autore. [22] - Qualche anno fa, un brillante archivista di sé stesso (novello Jean Paul, ricco però solo d’una erudizione ben amministrata che gli impedisce la capacità fantasiosa del tedesco) lamentandosi della mancanza di una analisi dello stile letterario del Manifesto si è deciso a farla lui, fornendoci piuttosto un’analisi della struttura retorico-argomentativa, dato che, afferma, «si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e — …a parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica… — dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari». [Umberto Eco, Sullo stile del Manifesto, in La filosofia e le sue storie . L’età contemporanea, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ed. Laterza, Bari 2014] Anche così ridotto a depliant pubblicitario, e proprio per questo, il Manifesto sembra accordarsi perfettamente (seppure ne avesse bisogno) con la nostra temeraria costruzione dei fatti intesa a vedere Marx ed Engels fare esperienza diretta di anticipazioni di futuro anche in arte. E che nel Manifesto possa vedersi null’altro che un sagace depliant (warholiano o beuyssiano) di un finale di partita (beckettiano) può anche accadere. Un'analisi dello stile letterario del Manifesto continua dunque a mancare, ma non ci manca, e nulla di sostanziale qui è manchevole, per la nostra rivoluzione.
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IMMAGINI
I In alto - Attuale interno della Centrale Elettrica Montemartini a Roma. Qui sopra: William Morris 1859: motivo della decorazione parietale interna della Casa Rossa, Bexleyheath Kent nel Kent, progettata da Philip Speakman Webb per la Morris & Co. |
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