IMMAGINE DEL POPOLO
Timothy J. Clark
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 6 dicembre 2012
UNA SETTIMANA DI BONTA'
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POST SCRIPTUM
Les Paysans, che ho appena finito di leggere, e un nuovo romanzo, Madame Bovary [...] sembrano indicare che il pubblico è stanco di romanzi d'osservazione. Madame Bovary sarà l'ultimo romanzo  borghese. Dobbiamo trovare qualcosa d'altro. (Champflery, Notes intimes, 1857 1)
E’ il popolo che fra poco darà il tono in prima persona; mettetevi dunque all'unisono con le sue fanfare, che hanno dalla loro parte la consacrazione del passato e la certezza dell'avvenire. Se volete che il popolo vi comprenda, indossate subito la sua blusa azzurra nelle vostre opere; calcatevi in testa il suo berretto di cotone giù fino alla nuca, infilate le sue grosse scarpe. Un po' di letame alle mani non starebbe, in certi casi, troppo male [...]. Certo, certo, del letame! Insisto sulla parola. Chiudetevi il naso se ciò vi da noia. Tutto viene dal letame, fin ciò che ci nutre e ci veste, e noi stessi non siamo altro che letame, stando a ciò che dicono la Bibbia e la chimica. (Max Buchon, Recueil de dissertations sur Ie realisme, 1856 2)
Nei capitoli immediatamente precedenti ho raccontato una vicenda complessa, ma non vedo il modo di semplificarli. Courbet disse di se, nel 1855, che i suoi maestri nell'arte erano la natura, la tradizione, il lavoro e il pubblico 3. Il difficile, nel grande momento del realisino di cui ho parlato, era di mantenere compresenti tutti e quattro i fattori; e quando veniamo a sapere che, nel corso di un'altra conversazione, egli ebbe a definire la natura come «l’ensemble degli uomini e delle cose»4, il proposito appare anche piu ambizioso, forse scioccamente temerario. Courbet soffrirà per la sua ambizione piu tardi. Negli anni '60 la tradizione finì per morire nelle sue mani, la natura divenne meccanica, il pubblico rimase ostile, ma divenne viziato. La Commune arrivò quasi come un'ancora di salvezza per uscire da questo dilemma. Ma per un momento, negli anni dopo il 1848, l'ambizione funzionò: il complesso dialogo tra l'artista, il pubblico e l’ensemble degli uomini e delle cose, si verificò realmente.
II risultato possiamo definirlo arte politica? In certo sense si tratta di una domanda inutile. Courbet faceva le cose, certamente dipingeva le cose, per istinto, in silenzio. Come disse Buchon, era la sua mancanza di parole, la sua ingenuità che gli permettevano di dominare le idee del suo tempo. E’ stato il suo semplicismo a permettergli di sbarazzarsi delle complicazioni per arrivare alla sostanza dei fatti, quelli che stanno al centro della situazione nel 1850. Se egli avesse trovato le parole per esporre le intenzioni con le quali aveva eseguito il Funerale a Ornans, dovremmo diffidarne; qui come altrove, è la risposta inarticolata che conta, o meglio la risposta articolata in colore a olio su tela, con spatola e stracci e pennelli. Così se la politica è fatta di parole e programmi, il quadro di Courbet non ha nulla a che vedere con essa (è stato solo piu tardi, quando l'intuizione gli veniva meno, che ha cominciato, disastrosamente, a dipingere secondo un programma: ne è testimone il Ritorno dalla Conferenza). Egli non si preoccupò mai dell'interpretazione politica del suo lavoro; anzi tutti gli elementi di  cui disponiamo fanno pensare che egli ne|abbia largamente approfittato. Egli fece immediatamente proprio l'annuncio polemico di Buchon, approfittò dell'ondata di critiche uscite su di lui a Parigi e cominciò i Pompieri. Nel dicembre del 1851 fu uno dei pochi prescelti per andare a salutare Proudhon liberato dal carcere e portarlo a Meudon per festeggiare l'avvenimento, com'era da prevedere, con un'orgia di birra e canti 5. Ma questi sono fatti accidentali: il Funerale e gli Spaccapietre sono aperti a varie interpretazioni, complessi e tuttavia concentrati, in un modo che Buchon o Proudhon non erano effettivamente in grado di comprendere.
Ci sono naturalmente altre definizioni di «politico». Il mondo della politica non è essenzialmente un mondo verbale, anche se lo è in primo luogo. C'è una politica che è senza parole, al modo che lo è la fame, o la cupidigia. Spesso si conclude in un gesto muto: una falce sulla spalla, una pila di fieno che brucia, una barricata. E questo è il tipo di politica su cui lavora l'artista; egli distingue, come deve fare, tra una ideologia e i fatti che tenta di rappresentare. Nessuno lo ha fatto meglio di Courbet nel 1850. (Tranne forse Cechov, nel suo grande quadro della vita campestre, Nel burrone, uscito nella rivista marxista russa «Zhizn'» nel gennaio del 1900. Il suo caso, se ci si riflette, è vicino a quello di Courbet. L'arte di Cechov era «politica»? E tuttavia che cosa significarono la scelta del soggetto e il periodico in cui fu pubblicato, se non una disponibilità ad accettare le implicazioni del suo racconto?)
Voglio concludere con due quadri, uno di Courbet, l'altro di Camille Pissarro: il primo per dare un'idea della strategia di Courbet negli anni immediatamente successivi al colpo di stato, e il secondo per far capire che cosa Courbet abbia significato per gli artisti successivi.
II problema della strategia fu difficile per Courbet e i suoi amici, e, alla fine li portò al fallimento. Dopo il colpo di stato, quando la politica tornò ancora una volta a essere cosa riservata all’imperatore e ai politici di professione, quale valore poteva avere l'arte rivoluzionaria? Che cosa, in definitiva, essa poteva fare ora? Qualcuno degli amici di Courbet cercò di aggrapparsi al mondo del 1850 e rimettere in piedi la guerra delle immagini e degli almanacchi. Nel 1854 e '55 Pierre Dupont pubblicò due edizioni del Jean Guetre, Almanach du Paysans. Sulla copertina c'era una brutta litografia, forse di Martin Nadaud, o Gustave Doré in chiave realista, o addirittura dello stesso Courbet, che conserva qualcosa dell'aria della Repubblica: insolenza e tristezza, goffa posizione, un fissare ostinato. Ma dentro l'opuscolo, ubbidendo alle direttive del censore, non c'era traccia di politica: le pagine erano riempite di versi pastorali di Max Buchon, di brevi racconti bucolici di Champfleury.
Courbet non si era dato a questo tipo di nostalgia. Cercava invece una nuova linea di condotta. Nel 1854 eseguì un grande quadro in cui raffigurava se stesso e il suo nuovo protettore Alfred Bruyas, che si incontrano per la strada nei dintorni di Montpellier. Bruyas era colui che aveva comprato la Bagnante di Courbet al Salon del 1853, e aveva salutato questo quadro come la «soluzione» per l'arte moderna (non ha mai chiarito che cosa si intendesse col termine «soluzione»). Era enormemente ricco, vanesio, pazzamente eccentrico; i suoi scritti sono sempre vicini alla pazzia, alternando detti gnomici, tentativi infelici di poesia, di quando in quando omaggi a Luigi Napoleone (che egli vedeva come il salvatore, di qualcosa, per altro, che restava oscuro), reiterando ringraziamenti al Signore per la sua buona fortuna 6. Egli auspicava, per quanto si può capire dei suoi scritti, un'arte di sentimento e umiltà, di disimpegno, e perfino di ubbidienza. «Amore, Lavoro, Religione» era uno dei suoi slogan. Un altro, ed era il suo consiglio all'artista, era: «Les puissants ont sur vous raison» [I potenti hanno ragione rispetto a voi]7.
Un uomo abbastanza strano per Courbet e la Brasserie Andler, soprattutto se si tiene conto che Proudhon era uno dei pensatori che gli scritti di Bruyas prendevano di mira (non gli piaceva la frase di Proudhon «la proprieta e un furto»!)8. Tuttavia per due anni protettore e artista riuscirono a convivere. Bruyas aveva danaro, e le sue idee erano sufficientemente vaghe da poterle ignorare oppure imparare a memoria. Dopo la rottura (avvenuta nel 1855, quando Champfleury scrisse un saggio crudele, caricaturale, su Bruyas, usando materiali che solo Courbet poteva avergli fornito) il protettore si lagnò dei quattro mesi che Courbet aveva passato a Montpellier e delle «miserie» che gli aveva perdonato allora9.
Ma per un momento ognuno dei due sperò grandi cose dall'altro.
La grandezza dell'Incontro sta nel fatto che dà forma a quelle speranze e a quelle miserie: la tensione, l'affetto e l'assurdita del loro rapporto. Il quadro era uno di una serie che Bruyas gli aveva ordinato e in cui lui doveva essere raffigurato in compagnia dei suoi amici artisti: ma mentre gli altri pezzi della serie sono ossequiosi e pieni di tatto, riservando al committente il primo posto, questo è quasi una parodia di tutta quanta la sua iconografia privata. In esso, artista, protettore e servo stanno ognuno a se, e hanno lo stesso rilievo; si affrontano l'un l'altro in una chiarezza tagliente, inquieta, risultando come tre parti di una equazione non risolta.
La fonte dell’Incontro, ora lo sappiamo10, fu una stampa popolare. Courbet riprese un particolare di una stampa dell'Ebreo errante: il particolare che rappresenta la più moderna incarnazione di Assuero, sulla strada alle porte di Brabante. La didascalia si attagliava bene all'intenzione di Courbet: Les bourgeois de la ville parlant au juif errant. Era la stessa stampa che Courbet aveva scelto per il ritratto di Journet, ma qui se ne è servito in modo piu deciso. Egli si è tenuto stretto, rigidamente, alle forme dell'intagliatore: ha ritenuto del modello il bastone dell'ebreo e il cappello che egli tiene in una mano; ha rappresentato Bruyas nella stessa posa del borghese al centro, col suo cappello che quasi tocca il bastone del pittore; ha cambiato la posa della terza figura proprio per sottolineare il ruolo particolare del servitore. Soprattutto, ha reso le cose con la stessa chiarezza che si era proposto l'intagliatore: ha tenuto i colori piatti e chiari, col cielo ridotto a una stesura blu acido, come un fondale di teatro; ha reso taglienti i contorni delle cose contro il cielo, e lasciato le tre figure staccate l'una dall'altra, corpi separati che vengono non tanto legati quanto invece raggelati dal gesto incerto che Bruyas compie col suo cappello. Ancora una volta Courbet ha colto l'essenziale dell'arte popolare: la sua capacità di presentare nella forma piu chiara possibile, ieraticamente, emblematicamente, i dati essenziali di una situazione sociale o di un rito. Sia che rappresenti un funerale, o una battaglia, o le età dell'uomo, o gli attributi di un santo, è questo che l'artista popolare vuol fare, ed è questa la ragione per cui Courbet si tiene così fedelmente ai modi dell'arte popolare.
Perché Courbet ha scelto questo episodio della leggenda dell'Ebreo errante? Qualcuna delle ragioni è abbastanza chiara. Si tratta di un ritratto dell'artista come personaggio non integrato e vagabondo; risale cioè all'affermazione orgogliosa che egli aveva fatto a Wey: «Sto imbarcandomi nella vita grande, vagabonda, indipendente del bohémien». E la leggenda stessa presentava questi tratti caratteristici: l'Ebreo, con indosso il suo grembiule da operaio, già di per se rappresentava lo sradicato di ogni tipo. Ma oltre a questo, le implicazioni della scelta sono meno convenzionali. Infatti non si tratta semplicemente dell'artista sradicato, nella quiete malinconica del suo studio, che osserva i suoi tratti deformati in uno specchio. Si tratta dell'artista-ebreo che affronta «borghesi della citta»: in un atteggiamento irrigidito, girato a guardare in faccia le due persone che incontra. Per comprendere il significato di questo confronto dobbiamo saperne un po' di più sull'arte popolare stessa.
L'arte del popolo in Francia, i libri azzurri, gli almanacchi, le complaintes, non erano mai stati un fenomeno spontaneo, una semplice proliferazione del folklore e della leggenda senza tempo11. Questo era il mito romantico dell'arte popolare; la realtà era molto diversa. La cultura popolare a partire dal Medioevo aveva tratto i suoi soggetti e perfino il suo stile dall'ideologia delle classi dominanti: dai romanzi cavallereschi o dalle chansons de geste, da tutte le forme vive, resistenti al tempo, della cultura cristiana, dalla sapienza degli alchimisti, dalla leggenda storica di Carlo Magno. Perfino i costumi dei contadini brettoni, che Gauguin avrebbe dipinto con tanta attenzione negli anni '80 come «primitivi», altro non erano che un'imitazione dell'eleganza di corte medievale. La cultura popolare fino alla rivoluzione francese era rimasta immersa nel passato, però un passato storico. Aveva utilizzato e adattato le idee e i valori dell'aristocrazia feudale e della Chiesa medievale.
Poi, dopo il 1789, essa subì una serie di trasformazioni. La rivoluzione mutò radicalmente la sue figure e le sue idee; per un certo periodo i libri di pietà e le immagini dei santi scomparvero dal sacco dello stagnaio, e la vecchia magia, i nuovi romanzi, e i pamphlets politici, che improvvisamente dilagarono, presero il loro posto12. Questa fu la prima trasformazione; la seconda si ebbe con Napoleone. Per quindici anni i torchi stamparono il repertorio di immagini della nuova leggenda, e Napoleone divenne il nuovo Carlo Magno. Anche dopo Waterloo la leggenda napoleonica sopravvisse, nonostante i rigori della legge e la repressione; e durante la Monarchia di luglio l'autorita costituita lasciò ai torchi piena liberta.
Così sulla meta dell'Ottocento l'arte popolare era uno strano coacervo di età e ideologie diverse. Napoleone stava fianco a fianco con san Giacomo; un Libro dei sogni accanto a un opuscolo su Cabet o Fourier; suggerimenti per la coltivazione dei campi accanto a Tom Jones. Cosa più strana di tutte, l'arte popolare cominciò a venire in contatto con le immagini della Parigi borghese. Con la litografia cominciò seriamente la produzione di massa; e i contadini di Ornans poterono vedere l'ultima moda di Parigi o avere rozzi disegni delle meraviglie dell'Esposizione universale lo stesso anno in cui quella moda andava o gli oggetti dell’Esposizione erano presentati. Nel 1854 esisteva un'arte popolare borghese accanto a un'arte che ancora usava il repertorio di immagini dell'età feudale.
E’ stata questa dissociazione che Courbet ha utilizzato nel suo solito modo istintivo.
Le immagini popolari si erano sempre venute evolvendo (in altre parole, avevano trasmesso nuove informazioni) mediante una serie di trasformazioni, rovesciamenti di termini, esagerazioni e distorsioni di particolari.
Furono queste trasformazioni a mantenere viva la cultura dell'aristocrazia medievale fino nel cuore dell'eta moderna. Ciò che Courbet tentò fu una nuova, un'ultima trasformazione, per chiudere la sequenza iniziata con la rivoluzione e l'Impero. Egli cercò di utilizzare questo sistema di mutamenti e inversioni, e tenersi nell'ambito di comprensione di un pubblico di massa: creare, cioè, immagini con un doppio pubblico e un doppio significato. Nell'Incontro egli riprese un particolare di una leggenda e conservò con molta fedeltà la forma visiva dell'originale; conservò i borghesi, ma diede alla loro presenza un nuovo significato; conservò il paesaggio, fuori della citta, fuori del tempo; trasformò lo sradicato e il suo atteggiamento verso le persone che incontra. In altre parole si tenne stretto al testo, ma operò certi mutamenti essenziali.
Qui come altrove Courbet scelse un'immagine che era già arcaica. Lo stile della stampa dell'Ebreo errante sarebbe sembrato antiquato a un contadino nel 1854; essa non aveva nulla a che vedere con le abili, aggiornate litografie che uscivano dai torchi parigini in quello stesso decennio. Ciò nonostante resisteva; Epinal ne pubblico una versione mantenendo le vecchie forme ancora nel 1860. Courbet scelse di essere moderno a suo modo, contro l'andazzo dell'epoca: egli prese un'immagine decisamente medievale e semplicemente ne mise in evidenza il valore anche per la meta dell'Ottocento. Nell'Incontro, il borghese figura in un quadro di riferimento medievale. E’ stato questo, forse, che ha permesso a Courbet di vederlo in modo così fiducioso e diretto: di strapparlo cioè dal contesto del mito ottocentesco e collocarlo allo stesso livello dell'artista e del servitore. Quella che egli utilizza è l'immagine della borghesia di un'altra epoca: un'epoca che continuava a vivere nell'arte e negli atteggiamenti del popolo. E’ come se, per mettere a fuoco la borghesia e contrapporsi a essa, Courbet avesse bisogno di riportare la classe indietro nel tempo, a un'epoca in cui essa era parte, non padrona, del corpo sociale.
Questo non signifca che Courbet si accodi al revival medievale, o riecheggi lo sdegno isterico dell’aristocratico per la bêtise bourgeoise. Al contrario, egli utilizza i resti della cultura medievale che ancora sopravvivono, e non hanno bisogno di essere riportati in vita. Utilizza l'area in cui gli uomini ancora pensano e creano immagini con materiali che da lungo tempo ormai sono stati falsificati dalla storia. Questo valeva per l'arte e il modo di pensare popolare negli anni '50: ciò che Courbet voleva era di aggiungere nuovi materiali a quelli vecchi, imprimere alle antiche pose una signincanza moderna, piu polemica.
Viso a viso col borghese in questo quadro, nel cercare di trovargli una forma, Courbet sembra oscillare tra diversi atteggiamenti ideologici: fiero egalitarismo di tipo romantico, il freddo atteggiamento positivo dell'aristocrazia feudale, e l'accenno a un atteggiamento che è ancora più aspro. Infatti finora abbiamo trascurato la terza figura dell'Inconfro, il servitore Calas. A essa, dopo tutto, è volutamente attribuito un egual peso; ed essa è una presenza ambigua nel dipinto: dimesso, deferente, con gli occhi abbassati, Calas rende omaggio con una sorta di gesto automatico. Egli rappresenta la verita del «libero» confronto tra il mecenate e il pittore; la sua presenza introduce una punta piu acuta, piu ironica nell'incontro dell'Ebreo e del borghese.
Non sorprende che quando Champfleury passò in rassegna le versioni moderne dell'Ebreo errante, nella sua Histoire de l'imagerie populaire, non abbia fatto parola di quella di Courbet. Ciò che Courbet aveva fatto non aveva nulla a che vedere con l'entusiasmo del conoscitore per l'arte popolare, cioè quell'atteggiamento che i francesi compendiano, con un disprezzo che non si riesce a tradurre, nell'epiteto folklorique. E meno che mai accentuava le tendenze conservative, quietistiche della cultura popolare, che erano quelle che Champfleury tanto ammirava. Questo concetto dell’arte popolare era sempre stato unilaterale: per ogni Bonhomme misere c'era stato un Robin Hood. Non è questa una delle prime frasi che assorbiamo dal mondo superstite del romanzo popolare: «Rubava al ricco per nutrire il povero»? Non cantava il popolo Broom, Green Broom e Sabot casse, come cantava inni a san Marco? Comunque, dalla rivoluzione in poi l'arte popolare aveva cambiato decisamente, essa viveva ora di una mescolanza di passato e presente, della confusione di leggenda e politica. Ciò che Courbet fece nell’Incontro fu solo di cercare di dare un senso, il suo proprio senso, a questa confusione; ma la cosa in se stessa era sovversiva. Non sorprende che Champfleury non abbia mai ricordato l'opera in tutti i suoi scritti su Courbet; e non sorprende che la giuria per l'Esposizione universale abbia accettato il quadro solo contro voglia, dopo averlo in un primo momento rifiutato con il pretesto che era «troppo personale e troppo pretenzioso»13.

L'altro quadro di cui voglio parlare è il Ritratto di Cézanne di Pissarro, dipinto nel 1874. Cézanne aveva allora trentacinque anni, Pissarro ne aveva nove in piu, e il quadro fu dipinto nel bel mezzo di un periodo di due anni di intensa collaborazione, gli anni in cui Cézanne «imparò» l'impressionismo. Egli sta a sedere con in testa un cappello floscio e addosso una giacca sformata, contro una parete; e su questa sono appuntate tre opere d'arte. Un semplice paesaggio di Pissarro, che Cezanne chiaramente prediligeva. Un frontespizio strappato da un giornale satirico, con una vignetta di André Gill: Thiers, il capo della Terza Repubblica, sgrava la Francia di un curioso neonato, un sacco di quaranta bilioni di franchi sottoscritti da patriottici cittadini per estinguere i debiti di guerra con la Germania. Gia da sole queste due immagini costituiscono una coppia abbastanza strana, politica e paesaggio giustapposti. Ma quella che ci interessa è la terza: Courbet in persona, con il boccale in una mano e la tavolozza nell'altra, che saltella sulla spalla sinistra di Cézanne. Dietro Courbet c'è un'altra parete e un'altra antologia di quadri, questa volta naturalmente dello stesso Courbet!
Non sappiamo esattamente perché siano state scelte queste tre immagini. Certo sono state scelte con cura, di proposito: questo fatto importante è chiaro. Tutto il quadro è una sorta di risposta, quasi una parodia, del precedente Ritratto di Zola di Manet, nel quale il critico siede nel suo studio, vestito elegantemente, in una posa ricercata, mentre la parete dietro di lui è piena di immagini di grande raffinatezza: Manet, Velazquez, il Giappone. La scelta nel quadro di Pissarro è pura e semplice contrapposizione a quella di Manet: invece dell'eleganza, un giaccone e un cappelluccio, invece dell'estetica, paesaggio e politica, sotto l'egida di Courbet. II Ritratto di Cezanne di Pissarro14 è popolare e politico. E’ popolare nella sua scelta delle immagini del fondo (due vignette della stampa di sinistra, e uno scorcio di una strada di Pontoise) e nello «stile» del modello, con i suoi abiti campagnoli e la sua barba incolta. E’ politico nei suoi riferimenti: mette infatti in ridicolo Thiers e il patriottismo monetario della borghesia francese. E Courbet serve, aggressivamente, da congiunzione tra questi due aspetti: pipa e birra e patois; l'opposto e il nemico di Thiers; il tipaccio della Commune, che stava pagando caro i suoi peccati all'epoca in cui il quadro fu dipinto.
Il quadro di Pissarro riassume quella che è stata l'eredità di Courbet. Esso ci dà quella che è stata l'immagine di lui al suo tempo, agli occhi dei giovani, per tutto il tempo che la sua influenza durò. Non sappiamo fino a che punto, nel 1874, Cézanne condividesse le idee anarchiche di Pissarro e se questo ritratto politico fosse intonato alla sua mentalità. E’ però certo che egli venerava Courbet; e il culto di Courbet era necessariamente, nel 1874, offensivo per la borghesia. Il ritratto si colloca alla fine di un'epoca dell'arte francese, l'epoca in cui l'arte politica e l'arte popolare apparvero possibili: apparvero cioè come parti dello stesso progetto. Per un momento negli anni intorno al 1848, sembrò che l'arte delle classi dominanti fosse in pericolo di crollare. Sulla metà dell'Ottocento sia la cultura borghese che quella popolare erano in dissoluzione: l'una indebolita e piena di paure, cercando di superare il fatto della rivoluzione; l'altra gonfiata di nuovi temi e minacciata dalla produzione di massa. Ciò che avrebbe potuto accadere, e che Courbet per un momento cercò di far accadere, era una fusione delle due. Non l'alta cultura che andava incontro al popolo, non il linguaggio delle immagini popolari che assorbiva le mode parigine. Non un adattamento, ma un mutamento radicale. Una fusione in cui il predominio di una cultura sull'altra potesse finire. (Naturalmente questo non si verificò mai in questo modo. Ciò che invece si ebbe fu una fusione in cui la cultura delle classi dominanti gettò a mare i suoi temi e valori più preziosi, abbandonò, col passare del tempo, perfino la pretesa di una «creatività» o coerenza privilegiata, ma si attaccò come una sanguisuga al suo stato di unica Arte: definita dal semplice fatto della sua egemonia. Aprì le cateratte a tutto, nel mentre proclamava - o accettava, dopo un po' di confusione circa i confini dell'arte e della vita - la condizione magica e materiale di Arte: Originale, Fragile, 10.000 ghinee, Non toccare).

A Courbet una volta fu chiesto un autoritratto. Egli dipinse una pipa e scrisse lungo il bordo inferiore del quadro « Courbet, sans idéal et sans religion ». Questo è il goffo Machiavelli rispetto alla vita, ateo e materialista, una pipa e una filosofia, parole e oggetto, provocazione costante. Il problema era, ed era sempre stato, come mettere in pratica la filosofia. E al tempo che dipingeva la pipa e la sua didascalia, cioè nel 1869, Courbet era in attesa di un'occasione migliore di quella che offrivano i colori e la tela. Venne due anni dopo e per Courbet fu un disastro completo.
Ciò che di meglio ha fatto non è stato nella politica vera e propria. E’ stato ciò che ha fatto negli anni dopo il 1848, mentre c'era ancora una possibilità che l'arte, nel vecchio senso, potesse sprofondare e che una nuova arte prendesse il suo posto. Questo libro è dedicato a quel periodo, a quella possibilità. Esso propone una definizione minima di arte politica, propone una serie di criteri per quella «popolare». Quest'ultima parola ha ossessionato gli artisti ancora a lungo dopo la morte di Courbet, come se il mondo dell'arte avesse una cattiva coscienza dei suoi privilegi.
Da Mistral a Verdi, da Bartok a Léger, gli artisti hanno saccheggiato o imitato l'arte della «plebaglia». Mondrian ha perfezionato il suo fox-trot; Eliot ha scritto lugubremente di Marie Lloyd. Ma tutti quanti volevano il popolare come un'aggiunta all'arte vera e propria: come una trasfusione di sangue, un atto di nostalgia, qualcosa che ammiriamo e ingentiliamo. Courbet aveva tentato qualcosa di diverso: di distruggere la gerarchia, di porre fine al conoscitore. C'era arrivato assai vicino: tanto vicino da mandare su tutte le furie un pubblico e inventarne un altro; tanto vicino da restare impresso nella mente di Pissarro e Cézanne. Ma egli naturalmente non ci riuscì e i suoi amici furono del mediocri profeti.

Madame Bovary non fu, ahime, l'ultimo romanzo borghese; e quanto al popolo, ci vorrà qualche tempo prima che dia il tono in prima persona.
«Sì, signor Peisse, l'arte deve essere incanaglita».
«Certo! Viva la rivoluzione!»
«Ancora! A dispetto di tutto!»
Queste sono le istruzioni di Courbet al conoscitore, e di Baudelaire a se stesso, nel 1865.
Non mi sembra che siano invecchiate. 


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[1] - CHAMPFLEURY 1872, p. 246.
[2] - «C'est Ie peuple qui va tout & l'heure donner Ie ton en personne; mettez-vous done a l'unisson de scs fanfares, qui ont pour elles la consecration du passe et la certitude de l'avenir. Si vous voulez que Ie peuple vous comprenne, endossez vite sa blouse bleue, dans vos ceuvres; enfoncez-vous vite son casque a meche jusque sur la nuque, chaussez vite ses gros souliers. Un peu de fumier aux mains ne vous sierait meme, a l'occasion, pas trop mal [...]. Oui, oui, du fumier! J'insiste sur Ie mot. Pincez-vous Ie nez si cela vous offusque. Tout provient du fumier dans ce qui nous alimente et nous habille, et nousmerne nous ne sommes non plus que du fumier, a ce que disent la Bible et la chimie» (BUCHON 1856, p. 92).
[3] - Cfr. BOREL i9222, p. 78. Aggiunta all'introduzione al catalogo.
[4] - TROUBAT 1900, p. l62.
[5] - DOLLEANS 1948, p. 256.
[6] - Cfr. il suo opuscolo del 1852, À l'appui de la verité du 2 decembre 1851, ristampato in BKUYAS 1853, pp. 5-6.
[7] - «Les puissants ont sur vous raison». Cfr., ad esempio, ibid., pp. 33 e 75.
[8] - BRUYAS 1854, p. 37. Mi sembra strano che quanti finora hanno scritto su Courbet e Bruyas non abbiano detto cio che era evidente: che Bruyas era, almeno nei suoi scritti, parecchio piu di un eccentrico. In realta era più vicino alla pazzia, più vicino a Jean Journet (ci sono tracce di un fourierismo mal digerito nelle sue idee politiche).

[9] - Cfr. la lettera di T. Silvestre a Bruyas del 14 febbraio 1874 (l'incidente bruciava ancora!), alla Bibliothèque municipale de Montpellier, Ms 365. Tutto il carteggio e pieno del vecchio litigio. Ad un certo punto, il 22 febbraio 1874, vi si fa curiosamente cenno di Baudelaire, a proposito di Courbet: «Quant'à ce que vous dites de notre cher et regrette Baudelaire vous avez bien raison: Lui n'était pas un goujat, conune l’autre; c'était un parfait gentleman » [Quanto a ciò che dite del nostro caro e compianto Baudelaire, avete certamente ragione: lui non era un lazzarone come l'altro; era un perfetto gentiluomo].
[10] - Identificato da NOCHLIN 1967.
[11] - Ho trovato che l'opera di Mandrou è di gran lunga lo studio piu impegnato sull'arte popolare, l'unico che vada oltre l'atteggiamento del collezionista. L'esposizione che segue utilizza largamente la sua analisi dei temi e dello sviluppo storico di quest'arte.
[12] - Cfr. SOBOUL 1958, pp. 672-73, per l'analisi della cassetta di uno stagnaio sequestrata nel mese di Pluviôse, anno II.
[13] - Cfr. BOREL 1922', p. 75, lettera a Bruyas. I verbali del Jury des Admissions lo confermano. Nella seduta del 7 aprile, accanto a La Rencontre si vede scritto «respinto», poi corretto in «anunesso». Cfr. AN F21* 2793.
[14] - Cfr. REFF 1967, per un'analisi approfondita dell'iconografia del quadro.

Da, Immagine del popolo – Gustave Courbet e la rivoluzione del 1848, di Timothy J. Clark 1973; I ed. italiana Giulio Einaudi, 23 settembre 1978, Torino.