La superficie come “ospite” ovvero lo “schermo” (in pittura) 43.0 - Se le opere dei pittori indicati in 40.0 si dispongono variamente attorno al punto limite della "mera superficie" per rendercela visibile sotto le specie di "ospite" o di "supporto", resta ancora da dimostrare che quanto accennato sullo "schermo" abbia trovato realiter una sua specifica forma pittorica, tale che tutto questo ragionare non cada fuori delle concrete pratiche artistiche?
Allora diciamo subito che è merito di alcune opere di Fabio Mauri averci infine offerto non solo la possibilità di rendere tangibile la categoria dello "schermo" in pittura, ma anche (a conferma dei passaggi bronzei previsti da questo specifico cammino) di avere offerto alcune delle prove ulteriori che lo "schermo" si riserva e implica. Tuttavia, se dobbiamo dare a Fabio quello che è di Fabio è ancor più necessario dare allo schermo quello che è dello "schermo"[1]
43 - Quando ciò che lo schermo rinvia è indovinato come puramente casuale, ogni certezza prende a vacillare e lo schermo si fonda come unica realtà oggettiva, immutabile, nel tempo rimanendo sempre uguale a sé stesso.
D’altronde, posta l'antinomia, la fiacchezza di uno dei termini irrobustisce l'altro.
44 - Data l'immagine filmica e lo schermo, l'esplorazione combinatoria delle loro possibilità casuali non può che giungere presto all'unico altro caso che rimane: quando lo schermo si sottrae al flusso numinoso delle immagini e lascia che il fascio luminoso sospinga l'immagine verso l'infinito e il deperimento.
Questo sottrarsi si è reso possibile in quanto lo schermo e l'immagine sono due entità autonome, e il loro possibile autonomo sussistere (nella pittura modernista) ne è la dimostrazione sperimentale.
Solo quando il loro divorzio si fa definitivo lo schermo inizia a giocare un proprio ruolo esclusivo, e i suoi nuovi incontri con le immagini ora cadranno sotto le leggi dell'ospitalità, non più della coniugatio.
Rimane forse da chiedersi cosa succede all’immagine che non incontra lo schermo?
45 - La rappresentabilità della fantasmagoria vorticosa delle immagini, non certo risolta dal Futurismo [2], si rende possibile solo con un candido schermo, che nella immaculatezza del suo porsi tutte le immagini inferisce e provoca.
46 - Lo schermo è anche l’estroflessione della meccanica interna dell’occhio, la struttura dello sguardo resa concreta.
Sciolti i legami con l'apparecchiatura, lo schermo, non è più un generico piano di proiezione cinematografica.
Il compito che ora gli si rivela non è più quello - che in un primo tempo lo aveva abbacinato - di rappresentare il fenomeno del cinema nelle sue determinazioni particolari e altamente accidentali, ma quello di riconoscersi come la condizione tangibile delle attualizzazioni del pensato e del pensabile; dunque come forma tangibile del pensiero stesso indipendentemente a ogni contingenza.
Lo schermo è la base materiale nella quale e sulla quale l'immagine e la luce trovano, finalmente, riposo: il loro determinato riposo e soluzione.
E' un'opacità del tempo che può dare forma alla memoria, finalmente rivelarla ai sensi - sia pure nella confessata incapacità di prolungarne l'attimo, il momento involontario, decisivo a volte, se non tramite la riconversione cleptomane della fotografia che inverte il movimento dissolutore, l'andamento inarrestabile del flusso dei segni.
47 - Andandosene liberamente tra gli uomini, lo schermo è una provocazione in atto: cioè, reclama ogni e qualche risposta; ed è un atto di provocazione: cioè, rifiuta ogni risposta.
Egli è categorico nella sua estrema illimitata disponibilità e indisponibilità.
È talmente sottile che ha escogitato un metodo sicuro per porsi al riparo e prevenire le indagini sul suo conto. Pone delle domande alle quali egli solo può rispondere; ma risponde con enigmi per sottrarsi così ad ogni inchiesta che sa perniciosa alla sua salute - offre gli enigmi per indaffarare gli uomini, mentre il suo pensiero intossica la stanza.
Non scende a patti con altri segni. Ma paradossalmente - e forse neppure tanto - questo suo porsi contro i segni è la sua condizione per sottomettersi illimitatamente a tutti i segni illimitati.
La sua voglia nascosta (e tanto ha il pudore di mostrarla che a sé stesso persino la nasconde) è d'essere posseduto interamente e perpetuamente da tutti i segni e da tutti i capricci ideologici senza concedersi interamente a qualcuno.
La sua ambizione, che lo divora, è la polisemia.
Le sue prestazioni vanno sotto il segno della sregolatezza: egli non può possedere nessuna regola, è però dominato dalla legge dell'ospitalità - ma non la possiede: ne è posseduto. [3] O forse può possedere solo la regola dell'azzardo, la stessa del giocatore - per il quale non vi è regola rispondente, e per questo, sempre con rinnovato ardore, pretende farsene; allora è la regola dell'azzurdo.
E se tutti questo sono i preliminari per la morte, lo sono pure per una esistenza liberata dall'esistenza, sottratta al caso e sottomessa alla necessità dell'istante - e l'istante sconfigge il caso, poiché non consente (concede) opzioni (sostituzioni), ma solo altri istanti che non lo riguardano già più.
Lo schermo, invero, è anche una minaccia: è sempre pronto a rendere tangibile ai sensi il nostro pensiero - è la cattiva coscienza (di chi si sa corruttibile).
Desiderando concedersi a tutti, lo schermo non può che privarsi di ogni prerogativa selettiva; non predilige nessuno e non condanna nessuno - neppure lui osa scagliare la prima pietra: geme di essere posseduto.
Così la sua depravazione sostanziale rende necessaria la sua castità virginale - da qui la sua forma enigmatica.
48 - Sia lo schermo che l'ospite hanno ognuno un doppio senso, che ne fanno delle unità specchianti in cui gli antagonisti si conciliano mentre i concilianti si antagonizzano.
L'ospite è colui che accoglie (che riceve - concavo) ed è al tempo stesso colui che viene accolto (che si offre - convesso). L'ospite è lo straniero amico e l'amico ostile.
Anche lo schermo designa tanto un piano su cui si proietta e si rende visibile (che riceve - concavo) una realtà antistante, ma indica anche un piano opaco per una realtà retrostante, sottratta all'occhio (convessità scivolosa allo sguardo). E’ dunque al tempo stesso un rivelatore di immagini e un offuscatore di immagini; ossia: un impedimento alla visione profonda.[4]
49 – Dunque, lo schermo è l'ospite, e l'ospite è il visitatore, è lo schermo.
L'ospite è sicuro della propria esistenza e consistenza: egli si sa.
Ma sapendosi in quanto ospite si sa incernierato (come la porta di Duchamp, che chiudendosi apre e aprendosi chiude) sul proprio asse di simmetria; egli si racchiude tutto lì, in questo luogo della consapevolezza che è una valvola cardiaca dell'andare e del venire, dei flussi palpitanti del suo segreto cuore. [5] L'ospite è tale solo se il visitatore lo attualizza penetrando nella sua aura ospitale. Altrimenti non è più tale. Ma neppure il visitatore sarà visitatore, ossia: l'ospite non è più l'ospite.
L'ospite non sarà ospite se il visitatore non sarà visitatore.
Sebbene analiticamente (nei ruoli) visitatore e ospite si presentano uno all'altro come due unità contrapposte e distinte (dunque op-stili), la loro esistenza è complementare una all'altra, l'una dall'altra dipendente, l'una dall'altra e l'una nell'altra risolventesi e dissolventesi.
Impassibile l'ospite deve subire il visitatore, ma anche viceversa, se ognuno vuol rimanere ciò che è.
Entrambi non possono evitare l'incontro verso cui si mobilita tutta la loro esistenza.
Sebbene il loro reciproco odio diviene di giorno in giorno tremendo e palese, la loro dannazione è nella perenne riconciliazione: e questo li ammorba.
Lo schermo, come l'ospite, è disposto a tutto e invoca l'incontro senz'altro e comunque: pena la sparizione.
Lo schermo non è un campo potenziale ma attuazionale di tutte le voglie.
E’ la zona del pervertimento del pensiero e dell'azione.
È un vuoto infettato; portatore sano d'ogni immagine; automi-munizzato contro le sue stesse seduzioni: perciò più infido.
Come un bordello estremamente sguarnito lo schermo è però sempre pronto a ospitare tutti quelli che passano nel vicolo. E nella condizione di celibe, può arrivare a farsi anche pretendente di sé stesso.
E’ insomma il deserto tebaidico di sant'Antonio.
50 - Lo schermo, come ospite incontinente, si rifiuta, per costituzione o istituzione, di trattenere più a lungo il visitatore oltre l'attimo fuggente dell'incontro. Ossia: oltre l'attimo in cui si è incontrato con sé stesso, rivelato a sé stesso come ospite e visitatore.
Il suo desiderio di assolutezza lo condanna all'estrema solitudine dello scialacquatore che consuma sé stesso nei continui lampi accecanti dell’incontrarsi.
Amministra la propria abbacinante nudità con l'oculatezza dei parsimoniosi e prende a vivere interamente la sua condizione (convinzione?) di insostituibilità in tutte vicende che le contingenze gli intrecciano attorno: da loro, lui, finalmente libero.
Nella sua originaria passività ha con insistenza e silenziosamente perseguito un proprio intimo progetto di redenzione.
Quando la pellicola è tutta passata, tutta avvolta nella propria spirale della durata, la dichiarazione della FINE è proponimento di mai più concedersi, ossia premonizione sicura al raggiungimento della libertà.
L'unica condizione per compierla era riposta nello scivolare via repentinamente dal flusso luminoso di immagini: farsi negare come ospite di visite inquietanti ("Buon angelo, Maria non c'è. Passi un'altra volta; vedremo di redimerci per nostro conto").
Ma adesso la sua verginità finalmente conquistata è provocazione continua.
Il suo bianco vestito attira irresistibilmente, come una finestra illuminata nella notte, miriadi di falene accecate e impudiche che vi si precipitano per schiacciarsi sul vetro e morire in quella trappola mortale.
Il suo candore (forse morale? Calvinista? allora meglio: giansenista) si va svelando come la forma più sottile del peccato reso enorme dal mascheramento dell'immacolatezza.
Questo candore esposto a tutti geme di concedersi.
Lo schermo non è un segno perché li è tutti; oppure è il segno di tutti i segni possibili, il loro centro di gravità, l'occhio del tifone e il cuore vuoto del polifemo.
Il che equivale a dire che è l'ultimo segno o li precede; che intanto è il loro fondamento materiale in quanto, pur essendo materiato, è negazione d'ogni determinata loro materialità.
Lo schermo non ha un'ideologia perché le ha tutte.
La quale è pur sempre un'ideologia, ma la più laida.
51 - La pittura come schermo, e viceversa, non è il risultato di una rinuncia (di una sospensione o di una interruzione dei rituali), ma precisamente il contrario: è proprio la soluzione pittorica di una incapacità di rinunciare ad alcunché; è la forma di un eccesso, di una dismisura, la voracità di rappresentare immediatamente il mondo intero nella sua propria voracità di rappresentazione; è il vuoto bulimico del ventre del mondo.[6]
52 - La pittura adesso qui può anche accadere.
Però non è detto - pur anche muovendosi nella direzione (limite) della pittura.
Come ogni diritto non si porta appresso l'oggetto cui dà diritto (altrimenti che diritto sarebbe?), così anche il diritto dello schermo alla pittura non si porta appresso la pittura: ne ha solo la capacità.
Allora lo schermo, proclamando il proprio diritto all'arte della pittura, ne confessa la penuria. Deve rimanerne sguarnito proprio per consentirsi sempre questa sua propria possibilità; per continuare ad aver perenne diritto alla pittura, per essere questo stesso diritto incarnato. [7] La mera superficie rimane la pittura irriducibile: ne è l'opera e il prius.
Con lo schermo la pittura non è più la rappresentazione del mondo, né la rappresentazione della pittura in sé: è il mondo (e il modo) stesso della possibilità di rappresentare (ancora pittoricamente?) il mondo esterno. [8]
Le condizioni materiali affinché tutto ciò si è potuto realizzare praticamente, potevano essere offerte alla pittura solo in una determinata fase storica nella quale tutti gli universali rapporti tra gli uomini e le cose si oggettivassero per rendersi universalmente autonomi tanto dagli uomini che dagli oggetti.
(Il vagheggiato mondo senza oggetti di Malevič, è forse niente altro che il reale mondo delle merci? Il dubbio ci seduce.)
53 - Non è qui il caso di dire di più su quale sia il paradigma sociale che solo poteva consentire alla "mera superficie" di pervenire nella sfera della produzione pittorica nell’epoca moderna.[9] È invece da aggiungere che lo schermo, emancipatosi da una sudditanza che lo voleva ospite per forza, è andato emancipando anche i termini, ormai non più interdipendenti, dell’apparecchiatura da proiezione, del fascio luminoso e del film: memoria e tesoro d'immagini, conchiuso universo linguistico di cui la fine è nota (sicura).
E questi altri termini diventano di fatto i protagonisti di altre vicende di questa medesima storia; e nel loro autonomo sviluppo rendono probante quanto fin qui detto.
The surface as guest - i.e., the “screen” (in painting)
43.0 – If the works of the painters discussed in 40.0 position themselves in various ways around the limit and end-point of the “mere surface”, in order to make it visible to us as a species of “guest”, or “support”, do we still need to show that what has been put on the “screen” has found in reality a specific pictorial form of its own, so that this whole discussion doesn’t fall outside the purview of real artistic practices?
Let us then say right away that it’s thanks to some of Fabio Mauri’s works that we have the chance to give a tangible sense to the category of the “screen” in the context of painting, but that we have also (in confirmation of the bronze passages prepared for this specific itinerary) some of the further proofs which the “screen” claims and implies. However, if we need to give to Fabio what is rightfully Fabio’s, then even more do we need to give the screen that which rightfully belongs to the “screen”.[1]
43 – When what the screen postpones is guessed to be purely random, then every certainty begins to waver and the screen becomes the only objective reality, unchanging in time, ever true to itself.
On the other hand, if we pose the antinomy, the weakness of one of the terms will strengthen the other.
44 – Given the cinematic image and the screen, if we explore their random combinations cannot but quickly reach the only other case left to us: that case in which the screen escapes from the numinous flow of images and allows the beam of light to push the images towards infinity and their wasting away.
This escape becomes possible only if right from the beginning the screen and the image are two distinct entities.
Only when their divorce is final does the screen begin to play an exclusive role of its own, and its new encounters with images now fall under the laws of hospitality, no longer those of conjugatio. There remains perhaps the question of what happens if the image does not meet up with the screen?
45 – The depictability of the dizzying phantasmagoria of images, which was certainly not solved by Futurism [2], becomes possible only with a blank screen, which with its immaculate presence infers and provokes all images.
46 – The screen is also the extroflection of the eye’s internal mechanism, the structure of the gaze made factual.
Once the ties with the equipment are loosened, the screen is no longer a generic plane of cinematic projection.
The task now revealed to the screen is no longer that one – which at first had blinded it – of representing the phenomenon of cinema’s specific and highly incidental features. Its task now is to realize that it is the tangible condition of the products of thought and what is thinkable. Thus, as a tangible form of thought, unaffected by all contigencies.
The screen is the concrete base in which and upon which image and light find their hard-earned rest. Their specific rest and solution.
It is a dimness of time that can give shape to memory, and finally reveal it to the senses: even though it knows it can only lengthen its duration – the unwilled, at times decisive, moment – by means of the cleptomaniacal reconversion of photography, which inverts the dissolving movement, the unstoppable flow of signs.
47 – Going free amongst men, the screen is a living provocation. I.e., it demands every answer and some answers. And it is a provocation. I.e., it rejects all answers.
The screen is categorical in its extreme and unlimited availability and unavailability.
It is so subtle that it has devised a sure method to protect itself and stave off any investigation of its activities. It asks questions for which it only can provide the answer. But it answers with enigmas so as to avoid any scrutiny which may affect its health. It offers the enigmas to keep men busy, while its unhealthy thinking fills the air in the room.
It does not come to terms with other signs. But, paradoxically (and perhaps not so paradoxically at all) this stance it adopts against signs is the condition it puts to yield unlimitedly to all unlimited signs.
Its hidden wish (and such is its shyness in showing that wish that it hides it even from itself) is to be possessed completely and forever by all the signs and all the ideological whims, without in fact yielding completely to any single one of them.
Its ambition, which is all-consuming, is polysemia.
Its performance exists under the sign of intemperance: the screen cannot possess any rule, but is mastered by the law of hospitality – but does not possess it: rather, is possessed by it.[3] Or perhaps it can only possess the rules of gambling, the same rules which the player possesses – i.e., no rules, for which reason the gambler, with ever-fresh ardour, makes up the rules of gamblurdity.
And if all these are the preliminaries leading to death, they are also the preliminaries for an existence freed of existence, removed from chance and subjugated by the necessity of an instant – for this instant defeats chance, because it does not permit (make allowance for) options (substitutions), but only other instants which no longer have anything to do with it.
The screen, indeed, is also a threat, since it is ever ready to make our thoughts tangible to the senses. It’s the dirty conscience (of what realizes it is corruptible).
Wanting to yield to all, the screen must necessarily let go of all selective prerogatives. It dotes on no-one, nor does it condemn anyone. Not even the screen dares to cast the first stone. But it wails to be possessed.
Thus its essential depravity makes a virtue of its virginal chastity. This is where its enigmatic form hails from.
48 – Both screen and guest have a double meaning: they mirror each other, whereby the antagonists are reconciled while the reconciled antagonize each other.
The guest is he who welcomes (receives – concave) and is at the same time he who is welcomed (who offers himself – convex). The guest is the friendly stranger and the hostile friend.
The screen also designates both a plane surface on which a reality placed in front is projected and made visible (receiving – concave); but it also indicates an opaque plane surface for a reality in the back, denied to the eyes (a slippery convexity for the gaze). It is thus at one and the same time a revealer of images and an obstructor of images. In other words, a bar to deep vision.[4]
49 – Thus the screen is the guest. And the guest is the visitor, the screen.
The guest is sure of his existence and consistency. He know who he is.
But knowing himself to be a guest he also knows that he’s hinged (like Duchamp’s door, which closes as it opens and opens as it closes) on its own axis of symmetry. He is entirely enclosed there, in this place of self-awareness which is a heart valve of the coming and going, of the throbbing flows of his secret heart.[5] The guest is a guest only if the visitor makes him real by penetrating into his aura of hospitality. Otherwise he is no longer a guest. But then the visitor won’t be a visitor either. Which is to say that the guest is no longer a guest.
The guest will not be a guest if the visitor is not a visitor.
Although, analytically speaking, the visitor and the guest (in their roles) introduce each other as two opposing and distinct (thus op-stile) units, their existence is complementary, one depends on the other, they resolve into each other and dissolve from each other.
Impassibly, the guest must endure the visitor, but the inverse is also true: if, that is, each wishes to remain what he is.
Both of them cannot but confront the meeting towards which their entire existence is mobilized.
Although their mutual hatred grows daily fiercer and more obvious, their damnation rests in perennial reconciliation. Which fact casts a pox on both.
The screen, like the guest, is ready to do anything and invokes the meeting in any case and by all means. For the penalty for doing otherwise is to disappear.
The screen is not a potential field, but a way of bringing all wishes into being.
It is the area in which thought and action are perverted.
It is an infected void; a healthy carrier of all images; automi-immunized against its own seductions. And thus all the more treacherous.
Like an ill-equipped brothel, the screen is however always ready to welcome all the passers-by in the alley. And in its bachelorhood, the screen can even become his own suitor.
In brief, it is St. Anthony’s Thebaidic desert.
50 – The screen, like an incontinent guest, refuses, constitutionally or institutionally, to keep the visitor longer than the fleeting moment of encounter. That is, longer than the moment in which the screen meets its own self, revealed to itself as both guest and visitor.
The screen’s desire of absoluteness condemns it to the harsh solitude of one who consumes his own self in a series of blinding flashes of meeting.
He administers his own dazzling nudity with the caution of the thrifty, and starts fully living his condition (conviction?) of being irreplaceable in all the events which contingency weaves around him. And from those contingencies he goes free at last.
In his initial passivity, he has silently and insistently promoted his own inmost project of redemption.
When the film has gone through to the end, all rolled up in its own spiral of duration, the statement of the END is a resolution never to offer itself again, i.e., a sacred premonition of freedom attained.
The only condition to fulfill it was in slipping away rapidly from the bright flow of images: to be denied as a guest of dubious visits (“My good angel, Mary isn’t here. Come again; we’ll try to redeem ourselves on our own”.)
But now the virginity it has finally gained is a constant provocation.
Its white dress is an irresistible attraction, like a brightly lit window at night, a cloud of moths which are blinded and unashamedly plunge towards the window and crash against the glass pane, dying in that deadly snare.
Its candour (moral perhaps? Calvinist, or, better: Jansenist) is gradually revealed as the subtlest form of sin, made immensely large by masking immaculateness.
This candor exposed to all, wails and wishes to yield.
The screen is not a sign, because it is all signs. Or then it’s the sign of all possible signs, their centre of gravity, the eye of the storm and Polyphemus’ empty heart.
Which is tantamount to saying that it is the last sign, or then the one that leads them; which in any case is their material foundation in the sense that, though fashioned out of matter, it negates all aspects of their material nature.
The screen has no ideology because it possesses all ideologies.
Which is also an ideology in fact, but an uglier one.
51 – The painting as a screen, and vice-versa, in not the result of any renunciation (a halting or interruption of the rituals), but exactly the opposite: it is precisely the pictorial solution of an inability to forego any one thing; it is the visible form of an excess, of a measurelessness, the great hunger to immediately depict the whole world in its hunger to be depicted. It is the bulimic void of the world’s belly.[6]
52 – Painting here, now, can even happen.
But there is no certainty of this, even though it moves towards (the end point of) painting.
Like all rights, it does not carry with it the object to which it gives a right (otherwise what kind of a right would it be?); so also the right of the screen to painting does not carry painting with it: it only has the ability to do so.
And thus the screen, as it proclaims its right to the art of painting, confesses its penury. It has to remain without precisely in order to always have this possibility; to continue to have a perennial right over painting, for this to become a right in flesh and blood.[7]
The mere surface remains the irreducible painting. It is the work and the prius.
With the screen, painting is no longer a depiction of the world, nor is it the depiction of painting as such: it is the very world (and the way) of the possibility of depicting (again, pictorially?) the outside world.[8] The material conditions required for all this to happen in actual fact, could have been given by painting only in a specific historical phase, a phase in which all the universal relationships between men and things became objectified in order for them to gain universal freedom from both men and objects.
(Malevich’s much-desired world without objects, is then perhaps nothing more than the real world of commodities? A seductive thought.)
53 – It is not a case here to say anything more concerning what might have been the only social paradigm which could have eased the “mere surface” into the sphere of pictorial production in modern times.[9]
On the other hand, we do need to say that the screen, once it had emancipated itself from the subalternity which forced it to be a guest, has moved forwards, emancipating also the terms of the projector and ancillary equipment, the beam of light and the film, all of which no longer are interdependent. A memory and a treasure of images, a closed linguistic universe whose sure end is known to everyone.
And these other terms in fact become the heroes of other events of this same story. And in their independent development they confirm what has been said above.
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[1] Una elaborazione delle note precedenti il 1975 è stata pubblicata nella monografia di Fabio Mauri del 1994 (vedi qui in Appendice. [2] Vedi scolo 41.g su Futurismo. - Il Futurismo illude (e allude) alla rappresentazione della molteplicità delle impressioni retiniche, adottando convenzioni grafiche e plastiche mutuate dalla letterarietà. [3] (Cfr. 35.e). [4] Cfr. scolo 39.f.3). [5] (Cfr. 39.e). [6] (Cfr. 9) [7] (Cfr. 24, 25) [8] (Cfr. 36.a) [9] Per le parti riguardanti le omologie tra superficie e forme economiche Cfr. "L'azzardo omologetico" negli estratti pubblicati nell'Imprinting del settembre 1976].
[1] A wider treatment of the notes written before 1975 was published in Fabio Mauri’s monograph in 1994. (See Appendix) [2] See Run-off [point 41g] on Futurism. - Futurism wrongly believes that by borrowing graphic and plastic conventions from literary subjects it can depict the multiple aspects of retinal impressions. [3] Compare with point 35e. [4] Compare with run-off 39f, 3. [5] Compare with point 39e. [6] Compare with point 9. [7] Compare with point 24 and 25. [8] Compare with point 36a. [9] For the sections dealing with the homologies between surface and economic forms, see “L’azzardo omologetico”, in the extract published in Imprinting September, 1976.