COSTRUZIONE DI UNA VARIABILE INDIPENDENTE

François Molnar . 1968
arteideologia raccolta supplementi
made n.12 agosto 2016
LA RIPRESA DELLE OSTILITA'
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L'esperienza classica in psicologia consiste nel presentare uno stimolo « S » ai soggetti, e nel registrare le loro risposte « R ». La prima condizione di ogni esperimento è quella di poter caratterizzare sia lo stimolo che la risposta per mezzo di indicatori e di associare a questi una scala qualitativa o quantitativa. Spesso poi si misurano gli « errori » dei soggetti. La difficoltà in estetica — osserva Woodworth — è che non ci sono errori da misurare poiché non c'e un campione oggettivo che possa servire per questa misura (Woodworth 1945). L'estetica sperimentale ha risolto questo problema misurando per mezzo di procedimenti statistici sempre più perfetti, non «l'errore», ma lo scarto tra il giudizio di un soggetto, o di un gruppo di soggetti, e quello di un gruppo di esperti come pure la concordanza del giudizio all’interno di un gruppo di soggetti.
Utilizzando uno di questi metodi, o tutti e due insieme, si è riusciti a mettere in evidenza da una parte delle correlazioni tra i giudizi estetici e l'appartenenza a certe categorie socio-culturali, dall'altra delle concordanze di giudizio nei diversi campi dell’estetica, che vanno dalla preferenza dei colori fino a dei fenomeni più complessi, come per esempio classificare riproduzioni di quadri (Frances, 1966).
Malgrado questi risultati, resta aperto in estetica il problema della determinazione dello stimolo fisico. Nel tipo di esperimenti che abbiamo citato, poiché l'indicatore dello stimolo è dato essenzialmente dalle risposte dei soggetti, non si sa mai esattamente a quale variabile dello stimolo corrispondano le risposte. Per arrivare a determinare fisicamente uno stimolo, bisognerebbe conoscere la o le proprietà dello stimolo che hanno suggerito la risposta estetica. Di due opere che si rassomigliano fino nei minimi particolari, l'una può essere considerata un capolavoro mentre l’altra un quadro di pessima qualità.
In queste condizioni, è naturale che gli sperimentatori abbiano speso una considerevole energia nel costruire stimoli le cui proprietà fisiche ben determinate siano suscettibili di provocare una risposta estetica (Genovese, 1965).
Uno dei primi tentativi è stato quello del Fechner agli inizi della psicologia sperimentale. Egli ha utilizzato dei rettangoli come variabili indipendenti, mentre la variabile dipendente era costituita dal grado di « piacere » attribuito dai soggetti ai rettangoli. La sua estetica « dal basso » è fallita, sembra, a causa della mancanza di affinità tra un rettangolo e un'opera d'arte. Bisognerebbe rendere ancora giustizia — secondo me — al suo Vorschule der Aesthetik.
Più recentemente si è posta la questione della variabile indipendente nell'estetica così da evocare la complessità di un'opera d'arte. La nozione di complessità, che figurava già nell'estetica speculativa più o meno implicitamente, è stata introdotta dal matematico Birkhoff, che ha pensato di poter formulare la legge della bellezza in termini matematici con il quoziente dell'ordine e della complessità. Questa proposta non e stata presa in considerazione dai teorici, sebbene Birkhoff abbia fatto alcuni esperimenti i cui risultati confermavano abbastanza la sua formula. Più recentemente, Eysenck (1957) ha ripreso e modificato la formula di Birkhoff capovolgendone i termini. Le ricerche sulla complessità in estetica hanno avuto un grande sviluppo con l'avvento della teoria dell’informazione, di cui una delle parole-chiavi è la complessità. Bense (1954) ha modificato la formula di Birkhoff seguendo lavori del Moles (1958) e di Meyer-Eppler, sostituendo la massa «M» della bellezza di Birkhoff con la « I » dell'informazione estetica.
E’ all'incirca nello stesso periodo che Berlyne (1960) ha postulato una correlazione tra l'attenzione e la complessità, studiando il comportamento di osservazione. Egli ha dimostrato sperimentalmente che una scarsa complessità è altrettanto dannosa all'attenzione quanto una abbondante.
Contemporaneamente, basandosi su alcune considerazioni fisiologiche, ha tentato di mostrare il rapporto tra la complessità e l'estetica. Oggi possiamo dire con una quasi certezza che la complessità — in una forma o in un'altra — giuoca un ruolo importante nell'estetica.
Bisogna tuttavia rivolgere la nostra attenzione su alcune difficoltà.
1. La complessità è evidentemente una nozione soggettiva. Una cosa è complessa per alcuni, e semplice per altri. Essa varia anche per uno stesso individuo in seguito a certi processi mentali. Noi definiamo con facilità complessa una cosa che diventa poi semplice una volta che conosciamo di più la sua struttura. Non si può parlare di complessità se non in rapporto a un determinato recettore.
2. Anche in rapporto a un recettore (o a un gruppo di recettori) è difficile misurare la complessità fisica. Birkhoff ha proposto come misura il numero degli angoli dei poligoni. Più recentemente, Attneave (1957), ha dedicato una serie di studi alla costruzione di forme la cui complessità è definita oggettivamente (physical determinants of the judged complexity of shapes). Il suo procedimento, molto ingegnoso, soddisfaceva tutte le esigenze della scienza moderna. Egli ha disegnato dei punti, disposti a caso, di cui alcuni, presi anch'essi a caso, sono uniti da una retta o da una sezione di arco, scelti sempre a caso. Le determinanti fisiche di tali forme sono: la grandezza della matrice associata al grafico, il numero degli angoli, il numero delle curve, il grado degli angoli, il grado degli angoli adiacenti, il numero degli angoli in posizione simmetrica, ecc.
E’ chiaro come una tale serie di misure sia difficile da usare. Inoltre, i soggetti non hanno percepito tutte le variabili di Attneave. Il 90% delle varianti sono espresse dal numero degli angoli indipendenti e dalla simmetria. Per quello che riguarda la mia esperienza soggettiva, le forme di Attneave mi sono sembrate più complesse quando non conoscevo ancora il metodo con cui erano state elaborate, benché nella creazione di queste forme il ruolo principale l'avesse giocato il caso. Tutto era imprevedibile data la voluta impossibilità di prevedere la forma rifacendosi a una legge di costruzione.
Ma, anche ammettendo che si possa misurare la complessità fisica, anche ammettendo che i soggetti siano capaci di disporla in scala, la complessità non è che una delle variabili importanti che fanno scattare la reazione estetica. Inoltre esistono altre variabili forse più importanti. Una estetica scientifica non può limitarsi solamente all'esame della complessità, scelto tra i numerosi attributi formali di un'opera d'arte.
Uno degli elementi formali più importanti per lo più citato, di un'opera d'arte è la sua composizione che si confonde fenomenologicamente, come peraltro abbiamo dimostrato (Molnar, 1965), con l'unità dell'opera.
Secondo noi sarebbe logico che lo studio sperimentale dell'opera d'arte cominciasse dalla percezione dell'unità, essendo questa definita come un insieme di elementi percettivi aventi una certa coerenza interna. Questa coerenza potrebbe essere espressa matematicamente con l'autocorrelazione, come aveva già fatto Wiener. Ma in questa formula non si tiene conto della variabile recettore. In effetti, non è accertato che una forma avente un certo grado di auto-correlazione calcolata in base ad elementi arbitrari, sia identificata singolarmente da recettori umani.
Tuttavia, è certo che la capacità di percepire l'unita è una proprietà dinamica, sia essa appresa o innata. Questa capacità si ritrova anche in animali di specie inferiore della gerarchia filogenetica.
Per prima cosa allora bisogna cercare sperimentalmente quali sono gli attributi fisici di uno stimolo, che permettono la percezione come unità.
Questo problema è stato studiato dalla psicologia della gestalt nel capitolo « unum et duo ». Se si proietta una macchia luminosa su uno schermo, questa macchia, questa forma si presenta come «una» macchia. Se si traccia una linea chiusa, la parte delineata dalla linea si presenta generalmente come « una ».

Se si guarda la forma B della figura 1, la si percepisce come un rettangolo. Non è la stessa cosa per la forma A che, al contrario, viene percepita come due losanghe giustapposte. La spiegazione di questi fenomeni che ne da la teoria delle gestalt è ben nota. Ora, la maggior parte dei psicologi contemporanei rifiutano le basi teoriche del gestaltisti, senza negare tuttavia i fenomeni da loro scoperti. Ma non è nostra intenzione addentrarci qui adesso in discussioni teoriche. Si noti tuttavia che le qualità « unum » e « duo » della figura non sono molto marcate. La forma A si distingue abbastanza facilmente come « una », e la forma B come « due ». Se si sostituisce la linea chiusa di contorno A con una forma costruita da tanti puntini (vedere A') la qualità « duo » di questa forma si trova notevolmente indebolita, per non dire completamente scomparsa. Per quanto riguarda la forma B, impiegando lo stesso procedimento, si aumenta la differenza di densità dei due lati della forma, ottenendo facilmente la qualità « duo » (vedere B').
Durante una serie di esperimenti sul problema dell'unità abbiamo presentato una serie di tavole preparate nella maniera seguente: su un fondo nero si tracciano a matita 1260 quadrati (praticamente invisibili). L'insieme di quadrati è stato diviso in tre parti uguali. In tal modo abbiamo determinato tre sotto-insiemi, teoricamente invisibili. Un certo numero di questi quadratini presi a caso racchiudevano un cerchio bianco di un centimetro di diametro. La densità dei cerchietti era stabilita arbitrariamente.
Abbiamo scelto 3 serie di densità di base: A, B e C. La densità della serie A è stata del 10% all'inizio ed è aumentata regolarmente nella serie B e C in ragione di 1,5. Ogni serie comportava 5 scale: nella scala 0 le 3 zone, i 3 sotto-insiemi erano della stessa densità, cioè si presentavano uniformi. Nelle scale seguenti si è aumentata la densità delle zone laterali esponenzialmente in ragione di 1,2, mentre il rettangolo di mezzo rimaneva invariabile.
Abbiamo proceduto a cinque presentazioni di ciascuna di queste tavole in un ordine aleatorio. I nostri soggetti (pittori) erano 12. Abbiamo effettuato due serie di presentazioni; una da vicino, l’altra da lontano. I soggetti dovevano limitarsi a dire se vedevano una o più forme.
I risultati globali di questo esperimento sono riportati dalla Tavola I. Si può constatare che sulla scala 1, quando la differenza di densità tra le tre zone è alquanto bassa, tutti i soggetti, o quasi, hanno visto una sola forma. Man mano che la differenza di densità tra le zone aumentava, l'unità della forma scompariva, e veniva sostituita da risposte di pluralità.
Nelle tre righe A, B e C, si possono trovare le tre differenti densità di base. Queste tre righe non differiscono in modo significativo e se ne possono raggruppare i risultati. I totali si trovano in basso, nell'ultima riga.


Si possono ricavare da questi esperimenti alcune indicazioni.
1) In questo campo la legge di Fechner-Weber è valida almeno in prima approssimazione (fig. 2). Questa conclusione è abbastanza logica. In fondo, si trattava di stabilire in questi esperimenti un principio della percezione dell'unità o della dualità, o se si vuole, di definire il punto di partenza assoluto di densità da cui una superficie è percepita come « una ». >>>


2) Un'altra constatazione che si può fare dai risultati di questo esperimento è che gli stimoli visti da maggiore distanza perdono più rapidamente il loro carattere di unità: ci si accorge più prontamente che sono distinti in tre zone.
Nella riga 1 della Tavola II, che abbiamo chiamato « visione da lontano », abbiamo dato i totali delle tre serie di presentazioni. Si vede sulla Tavola che fin dalla prima scala si hanno maggiori risposte di «pluralità ». In tutte le scale si può ritrovare questa differenza largamente significativa rispetto alla visione da vicino.

Per spiegare questi fenomeni, si potrebbero avanzare diverse ipotesi. Ma il prendere in considerazione l'unita a questo livello, oltrepassa i limiti di un'estetica sperimentale. Ci limitiamo a constatare che si può costruire uno stimolo, una variabile indipendente con proprietà fisiche ben definite, misurabili, e associare a questa variabile un'altra, egualmente misurabile, ma dipendente. Questa variabile dipendente è, senza dubbio, una delle più importanti tra le proprietà formali di un'opera d'arte.
Abbiamo compiuto, nella stessa serie, un altro esperimento che ci permette di precisare il nostro pensiero (riportandoci direttamente alla nostra ipotesi principale).
Abbiamo proceduto a una serie di presentazioni degli stessi stimoli con una leggera modifica. Abbiamo sostituito alcuni circoletti bianchi (2 o 3) con altri colorati nelle regioni centrali delle due zone laterali. Abbiamo chiamato questa serie di presentazioni: presentazioni con rinforzo.
Nella Tavola III si trovano i risultati di questo esperimento. Abbiamo constatato che il fatto di presentare alcuni punti d'interesse laterali rafforza la segregazione dello stimolo. In queste condizioni le risposte di pluralità cominciano prima.
Si può supporre, e quasi affermare che la segregazione risulta rafforzata in conseguenza dell'esistenza di un punto di focalizzazione assoluta.

Vediamo ora il significato estetico dei nostri risultati sperimentali. Se si osserva un quadro come «L'amor sacro e l'amor profano» del Tiziano (fig. 3), lo si percepisce, senza dubbio, come « uno », come unità, poiché si tratta proprio di un quadro, incorniciato, appeso al muro; insomma, è un oggetto.



Prescindendo da questa unità oggettuale considerando unicamente l'interno della cornice, il quadro rischia di scindersi in due. Il legame tra le due donne non è molto marcato. Il pittore si era sforzato, e ciò è molto evidente, di unire i due personaggi rafforzando il particolare dell’orlo del pozzo, della natura morta, in poche parole, egli aveva cercato di creare un legame tra le due parti del quadro. Togliendo l'Amore, l'orlo, la natura morta ed altri elementi di legame, ci troveremmo di fronte a un quadro la cui debole unita consisterebbe esclusivamente nel fatto di rappresentare due donne. In queste condizioni si potrebbe tranquillamente tagliare il quadro in due.

Nella fig. 4 abbiamo soppresso gli elementi significativi del quadro. Ci troviamo di fronte a macchie emergenti da un fondo, che si potrebbe chiamare, in linguaggio moderno rumore di fondo. Per unificare queste due macchie secondo i risultati dei nostri esperimenti summenzionati, bisogna: sia aumentare la densità dei punti tra le due macchie, sia rafforzare alcuni elementi nella zona centrale, suscettibili di far convergere un maggiore interesse su questa zona.
Il primo metodo porterà a una diminuzione della complessità apparente con un immediato indebolimento dell'interesse (Berlyne).
Nella fig. 5 abbiamo scelto invece il secondo metodo. Si può effettivamente constatare, e dimostrare sperimentalmente, se necessario, che questa figura ha una unità maggiore della precedente.
Se è vera l'ipotesi secondo la quale, un punto determinato di un quadro, abbastanza forte da attirare l'attenzione per le sue qualità intrinseche o per la sua posizione topologica, diventa una delle forze unificatrici del quadro, allora si può formulare una seconda ipotesi. Si può supporre che l'unita dell'opera dipenda in gran parte dall'attività osservatrice del soggetto, ma questa attività dipende a sua volta dallo stimolo, cioè dall'opera. Si avrebbe dunque una osservazione predeterminata per ogni quadro. Il grado dell'unita dipenderebbe dalle disposizioni topografiche di alcuni punti. Ben inteso non si tratterebbe di una osservazione secondo un programma determinato in maniera assoluta, ma di un programma stocastico (prendendo questo termine nel senso di « diretto verso uno scopo »).
Le tappe di tale osservazione sono conosciute con queste sole probabilità. Una volta che l'attenzione sia fissata su un punto determinate, si tratterebbe di sapere quali sono le probabilità degli altri punti di diventare, a loro volta, il punto focale seguente.
L'osservazione si fisserà stabilmente in un lasso di tempo più o meno lungo indipendentemente dal punto di partenza dell'esplorazione. In queste condizioni si potrebbe esprimere il percorso dell'esplorazione con un grafico di transizione stocastica.
I matematici dicono che un tale grafico può essere sia riducibile, sia periodico, sia riducibile con stato transitorio, sia infine ergodico.
A tutte queste eventualità corrisponderebbe un tipo di quadro possibile, che nel suo insieme non avrebbe unità. Così, se si ha il grafico di un quadro costituito da due gruppi di punti connessi, ma senza connessione tra loro, o, a rigore, con una connessione possibile molto debole, cioè nel caso in cui il grafico sia periodico, ci troviamo di fronte a un quadro senza unità, che si divide in due.
In altri casi, evidentemente, potremmo esprimere il quadro mediante un grafico, in cui si determina una probabilità passando da un punto all'altro, e per tutta l'estensione del grafico, ovvero, per tutta la superficie del quadro.
La matrice di probabilità associata a questo grafico esprimerebbe allora il grado d'unità.
Questa ipotesi, per quanto allettante presenta delle difficoltà notevoli. In teoria, non ci sono ostacoli a disegnare il grafo d'un quadro associandovi la matrice corrispondente. Ma in pratica, allo stato attuale delle nostre conoscenze, ciò è difficilissimo. In realtà non possiamo disporre gerarchicamente i punti di richiamo di un quadro. Non sappiamo oggi quali siano le variabili che intervengono nel far scattare i riflessi di attuazione. Si possono stabilire alcune leggi relative ai colori, o delle forme semplici, ma appena si affrontano dei fenomeni più complessi in cui interferisce il comportamento individuale del soggetto, e difficile fissare delle probabilità.
La seconda difficoltà deriva dal fatto che la nostra ipotesi non consente di spiegare la percezione dell'unità, nel caso in cui una durata troppo breve della contemplazione, impedisca una esplorazione sufficiente. Questa percezione dell'unita immediata o quasi immediata esiste invece in maniera incontestabile.
Evidentemente si possono avanzare alcune ipotesi per spiegare questo fenomeno. In questo campo, tuttavia, bisognerebbe attendere di disporre di elementi concreti determinati sperimentalmente.

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Relazione dell'A agli Incontri di Verrucchio dedicati all'estetica sperimentale, in un volume edito da Cappelli nel gennaio 1969.