ROTTURA DEi LIMITI |
Dalla rivista n+1, n.4, Giugno 2001
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OGGI
Azienda e fabbrica - I termini "fabbrica" e "industria" possono essere utilizzati in modo relativamente neutro, l'uno a indicare il luogo della produzione, l'altro l'insieme di questi luoghi e le loro relazioni. Il termine "azienda", invece, che deriva il suo significato generico dal latino facienda = cose da fare, e viene riferito all'insieme dei beni e della forza-lavoro necessario alla produzione di altri beni e servizi, è diventato specifico del capitalismo e si estinguerà con la sua scomparsa. Azienda, ditta, impresa, usati spesso come sinonimi, presuppongono in genere un imprenditore, un capitalista; ma nel capitalismo moderno le questioni si fanno sfumate, dato che può esservi capitale senza che vi sia il capitalista (come nella Russia staliniana), o anche capitalista senza capitale previo (come negli appalti, nelle concessioni, nelle agenzie di lavoro, ecc.). Il Codice Civile italiano distingue nettamente l'azienda dall'impresa e definisce la prima con la seconda: azienda è il complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. La definizione implicherebbe che non vi è impresa senza imprenditore, con la conseguenza che nel caso di un'impresa pubblica bisognerebbe chiamare "imprenditore" il puro titolo di proprietà pubblica, oppure l'astratta collettività. D'altra parte si fa confusione spesso fra imprenditore e capo d'impresa. Le relative funzioni possono sì essere riassunte nella stessa persona, ma sono comunque distinte: è imprenditore chi assume la responsabilità dei rischi economici; è capo d'impresa chi la dirige tecnicamente, e può essere anche un funzionario stipendiato senza corresponsabilità. Che l’imprenditore non sia una figura indispensabile è comunque un dato di fatto. L'IRI, l'ente statale che per statuto sostituisce l'imprenditore venuto meno al suo dovere di produrre, dimostra non solo l'inutilità, ma anche la pericolosità sociale del capitalista, continuamente in bilico fra la tentazione monopolistica e il fallimento. D'altra parte l'azienda rilevata dall'Ente dimostra che con la proprietà – privata o sociale che sia – il capitalismo c'è comunque. Quindi, per ogni rivoluzionario la bestia nera non è il capitalista, personaggio antistorico e transeunte già ai tempi di Marx ed Engels: la bestia è l'azienda, questa "pompa di plusvalore", vero pilastro dell’attuale modo di produzione. E l'azienda potrà sparire da un momento all'altro senza che l'umanità abbia a rimpiangerla. Rimane la fabbrica; anzi, rotto il limite d'azienda, sparirà anch’essa come unità separata e rimarrà l'industria, in cui la fabbrica si sarà fusa come mero nodo del sistema. Tutto questo diventa più chiaro se riandiamo alla formazione storica del sistema d'industria. Il passaggio dal lavoro artigiano alla manifattura comporta la perdita del controllo dei mezzi di lavoro da parte del lavoratore. L'artigiano non solo possedeva i mezzi di produzione, ma li adoperava con pieno controllo, li impugnava o li metteva in moto seguendo una sequenza di operazioni che facevano parte della sua esistenza come produttore autonomo. L'operaio di fabbrica, invece, è assoggettato al comando e alla disciplina di un capitale che non gli appartiene e che non ha nulla a che fare con lui, ad un flusso produttivo che lo mette in relazione gerarchica con altri operai, a loro volta legati a sequenze programmate; quindi non solo le operazioni singole sono gerarchizzate, ma lo è anche il lavoro complessivo degli operai, che s'identifica con la somma, o meglio, con l'insieme indissolubile delle operazioni svolte da ognuno. Non è più un lavoratore singolo a compiere operazioni differenziate, ma sono i lavoratori che si differenziano compiendo ognuno un'operazione parziale, sempre la stessa. Marx nota che in questo processo viene suddiviso il lavoro generale in tanti lavori parziali, ma soprattutto che l'operaio stesso viene trasformato in operaio parziale, parte di un tutto che può essere inteso come operaio globale: "L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista". Sviluppo dell'industria L'uso capitalistico del macchinario si configura così come completamente diverso da quello precedente. Se nella manifattura la forza-lavoro è ancora la componente principale, anche se asservita ad una sequenza parcellizzata in cui viene applicata al macchinario, nella grande industria il salto è ancora più rivoluzionario per il potenziamento della forza produttiva sociale: la macchina a vapore comporta l'uso generalizzato di macchine operatrici, ed esse ben presto si configurano come sistemi di macchine, come automi generali in cui la forza-lavoro degli operai è applicata come è applicata l'energia derivante dalle caldaie. Nello sviluppo del capitalismo è quindi implicito lo sviluppo del macchinismo, vale a dire della preponderanza dei mezzi di produzione rispetto al lavoro vivo degli operai. Il sistema di macchine diventa indipendente dal dispendio di energia umana e si muove grazie a una forza motrice unica e centralizzata, anche se ancora a livello locale; l'uomo da parte attiva diventa guardiano passivo del processo. In seguito l'elettricità permetterà al sistema di macchine di emanciparsi dalla dipendenza locale di energia e di distribuirsi ovunque possa giungere una rete elettrica. Mentre nella manifattura il processo produttivo, decretando la scomparsa dell'artigiano, si era adattato a un operaio senza qualità specifiche, padrone non di un'abilità particolare ma di sola forza-lavoro generica, nell'industria l'operaio si adatta al processo e viene assorbito dalla macchina. Smith, Say, Sismondi, Babbage (oggi più conosciuto come l'anticipatore dei calcolatori moderni) e specialmente Ure (cui Marx si riferisce spesso nei suoi scritti) avevano perfettamente registrato il fenomeno della spersonalizzazione del lavoro e della grande importanza della sua parcellizzazione. E' questo fatto rivoluzionario che rende così adatto l'operaio parziale al grande automa generalizzato. Marx ne trarrà le conclusioni: la trasformazione del lavoratore manifatturiero in operaio parziale d'industria, e di quest'ultimo in appendice consapevole di una macchina parziale, provoca un tale cambiamento qualitativo che soltanto il sistema complesso cui la grande industria dà origine può essere considerato vero capitalismo, quindi vera base fondamentale per la società futura. Naturalmente Marx considerava in modo dialettico l’industria, la quale, pur rappresentando – con gli operai che ne fanno parte – la chiave per far saltare questa società, è nondimeno il luogo dove la contraddizione tra lavoro sociale e appropriazione privata rende possibile la produzione generalizzata di plusvalore, l'essenza dello sfruttamento; vale a dire che è, dialetticamente, anche il luogo dove si manifesta la forza del capitalismo contro la classe operaia, dove l'azienda si innalza come barriera contro il cambiamento sociale e l'erompere della società nuova. L'azienda capitalistica, tendente per sua natura alla concentrazione del capitale in poche mani e dei mezzi di produzione in poche aree del mondo, è rivoluzionaria all'inizio della sua ascesa storica, ma diventa un impedimento grave all'ulteriore sviluppo non appena si impadronisce completamente della società. Essa distrugge gli antichi legami sociali, e ne crea di nuovi soltanto attraverso la misura del valore espressa in denaro; quindi indebolisce ferocemente le relazioni fra gli uomini pur ammassandoli a decine di milioni nelle metropoli, ed è da questa specie di isolamento dell'individuo in collettività massificate che sorge il vero spirito aziendale. Non a caso le industrie più moderne e ramificate tendono a crearsi una clientela che non sia soltanto una somma di individuali consumatori fedeli al momento dell'acquisto, ma sia legata da un rapporto continuo con l'azienda, con il suo stile, con i suoi servizi, quasi a rappresentare una comunità ideologica. Generalizzazione dell'azienda è però nello stesso tempo generalizzazione dell'industria e, dialetticamente, noi vediamo in quest'ultima la necessità di nuove relazioni, un processo che evidenzia in anticipo, insomma, la catastrofe dell'intero modo di produzione. Con la concentrazione delle fabbriche nei dintorni delle metropoli, le aree industriali divorano in un primo tempo il terreno agricolo circostante, poi modificano lo stesso tessuto urbano inserendosi nel territorio con le aree residenziali satelliti, e producendo nei centri cittadini, come complemento, una pletora di uffici che sfrattano sempre più gli abitanti sospingendoli verso le periferie. L'insieme tentacolare metropolitano diventa così un attrattore di ulteriore forza-lavoro e di ulteriore capitale, finché l'avvento di nuove produzioni e l'attività dello Stato come capitalista collettivo non contrastano l'eccessivo ammassamento di uomini, macchine e capitali. Allora questi vengono dirottati verso aree specifiche o verso poli di sviluppo del tutto nuovi. Niente di nuovo rispetto all'epoca di Marx, anche se oggi questi poli prendono il nome moderno di "distretti industriali" e sono ovviamente diffusi anche in paesi periferici. Contrariamente, quindi, alle previsioni dei citati classici borghesi, gli effetti della divisione del lavoro, industriale e sociale (ricordiamo che Marx considera la prima rivoluzionaria e la seconda conservatrice), lungi dal comportare la massima soddisfazione dei bisogni dei cittadini, comporta invece concorrenza, competizione senza esclusione di colpi, miseria relativa crescente, cioè aumento enorme del divario fra le classi dei senza-riserve e quelle che beneficiano della ripartizione sociale del plusvalore (compresa l'aristocrazia operaia che usufruisce ancora di benefici sociali). Saint-Simon e soprattutto Owen si avvidero che l'industria provocava disastri nella società dell'epoca; ma proprio lo sfrenato sfruttamento, l'insicurezza sociale, i fenomeni di degenerazione umana legati all'emarginazione da mancanza di lavoro, suggerirono che nell'industria poteva essere trovato il potenziale per risolvere la "questione sociale". Se l'organizzazione dell'industria era la causa della profonda modifica in negativo della società, l'industria stessa avrebbe potuto essere lo strumento per una modifica in positivo. Un utilizzo razionale e cosciente delle infinite risorse messe a disposizione dallo sviluppo della forza produttiva e dalla scienza avrebbe permesso di governare il sistema senza controllo e portarlo ad una nuova razionalità, all'armonia sociale (New Harmony si chiamò la comunità da lui fondata in America). Ciò doveva essere raggiunto attraverso un cambiamento del diritto di proprietà e un rivoluzionamento nell'organizzazione delle aziende. Importanza delle anticipazioni pratiche del comunismo Owen rappresentava l'anello di congiunzione fra le antiche utopie e la scienza sociale nata sulla base della moderna industria. La sua concezione del cambiamento non era più un'utopia e non poteva ancora essere una scienza, ma intanto si basava su fatti reali e non su pure congetture o schemi mentali. Lo sviluppo tecnologico e scientifico avrebbe già permesso una razionalizzazione dei cicli di lavoro, un rendimento maggiore del "sistema" e quindi la riduzione della giornata lavorativa. Di conseguenza il tempo di vita liberato avrebbe permesso agli operai e ai loro figli di dedicare più ore a sé stessi. L'istruzione sarebbe stato un bene per tutti, non tanto via per soddisfare aneliti "culturali" in sé quanto per sviluppare appieno la cooperazione, la capacità di intervenire nella vita produttiva e nella progettazione delle strutture utili alla comunità. Quest'ultima, come del resto in quasi tutte le utopie precedenti, doveva vivere in un tessuto urbano che fosse la negazione della miseria e della degenerazione rappresentate dagli slum industriali dell'epoca, in un ambiente progettato e non casuale. Per la prima volta in Owen troviamo un tentativo di analisi del rapporto tra fabbrica e società basato sui possibili materiali sviluppi dell'esistente. La società viene ridisegnata in rapporto a ciò che potrebbe realmente essere la fabbrica, il tessuto urbano e il territorio circostante perdono le caratteristiche negative dovute alla divisione sociale del lavoro e cadono le barriere tra l'interno e l'esterno della fabbrica, tra l'operaio e il cittadino. Naturalmente Owen utilizza ancora il linguaggio ingenuo dell'utopia, ma mette bene in chiaro che il nocciolo centrale della sua concezione è la riorganizzazione sociale sulla base del piano di produzione della fabbrica, che esce così dai suoi limiti angusti. Come sottolinea Engels, in Owen è già descritto non solo il "comunismo più deciso, ma anche l'edificio più completo per la comunità comunista dell'avvenire, con lo schema, il piano e la veduta complessiva". Il piano di produzione diventa il fulcro su cui l'intera società fa leva per l'ulteriore sviluppo delle forze produttive, a beneficio dell'uomo e non del mercato. Quel che più importa è che Owen non scrive semplicemente un libro, ma tenta per ben due volte di realizzare nella pratica la nuova fabbrica-società con migliaia di operai e le loro famiglie. Naturalmente dovette fermarsi a questa – diciamo – utopia di transizione. Il suo progetto comportava la lungimirante estensione della razionalità scientifica raggiunta nella produzione industriale all'intera società, ma la realizzazione non poteva ancora comportare l'effettiva rottura delle mura aziendali per fare della fabbrica uno dei nodi dell'unica rete d'industria. Marx invece opera questa rottura e, superando materialisticamente ogni riferimento morale all' "ingiustizia" che il vecchio socialismo presumeva insita nel lavoro salariato, evidenzia il concetto di "automa universale", comprendente l'intera rete produttiva. Questa diventa così parte della società capitalistica compenetrandone tutti gli aspetti, estende la divisione positiva del lavoro (cioè l'utile unione delle peculiarità individuali verso un unico obiettivo), tipica del processo produttivo universale, e la mette in contraddizione con la divisione del lavoro negativa (cioè la separatezza delle peculiarità sociali), tipica invece del modo di produzione di una società divisa in classi. Se per Ure la fabbrica è ormai un "autocrate" che, attraverso la potenza della macchina a vapore e delle strutture che ne trasmettono l'energia in quanto membra d'acciaio, comanda razionalmente e inesorabilmente una miriade di operai-sudditi, per Marx ciò è vero solo nel sistema capitalistico. Con il capitalismo la fabbrica è diventata ciò che Ure fotografa in un'analisi immediata del processo produttivo globale, ma in una visione dinamica, cioè storico-materialistica, essa diventa l'embrione di un organismo sociale molto più evoluto, in grado di sovvertire l'intera società, proprio tramite gli operai-sudditi, non appena essi prendano coscienza collettiva della loro condizione (di qui anche la concezione del partito come organo di specie, già espressa nel Manifesto). Non si può capire l'intero lunghissimo capitolo Macchine e grande industria del primo libro del Capitale se non ci si impadronisce del potente metodo di Marx, se non si concepisce ogni singola trasformazione come evento puntuale prodotto dal continuo accrescersi della forza produttiva sociale e non come fatto a sé (l'invenzione, la scoperta, l'uomo geniale). Il capitolo è preceduto, non a caso, da quello sulla contraddizione fra la divisione del lavoro di fabbrica e la divisione sociale, nel quale si mostra che il passaggio dalla manifattura all'industria moderna è già gravido di conseguenze premonitrici dell’ulteriore passaggio rivoluzionario; ed è seguito, in maniera più significativa ancora, dal capitolo sulla differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo, che si ottengono l’uno con lo sfruttamento estensivo della forza-lavoro, applicandola cioè per più tempo, l’altro con lo sfruttamento intensivo, aumentando la produzione nell'unità di tempo. La generalizzazione dello sfruttamento basato sull'innalzamento della produttività mette già a disposizione dell'uomo i mezzi per il potenziale superamento di tutte le società del bisogno; dimostra che è già iniziata nei fatti la liberazione dal "regno della necessità" ed è aperta la via all'avvento del "regno della libertà". Rovesciamenti dialettici. Nel terzo libro del Capitale Marx si era proposto di sviluppare una parte sulle cause antagoniste alla caduta del saggio di profitto in relazione al maturare del capitalismo, parte che invece ci è pervenuta solo in bozza. A dimostrazione che nel sistema generale alla base di tutto c'è la dimostrazione del materiale divenire del comunismo, queste controtendenze sono tutte basate sul rovesciamento operato dalla dinamica di un modo di produzione che, rispetto alle sue origini, tende già ad esprimere nei fatti la sua propria negazione. Esse sono importantissime per capire quale deve essere il lavoro attuale rispetto ai meccanismi tipici del capitalismo giunto alla sua fase suprema, quindi le riprendiamo brevemente: 1) sviluppo massimo della produzione di plusvalore relativo, causa prima della caduta del saggio, quindi ritorno alla produzione di quello assoluto – in combinazione – come causa contrastante la caduta del saggio; 2) diminuzione del valore del salario, che ritorna al di sotto di quello storicamente raggiunto, tema che Marx collega alla concorrenza e rimanda significativamente a un libro ancora da scrivere: concorrenza tra capitalisti, ma anche concorrenza fra proletari, oggi accentuata con il movimento mondiale della forza-lavoro a bassissimo prezzo relativo tra paesi diversi; 3) ribasso del valore nel capitale costante e negli elementi che compongono la forza-lavoro: agli alti profitti dei capitalisti sopravvissuti alla concorrenza si accompagna una stagnazione del valore delle singole merci prodotte, siano esse mezzi di produzione che mezzi di sussistenza, quindi si accompagna in definitiva un impoverimento relativo del proletariato in rapporto alla quantità di valore che produce; 4) sovrappopolazione relativa: nell’esercito industriale di riserva e nella popolazione in eccesso in relazione alle possibilità distributive del capitalismo, non cresce soltanto la miseria relativa, ma per molti anche quella assoluta, a causa della concorrenza sul salario; questo è argomento specificamente legato alla migrazione della forza-lavoro verso i mezzi di produzione concentrati, di cui qui stiamo trattando; 5) sviluppo del commercio estero: esso fu il fattore principale dell'accumulazione originaria, oggi è il prodotto dell'accumulazione avvenuta nei vecchi paesi capitalistici, attrattori di manodopera straniera; 6) aumento del capitale azionario, che è uno stimolo per l'accumulazione ma anche un mezzo potente per la ripartizione del plusvalore, quindi per la formazione di generico "reddito" a vantaggio delle classi improduttive. Il coerente sviluppo in successione dell'opera di Marx ci mostra, a proposito dei rovesciamenti storici, che con la maturazione del capitalismo non avviene soltanto il passaggio dal plusvalore assoluto a quello relativo e quindi alla combinazione di entrambi con l'utilizzo massiccio di quello assoluto per contrastare la caduta del saggio di profitto: già nel Primo Libro (capitolo XIV) Marx nota come la produzione di plusvalore relativo sia peculiare della fase capitalistica moderna quando si tratti di elevare la produttività, ma che, non appena tutto un settore sia balzato in questa fase, lì esiste soltanto produzione di plusvalore assoluto, perché la distinzione si può fare solo se e quando si manifestano entrambi e si possono confrontare. Se si stabilizza la produttività, per aumentare la massa di plusvalore deve aumentare la giornata lavorativa o il numero degli operai mentre il loro salario (in rapporto al plusvalore prodotto) si deve abbassare. A maggior ragione, aggiunge Marx, questo succederà quando tutti i più importanti settori saranno entrati nella sfera di sussunzione reale del lavoro al Capitale, quando cioè il modo di produzione dominante nei maggiori paesi sarà quello specificamente capitalistico. Come si vede ci sono sufficienti elementi per far riflettere sulla natura del capitale odierno e sulla sua propensione allo sfruttamento del lavoro semi-schiavistico che si sposta verso le metropoli o che è reperibile nei paesi arretrati: quando sia data una forza produttiva media del lavoro, non c'è altro modo che aumentare la durata della giornata lavorativa per far fronte alla concorrenza. Se ciò è impedito dalla legge o da qualsiasi diverso motivo, si ricorre al lavoro non regolamentato, che si trova in abbondanza libero sul mercato. Ecco perché in tutti i paesi industriali vi è un ricorso massiccio al lavoro nero, che produce dal 15 al 30% del prodotto interno lordo. Nella società d'oggi sono rovesciati in conservazione controrivoluzionaria tutti i fattori rivoluzionari che produssero l'ascesa del Capitale. Ma questa conservazione contiene elementi dialettici di superamento delle categorie presenti: esautorato il capitalista, la ripartizione del valore assurge a politica sociale specifica della controrivoluzione/rivoluzione moderna. Per conservare le sue prerogative sociali, il Capitale è costretto a rivoluzionare i rapporti di scambio di valore all'interno della società. Libera la forza-lavoro e ingabbia sé stesso per non morire: persino il super liberista George Bush è costretto a parlare di piani energetici, di rilancio dell'economia, di controllo della crisi mondiale. Questa dittatura del comunismo sugli uomini, questa marcia inesorabile verso il rovesciamento della prassi sociale, marcia che coinvolge qualunque forza utile al fine, è un dato materiale ed ha effetto su tutte le classi; il suo studio traccia la demarcazione fra chi si pone nell’ottica del lavoro di Marx e della Sinistra Comunista "italiana" e chi chiacchiera a vanvera sull'imperialismo come frutto politico del dominio di classe, sul "padronato", sullo sfruttamento inteso come categoria morale, sulla classe come banale somma di individui, sulla rivoluzione intesa come eroico attacco ai palazzi della borghesia, ecc. Scriveva Bordiga ad un compagno di partito nel novembre 1952: "Quali profondi equivoci in materia perfino tra i più sapienti e non opportunisti seguaci della nostra teoria. Prendi ad esempio le lunghe trattazioni che ho dovuto dedicare a mettere bene in linea la formula famosa nostra: 'abolire la proprietà privata'. Ho fatto vedere che Marx in tutte lettere disse che il capitalismo ha abolito la proprietà privata sia dei prodotti che dei mezzi di produzione". Già abolita la proprietà privata? Difficile da digerire, ma necessario, se vogliamo capirci qualcosa. Riconoscere la negazione della proprietà privata L'azienda singola che abbiamo analizzato fa ovviamente parte del sistema sviluppato d'industria. Ma se il sistema nel suo complesso è stato fondamento materiale per la transizione alla società futura e lo è ancora, l'azienda non lo è più da un pezzo. Essa fa ancora parte del sistema in quanto esiste un certo rapporto di classe, ma è un elemento distinto che si sovrappone come un parassita alla rete produttiva reale (un po' come la monarchia in Inghilterra!). Non ha rapporto alcuno con la serie di operazioni effettive che conducono al prodotto finale, qualunque esso sia. In confronto al sistema è come un'isola primitiva, com'è primitivo il rapporto di proprietà, ormai inutile rispetto al risultato generale della produzione. Ha l'illusione di essere il fattore della produzione, e naturalmente di immettere sul mercato le merci, ma in effetti maneggia valori di quantità discrete, di pezzi numerabili, mettendoli in magazzino in attesa di compratori individuali, come un vecchio mercante non ancora diventato capitalista. Contabilizza il venduto sotto segni di valore in partita doppia e compila un bilancio da cui risultano i profitti. La stessa azienda, intesa come uno degli elementi del sistema generale d'industria, contabilizza una parte specifica della massa di merci, mentre l'industria complessiva produce una massa indistinta di prodotti che può essere considerata come un flusso continuo di valori d'uso che vanno a soddisfare le esigenze della società. Il mercante che diventava produttore capitalista era in sintonia con la rivoluzione; il capitalista relegato al ruolo di mercante dallo stesso Capitale non è più niente, e con lui la sua azienda. Come si vede, lo stesso sistema considerato con occhi capitalistici e con occhi comunisti diventa due cose diverse. E' estremamente contraddittorio, contenendo nello stesso tempo due opposti incompatibili: da una parte il sistema delle merci singole, atono-mamente considerate e contabilizzate, dall'altra il sistema delle merci come prodotto del Capitale, inteso come massa di valore globale prodotto ex novo in un ciclo, il cosiddetto Prodotto Interno Lordo. Questo sistema, che oggi soddisfa i bisogni della società capitalistica con merci, potrà un domani soddisfare i bisogni della nuova società con prodotti utili all'uomo, libero dalla legge del valore. Nel VI Capitolo inedito del Capitale Marx affronta l'argomento dell'estrazione del plusvalore relativo dalla massa degli operai che caratterizza storicamente il capitalismo come sistema complesso e dinamico basato sui precisi fenomeni appena tratteggiati. Egli considera l'estrazione di plusvalore assoluto una controtendenza alla caduta del saggio di profitto, un indispensabile complemento a quella del plusvalore relativo. E dimostra che il capitalismo maturo si configura sempre più come produttore di merci in quanto massa unica, dove perdono importanza le merci in quanto oggetti discreti mentre grandeggiano i passaggi di valore in forma continua, come le ferrovie dell'esempio, come più tardi le reti elettriche e telefoniche, come oggi leasing, assicurazioni, affitti, servizi bancari, canoni, prestazioni di ogni genere, che non sono più oggetti da possedere e consumare in cicli separati ma servizi da pagare senza soluzione di continuità. L'estrazione di plusvalore relativo fa entrare il Capitale in contraddizione con sé stesso: la sua vocazione sarebbe quella di spingere tutta la società alla produzione di sempre più valore incamerando quote sempre più alte di plusvalore, ma il sistema altamente macchinizzato fa diminuire il valore unitario delle merci a causa delle enormi quantità prodotte, per cui al Capitale non resta che aumentarne ancora di più la massa nel tentativo di rifarsi sulla caduta del saggio almeno con una maggior massa di plusvalore, con cui assicurarsi la continuità del ciclo produttivo e anche la pace sociale, cioè il mantenimento della sempre crescente parte improduttiva della popolazione mondiale. Da questa estrema contraddizione quantitativistica, che ci mostra le potenzialità enormi della forza produttiva raggiunta dal lavoro umano e nello stesso tempo il loro spreco, derivano da un secolo e mezzo le nostre considerazioni sulla dinamica rivoluzionaria del capitalismo come base materiale per la società futura. Oggi l'apparenza immediata ci mostra una vittoria dell'azienda, con al vertice il nuovo tipo di capitalista, sia esso rampante come i giovani corsari della new technology o saggiamente ancorato ai "fondamentali" della vecchia industria, cioè la produzione e il profitto; in ogni caso, però, l’azienda attuale ha una struttura completamente diversa rispetto al passato. Dal nostro punto di vista essa è potenzialmente sempre meno azienda e sempre più fabbrica nella rete mondiale della produzione; essa ha smesso da tempo di concentrarsi nelle mani dei capitalisti, per subire invece un processo di centralizzazione per cui reti di industrie sono controllate da migliaia, e a volte milioni, di azionisti tramite istituti come i fondi d'investimento, dedicati alla raccolta centralizzata di capitali. Se nessun capitalista degno di questo nome possiede per intero la "sua" azienda, non esiste neppure centralizzazione capitalistica (holding) che possa essere sicura di controllare il "suo" capitale, essendo potenziale oggetto di scalata non amichevole in ogni momento. In molti casi è sufficiente che una parte minima del capitale complessivo si sposti per determinare un cambiamento nell'assetto proprietario. E' persino successo che delle aziende abbiano lanciato reciproche offensive d'acquisto e si siano trovate semplicemente con i rispettivi proprietari e amministratori scambiati. Questi frenetici movimenti di proprietà, che producono persino una letteratura di genere, non hanno nulla a che fare con l'attività industriale, non la cambiano, non la disturbano, non la incrementano. La caotica dinamica aziendale ha il suo fondamento in intricatissimi rapporti azionari, per cui ogni azienda di una certa importanza possiede frazioni di altre aziende e da esse è posseduta, in ramificazioni che non hanno confini definiti. Di conseguenza, in linea di principio non ha limiti neanche l'estensione della proprietà. Una cosiddetta multinazionale è la massima espressione della forma aziendale ma, nello stesso tempo, la dimostrazione dell'esistenza di una sottostante rete d'industria sottomessa a un piano a-nazionale volto alla massima razionalizzazione, per ora capitalistica, del lavoro sociale, a una scala mai vista. Migrazioni interne ed esterne della forza-lavoro Questo assetto generale, che dal punto di vista capitalistico appare come la vittoria assoluta dell'azienda, dal nostro punto di vista è un fenomeno del tutto diverso. La vittoria della moderna centralizzazione capitalistica orizzontale sulla vecchia concentrazione verticale è una delle massime contraddizioni dell'attuale modo di produzione. Con essa viene spinta al massimo grado la produzione del plusvalore relativo, che aumenta la potenza di pochi capitalisti a scapito di molti, dato che una crescente massa di produzione è dovuta a un sempre minor numero di centri produttivi. In tal modo l'espansione del controllo da parte di un'azienda avviene a spese di altre aziende, che chiudono o vengono fagocitate. Gruppi internazionali esportano la loro capacità produttiva in altri paesi, dando luogo a distretti industriali locali che nascono con tutte le caratteristiche più moderne, a cominciare dalla produttività (sinonimo di macchinismo, organizzazione scientifica del lavoro, estrazione di plusvalore relativo e… caduta del saggio di profitto). In ampie aree dei paesi industrializzati si restringe così, con l'aumento delle quantità prodotte da una singola fabbrica, la base produttiva industriale propriamente detta e, di conseguenza, si allargano le aree del mondo in cui si formano i serbatoi di manodopera a basso prezzo da utilizzare come controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Dato che tale caduta deriva dal sistema della produzione di plusvalore relativo, da nuova produttività, masse di centinaia di milioni di uomini sono sradicate dalle loro vecchie produzioni, dal loro ambiente, e sono attratte sia dalle nuove aree in cui si fissa il capitale in espansione sia, soprattutto, da quelle che hanno originato il fenomeno mondiale, le stesse in cui l'accumulazione giganteggia sulla base del capitale preesistente. L'ONU calcola che nel 2000 almeno un miliardo di persone, tra migranti e profughi, vivessero in condizioni precarie, sradicate dal luogo d'origine. Queste masse in movimento, che un tempo rappresentavano in buona parte migrazione proletaria, oggi non possono trovare occupazione a salario che in minima percentuale. Sono ormai sfrattate dal loro ambiente da un’industria troppo produttiva che le ha espropriate dei loro poco evoluti mezzi di produzione. Per pochi contadini o artigiani sradicati che trovano lavoro come operai a basso salario, migliaia non ne trovano, ma si muovono nella speranza di andare a far parte di coloro che si ripartiscono il plusvalore proveniente dai settori produttivi.
Il fenomeno della migrazione è quindi completamente legato a quello dell'alta produttività, che permette localmente un'alta disponibilità di plusvalore e di conseguenza la possibilità della sua distribuzione sociale. L'immigrazione verso i mezzi di produzione, essendo immigrazione proletaria solo in piccola parte è genericamente disponibile a tutto, è adatta a stimolare ogni tipo di traffico, ma soprattutto la concorrenza fra i salari e quindi il loro ribasso; essa si traduce in una occupazione precaria e marginale della sovrappopolazione relativa mondiale, che può vivere anche con briciole del reddito tipico delle aree industriali. Al di là dell’impressione che si può trarre dall’enfasi dei media, l'immigrazione è stata finora soprattutto un fenomeno interno ai vari paesi. Come dimostrano i dati dell'urbanizzazione che riportiamo in questa pagina in confronto a quelli riguardanti i movimenti migratori, le aree urbane sono cresciute di centinaia di milioni di persone, mentre il movimento di popolazione fra paesi è storicamente marginale; in Cina la popolazione urbana è cresciuta da 100 a più di 400 milioni nel periodo, in Brasile da 30 a 90 milioni, in India, che pure è all'ultimo posto, da 100 a 300 milioni. Soltanto negli ultimi anni le popolazioni hanno iniziato a muoversi massicciamente attraverso le frontiere e non c'è nessuna ragione, in un mondo internazionalizzato (o globalizzato, come si suol dire), per escludere il ripetersi a scala mondiale di ciò che è successo a scala nazionale. I paesi con alta concentrazione di capitale rappresenteranno sempre più degli attrattori di masse senza nulla da perdere e, nonostante le inevitabili misure che i governi dovranno prendere, saranno costretti a fare i conti con una forza difficilissima da arginare. Nessun muro d'acciaio, nessun esercito di vigilantes ha potuto fermare l'ingresso negli Stati Uniti, il paese poliziescamente più attrezzato del mondo, di milioni di immigrati dal Centro e Sudamerica.
Il movimento internazionale è senz'altro meno vistoso di quello interno, ma sta incrementandosi a causa dell'interna-zionalizzazione dei mercati. Contrariamente a quanto si pensa delle meraviglie del mercato globalizzato, oggi si muovono molto di più gli uomini che non le merci. Se in rapporto al Prodotto Mondiale Lordo il valore internazionale delle merci scambiate è al livello del 1913, il numero degli emigranti è invece cresciuto notevolmente, seguendo un incremento storico inarrestabile. Ci vollero più di due secoli, dal XVII al XIX, per portare nelle Americhe 15 milioni di schiavi, ma negli 80 anni successivi alla loro liberazione negli Stati Uniti (1865), 90 milioni di lavoratori passarono l'oceano con contratti capestro, obbligati al lavoro coatto per pagare il viaggio, oppure senza contratto alcuno, confidando di trovare lavoro all'arrivo. Senza contare gli emigranti che presero la via dell'Australia, della Nuova Zelanda, del Sud Africa e quelli che passarono le frontiere all'interno dell'Europa. Un differenziale di salario c'è sempre Il massimo d'immigrazione negli Stati Uniti si ebbe negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, con quasi un milione di arrivi all'anno (1,2 milioni nel 1915). Il massimo negli anni recenti è dello stesso ordine di grandezza: 996.000 immigrati nel 1996. La sola Germania, in Europa, ha attratto 4 milioni di immigrati dall'Est dalla caduta del Muro, nel 1989, al 1994. Dopo la disgregazione dell'URSS, 9 milioni di russi sono ritornati in Russia dalle repubbliche ex sovietiche o emigrati in Occidente. Tra il 1975 e il 1990, il numero di lavoratori immigrati nei sette Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, ecc.) salì da 1,1 milioni a 5,2 milioni, il 68% dell'intera forza-lavoro dell'area. I sette paesi asiatici più industrializzati hanno attirato dall'estero 6,5 milioni di lavoratori: in Giappone, nonostante la crisi e la disoccupazione, nel 1995 rimanevano ancora 1,36 milioni di lavoratori stranieri con contratti a breve termine; Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea, in barba a misure anti-immigrazione severissime, hanno un alto numero di lavoratori immigrati (specie clandestini) provenienti dai paesi circostanti; la Malaysia importa lavoratori specializzati dall'India e dalle Filippine ed esporta quelli generici nel resto dell'Asia; lo stesso vale per la Tahilandia, che prima della crisi del 1997 aveva 600.000 immigrati qualificati e 370.000 emigrati generici. Tra l’altro, il 70% degli immigrati dallo Sri Lanka, il 65% dall'Indonesia e il 55% dalla Thailandia sono donne. Per l'Africa non vi sono statistiche, ma le stime disponibili indicano da 3 a 8 milioni i lavoratori che hanno lasciato il loro paese d'origine, tra cui centinaia di migliaia di donne e bambini venduti dalle famiglie. Questa necessariamente breve sfilza di numeri porta ad una somma che dimostra come anche il movimento mondiale della forza-lavoro segua, se pure a distanza, l'andamento di quello interno. Oggi nel mondo vi sono 120 milioni di persone, comprese le loro famiglie, che lavorano all'estero, mentre nel 1965 ve n'erano 65 milioni (da queste cifre sono esclusi i clandestini). E' ovvio che il fenomeno si accentuerà nel futuro sulla base dei differenziali di salario. Uno studio a campione sui tre milioni di immigrati clandestini messicani che lavorano negli Stati Uniti ha rilevato che il loro salario medio in patria era 5 dollari al giorno, mentre pur da illegali sottopagati guadagnano in USA 46 dollari. Ciò spiega per esempio perché negli Stati Uniti il 73% degli addetti all'agricoltura estensiva sia di origine straniera. Un alto differenziale sul salario non scaturisce soltanto nel confronto fra i paesi sottosviluppati e i maggiori paesi capitalistici: un lavoratore indonesiano, tra i peggio pagati del mondo, guadagnando mediamente in patria 0,28 dollari al giorno, troverà già allettante l'emigrazione in Malaysia, dove verrà pagato mediamente 2 dollari. I capitalisti, anche se nella media mondiale il "costo del lavoro" incide solo per il 20% sul prezzo finale delle merci, non sono per nulla insensibili a differenziali altissimi: un lavoratore "costa" in media 2,5 dollari al giorno in India e Cina, 4,6 in Thailandia, 6 in Russia, 17 in Ungheria, 21 in Polonia, 138 in Gran Bretagna, 144 in Australia, 160 in Italia e Canada, 172 negli Stati Uniti, 194 in Francia, 236 in Giappone e 319 in Germania. Analizzando i dati di 152 paesi, praticamente tutti quelli di un certo peso, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha registrato movimenti significativi di manodopera da 29 di essi verso 39 nel 1970, e da 55 verso 67 nel 1990. Ma, mentre nel 1970 soltanto 4 paesi erano contemporaneamente importatori ed esportatori di manodopera, nel 1990 erano diventati 15. Il fenomeno del movimento internazionale della forza-lavoro differenziata, quindi, interessa un sempre più alto numero di paesi, dato che li investe a cascata, da quelli più poveri a quelli più sviluppati, passando attraverso tutte le situazioni intermedie. Per esempio, 200.000 lavoratori generici Boliviani, Paraguayani e Peruviani vivono attualmente clandestini in Argentina, mentre quest'ultima esporta manodopera qualificata nei paesi vicini. Naturalmente, essendo la forza-lavoro una merce liberamente circolante sul mercato interno ma ancora poco liberamente su quello estero, l'attività di farla arrivare a destinazione diventa ovunque molto lucrativa, come in tutti i casi di "contrabbando". Tanto più che l'immigrante clandestino paga in anticipo, quindi è merce "a perdere" senza troppi scrupoli: 200 clandestini muoiono in media ogni anno di sete solo nel tentativo di attraversare i deserti di frontiera tra Messico e Stati Uniti e altre migliaia muoiono in tutto il mondo. Dal 1993 ad oggi la quota di clandestini che giungono in Europa è salita dal 15 al 30% sul totale degli immigrati. Le organizzazioni che offrono l'espatrio utilizzano mezzi a volte rozzi a volte sofisticati, che possono variare enormemente di prezzo: un trasporto su strada fra paesi europei o su nave dal Marocco all'Europa costa circa 500 dollari a persona, ma la sistemazione "legale" di un viaggio dalla Cina agli Stati Uniti può costare anche 30.000 dollari. Un trasporto di 500 clandestini dalle coste orientali del Mediterraneo all'Italia vale la perdita di una vecchia nave di medio tonnellaggio sequestrata. Questo traffico, che non ha nulla da invidiare a quello schiavistico, produce complessivamente, a seconda delle stime, un fatturato da 5 a 7 miliardi di dollari all'anno. E segue perfettamente i dettami della globalizzazione: il maggior centro mondiale di produzione e distribuzione di passaporti falsi per immigrati clandestini è a Bangkok, dove l'industria dei documenti di qualunque nazionalità rende 2.000 dollari al pezzo, visti compresi. > |
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DOMANI - Fino a quando esisterà il capitalismo, i movimenti incontrollati di popolazioni si estenderanno sempre più, seguendo il miraggio di un reddito che permetta un'esistenza meno miserabile, cioè la partecipazione al consumo generale dei paesi industrializzati. Un'inversione di tendenza potrebbe solo avvenire con lo spostamento della fonte del reddito e quindi della possibilità di consumo nelle aree che vengono abbandonate. Se ciò non è capitalisticamente possibile, lo sarà invece non appena la nuova società incomincerà ad agire in termini non capitalistici. Allora, rotti i limiti d'azienda, non saranno più gli uomini ad andare verso di essa, ma saranno i mezzi di lavoro ad andare verso gli uomini, finché sarà stabilita una rete produttiva armonica e non avrà più neppure senso parlare di migrazioni che coinvolgono lavoro e mezzi di lavoro.
Per ora, poiché la crescita del reddito pro-capite mondiale sopravanza a malapena quella della popolazione, è ovvio che il ricordato miliardo di sradicati si trasforma in una pressione sociale che nessun muro di Berlino o del Rio Grande potrà arginare. Si sono invertite le parti fra i costruttori di muri: non è passato troppo tempo da quando si è abbattuto il primo e già se ne innalzano altri più possenti (la barriera USA-Messico è lunga 3.500 Km). E' vero che molta parte del reddito ricavato dagli immigrati torna al luogo d'origine per sostenere le famiglie o per accumularsi in vista di attività autonome, ma, nel mondo del Capitale globale, ciò non va affatto ascritto alla voce "investimento": questa mera ripartizione di valore rappresenta piuttosto uno degli elementi che rafforza la tendenza al giganteggiare della sovrappopolazione relativa che il lavoro sociale riesce a mantenere. Il passaggio dalla produzione antica alla manifattura e poi all'industria macchinizzata e il processo storico verso i livelli superiori del capitalismo, ci hanno dimostrato che tale processo è irreversibile. Premesso questo, si capisce che gli odierni movimenti di uomini e di valore non sono in nessun modo assimilabili a quelli che videro le precedenti fasi di accumulazione e i relativi rapporti fra le classi (rapporti che in definitiva dettano la – o meglio, dittano sulla – tattica rivoluzionaria corrispondente ad ogni fase geo-storica). Il vecchio imperialismo, quello che aveva bisogno di installarsi sui territori conquistati con colonie e protettorati, è scomparso, e quello nuovo gode di una globalizzazione del Capitale che gli permette di raccogliere i frutti del plusvalore assoluto senza promuovere viceré e inviare cannoniere sotto costa. Tutto ciò conferma appieno l'invarianza dell'analisi marxista sul corso del capitalismo, la quale permettendo di conoscere la dinamica dei processi dovrebbe anche impedire le enormi fesserie che circolano sulle varie "questioni", sindacale, nazionale, agraria, e via dibattendo come in un extraparlamento. L'invarianza non è affatto l'ingessamento della storia, l'annichilimento della differenza. Per la Sinistra Comunista ribattere chiodi "sul filo del tempo" significava soprattutto troncare per sempre con tutti coloro che ragionavano ancora mediante categorie delle vecchie rivoluzioni (l'ultima delle quali, è bene ricordarlo, fu quella borghese, dato che l'Ottobre comunista fu sconfitto). La nuova rivoluzione, la nostra, avrà soltanto barriere da abbattere, briglie da togliere, affinché la forza produttiva sociale possa correre intorno al pianeta senza aziende e senza migrazioni di forza-lavoro, dove l'unico e ultimo movimento migratorio umano sarà quello dalle galere aziendali all'aperto sistema produttivo diffuso. Limite d'azienda, grandiosità d'industria Abbiamo visto che occorre utilizzare in modo differenziato i termini "fabbrica" (luogo della produzione), "industria" (l'insieme dei luoghi di produzione che costituisce un sistema) e "azienda" (il sottoinsieme dell'industria definito dalla proprietà). L'irreversibile dinamica ha portato all'attuale rete produttiva mondiale fatta di aziende la cui proprietà è sempre più sfumata e la cui indipendenza è ormai un ricordo del passato. Non solo l'azienda, ma persino lo Stato, come abbiamo visto spesso nei nostri articoli, perde la sua indipendenza di fronte al Capitale mondiale, anonimo, impersonale, una massa immensa di valore (lavoro passato, morto) alla ricerca incessante di ulteriore valorizzazione, in grado di piegare le massime potenze capitalistiche alle sue necessità. Come ricorda Lenin contro Kautsky, l'imperialismo non è una "politica" degli Stati, ma una materiale condizione economica che produce effetti politici, coinvolgendo gli Stati stessi. Uno dei presupposti di questa marcia del Capitale verso la sua più alta espressione (l'imperialismo come fase "suprema" del capitalismo) fu la liberazione della forza-lavoro, la sua trasformazione in merce, la sua immissione nel ciclo produttivo come unico elemento della valorizzazione, ma anche come energia indifferenziata che, diventata valore aggiunto nella merce finale, non può essere ricomposta e non permette di risalire ad ogni singolo operaio parziale. Solo l'energia complessiva dissipata (cioè in termini fisici trasformata in valore) dall'operaio globale, guidato dal piano razionale di produzione, è rintracciabile alla fine del processo produttivo globale. Allo stesso modo ogni singola fabbrica, per quanto grande, è stata integrata dal Capitale nella sua rete industriale, fino a confonderla nell'intero sistema. Al culmine del percorso di questo modo di produzione, all'operaio parziale è finita per corrispondere la fabbrica parziale, e l'insieme di queste rappresenta la fabbrica globale. E' questo insieme che produce ex novo, ad ogni ciclo, la massa di valore indifferenziato che serve al rinnovarsi del Capitale. Ma, se possiamo vedere all'opera ogni giorno la fabbrica globale nel flusso incessante dell'energia, delle materie prime e dei semilavorati che si muovono lungo le nervature delle comunicazioni via terra, aria, mare e cavo, l'azienda non le corrisponde affatto, nemmeno in una singola sfera di produzione, nemmeno come eccezione che conferma la regola. L'azienda è un elemento formale, una sovrastruttura; dal punto di vista del materiale processo produttivo non esiste. Nel pigro immaginario collettivo, compreso quello di molti presunti rivoluzionari, esiste ancora la Fiat, "Fabbrica Italiana di Automobili di Torino", ma neppure al tempo dell'Imperialismo il mondo industriale era più fatto di aziende-fabbrica isolate e Lenin lo registra in modo da tappare la bocca a tutti gli anti-dialettici di allora e di oggi. La fabbrica globale ha felicemente distrutto l'azienda lasciandola sopravvivere soltanto come fatto giuridico, di proprietà. E siccome la fabbrica globale si sta affrancando dalle frontiere nazionali, mentre la proprietà borghese non può prescindere dalla nazione, anche il fatto giuridico diventa una pura sopravvivenza del passato, obsoleta, inutile, ingombrante per l'ulteriore espansione del sistema e soprattutto estremamente contraddittoria persino per la contabilità dello Stato. Era fatale, o meglio materialisticamente determinato, che la struttura della fabbrica moderna esplodesse al di fuori delle sue proprie mura e improntasse a sé il sistema d'industria. Come nella fabbrica vi sono le singole fasi o reparti di lavorazione la cui sequenza definisce l'intero processo individuato da Marx, così nel sistema d'industria ogni fabbrica singola tende a diventare il reparto della fabbrica globale, a soddisfare in grande le singole fasi di lavorazione, la cui sequenza definisce l'intero processo. Quest'ultimo è oggi racchiuso soltanto nel prodotto finito e non più in una struttura fisica circoscritta (muri, impianti, operai raccolti in un ambiente). La Fiat non è più una mera fabbrica di automobili. Così la IBM non è più una mera fabbrica di computer e la Boeing non è più una mera fabbrica di aerei. Abbiamo visto in un articolo precedente (n. zero della rivista) come America On Line in pochissimo tempo sia diventata qualcosa di completamente diverso da un fornitore di servizi su Internet, inglobando molte altre attività, anche produttive. Quando nell'industria moderna, suddivisa nei suoi singoli reparti di produzione, solo l'intero sistema rappresenta la fabbrica, l'azienda non corrisponde più al sistema, ma ne possiede solo dei pezzi a caso. Sempre più spesso, infatti, la proprietà non coincide con il processo produttivo e una holding non è altro che il contenitore di attività differenziate, il cui unico scopo è quello di fornire profitto. Se c'è un modo per dimostrare nella maniera più totale e sicura che il capitalismo ha solo da togliersi dai piedi, non ha più nessun compito storico da svolgere, questa è la struttura produttiva mondiale (l'involucro non più corrispondente al suo contenuto, diceva Lenin nell'Imperialismo). Verso la soddisfazione di bisogni umani Prendiamo per comodità la solita Fiat. Pur essendo ancora un'azienda fortemente basata sull'automobile (quasi la metà del fatturato), essa mostra una struttura enormemente suddivisa, dove balza all'occhio evidentissima la centralizzazione capitalistica. Nel bilancio 2000 vi sono 34 pagine fitte con l'elenco delle 1.063 aziende consolidate a vario titolo, sparse in 61 paesi del mondo. Si tratta di una rete che comprende un gran numero di settori: oltre alle automobili sono presenti veicoli da trasporto, macchine movimento terra, macchine agricole, mezzi di produzione per l'edilizia, prodotti metallurgici, meccanica fine, componentistica per auto e altri prodotti, macchine utensili, impianti industriali, imprese per grandi costruzioni, aviazione, spazio, editoria, pubblicità, assicurazioni, software, organizzazione aziendale e servizi vari. Le fabbriche vere e proprie sono 242, il fatturato complessivo è 114.000 miliardi di lire e il 67% di esso riguarda attività internazionali. Se noi tracciassimo su un grande foglio uno schema completo della proprietà, dovremmo inserire in un insieme le caselle delle 1.063 aziende verso le quali puntano le classiche freccioline che indicano controllo e partecipazione della Fiat, ma, a parte i casi di controllo al 100%, dovremmo anche inserire le freccioline delle aziende che hanno a loro volta partecipazioni nella Fiat, poi quelle che provengono dall'esterno del sistema considerato in bilancio, cioè le freccioline che rappresentano gli altri partecipanti sia al capitale Fiat che a quello delle sue parzialmente controllate. Avremmo degli insiemi che si sovrappongono e si compenetrano, dato che accanto alla Fiat troveremmo altre holding con le stesse caratteristiche. In questo modo, con molta probabilità, al giorno d'oggi l'estensione di questo schema coinvolgerebbe l'intero pianeta e non avrebbe soluzione di continuità se non in ramificazioni secondarie, piccole isole in cui sopravvivono capitali individuali non assorbiti nel capitale azionario e quindi soggette ad essere presto assorbite. Uno schema senza confini come quello descritto darebbe un’idea più chiara se tracciato su una superficie sferica, ma noi ci accontenteremo di disegnare soltanto una parte di esso, come se guardassimo da una finestra (vedi figura). Ogni casella rappresenta una unità produttiva; la serie di caselle in sequenza, evidenziata con un tratto marcato, rappresenta il flusso produttivo, quello che va dalla materia prima al prodotto finito (la fabbrica globale); le caselle ombreggiate rappresentano tre holding, tra cui la Fiat, che controllano le aree delimitate da ellissi (abbiamo tralasciato di disegnare le freccioline delle partecipazioni incrociate per non appesantire la figura), i quali si sovrappongono, così come si sovrapporrebbero a livello inferiore le partecipazioni delle singole aziende che eventualmente controllassero altre aziende. Come si vede il flusso produttivo attraversa il sistema di fabbrica in fabbrica, così come attraversa i singoli reparti in una fabbrica sola, senza minimamente curarsi del fatto che esista la proprietà. Elementari considerazioni sugli insiemi mostrano come si debba considerare "fabbrica" sia il singolo riquadro che, a maggior ragione, la catena evidenziata di riquadri. Nel primo caso abbiamo un insieme di reparti che portano a uno dei semilavorati necessari al ciclo successivo, quindi abbiamo la fabbrica parziale; nel secondo abbiamo il flusso complessivo dei cicli parziali, l'unico che porta al prodotto finito, l'insieme di insiemi, la fabbrica totale. In nessun caso l'area delimitata dall'ellisse si può definire "fabbrica", e anche il termine "industria" sarebbe inappropriato, come s'è visto. Abbiamo evidenziato una sola catena, ma è evidente che ve ne sono molte altre per i vari prodotti differenziati: l'insieme delle catene rappresenta l'industria propriamente detta. Il fatto che il sistema sia in realtà molto più complesso di quanto appaia in un grafico (le singole fabbriche di componenti di solito si approvvigionano da e producono per più fabbriche, mentre ne vediamo rappresentata una sola a monte e a valle) non inficia la struttura di base del sistema, precisamente quella che mostra a Marx la legge generale del capitalismo verso la transizione, nell'ambito della legge generale del succedersi delle forme economico-sociali. Una volta eliminata la proprietà, l'azienda scompare, e con essa gli insiemi superflui che prima apparivano così essenziali; il flusso produttivo, liberato dal controllo proprietario, può distribuirsi secondo i bisogni umani sull'intero pianeta indipendentemente dalle questioni imposte dal valore; di conseguenza, la popolazione non ha più motivo di migrare verso i punti di concentrazione di capitale. Tenendo conto della distribuzione delle materie prime, che è data dalla natura, il rovesciamento della prassi, cioè la vita umanamente progettata – e per questo umanamente e dialetticamente liberata – renderà possibile una distribuzione degli uomini sulla superficie terrestre che tenga conto della vita e delle esigenze loro, non di quelle dell'accumulazione. Come abbiamo già fatto notare in questa serie di articoli, l'uomo potrà decidere quali zone del mondo sono più adatte alla propria esistenza, senza il lavoro coatto che lo fa congelare nelle cave in Siberia, arrostire nelle fabbriche tropicali o impazzire nei carnai delle metropoli sovraffollate e inquinate. Squarci sul domani Il nostro lettore abituale sa che abbiamo tratto dal patrimonio teorico del comunismo un metodo di lavoro che per sua natura spinge alle estreme conseguenze la ricerca, fino ai territori di confine fra la società attuale e quella futura (mentre affronta con realismo "militare" i compiti quotidiani della lotta cosiddetta sindacale, cfr. l'articolo sullo sciopero UPS sul numero scorso). Il nostro schema si rafforza con l'ulteriore maturazione del sistema d'industria, e prova sperimentalmente le anticipazioni della teoria. Tuttavia è ancora insufficiente a mostrare come cambia profondamente la struttura della produzione col progredire della forza produttiva sociale. La metamorfosi della manifattura e dell'industria moderna, con la conseguente metamorfosi dell'operaio professionale in operaio parziale, sarebbe ancora ben poca cosa se l'industria stessa non producesse, come fa il Capitale con la classe rivoluzionaria, la sua propria antitesi sociale. L'operaio totale, somma dell'attività di tutti gli operai parziali, era già un indizio di questa antitesi, giustamente elevata da Marx ad esempio di contraddizione estrema, che produce un conflitto insanabile con la divisione sociale esistente all'esterno della fabbrica (contraddizione fra la produzione sociale e l'appropriazione privata, fra il piano di produzione e l'anarchia del mercato). Ma adesso la trasformazione dell'attività produttiva in industria e del produttore in operaio è posta di fronte ad un ulteriore, importante salto di qualità. Questo salto, oltre a legarsi direttamente a una società diversa ma basata su di una struttura produttiva i cui elementi materiali sono già pronto oggi così come sono, mostra anche i primi passi di un cambiamento sovrastrutturale, per ora incerto, ma già ben definibile. E, come si sa, il cambiamento sovrastrutturale viene dopo quello della base produttiva, perciò siamo ben avanti nel processo materiale di transizione, nella maturazione del potenziale di catastrofe positiva. Certo, se ci basassimo sulla concezione che in questo momento l'umanità ha di sé stessa, oggi il panorama parrebbe assai sconfortante: molti lamentano, più o meno conseguentemente, che lo scontro di classe è quasi a zero, e non appaiono avvisaglie di combattività e di "coscienza" nelle nuove generazioni. Il comunismo è dato per morto persino nel tono deprimente dei comunisti e la maggioranza della popolazione mondiale non è particolarmente in lutto. L'egoismo, l'individualismo, la corsa al consumo, la concezione edonistica della vita e l'indifferenza verso il prossimo sono giunti ad un livello che sembra difficilmente superabile. Una rassegnazione da iloti si accompagna ad una violenza cieca contro i propri simili; con la disgregazione della famiglia e l'accanimento contro i propri piccoli, violentati, resi schiavi, venduti, uccisi, gli uomini sembrano imbarbariti, braccati come bestie selvagge in una giungla spietata, secondo l'espressione di Marx. Nella produzione e nei servizi le regole sono un ricordo lontano, l'orario di lavoro è aumentato ovunque, la flessibilità ha prodotto incertezza e movimento continuo, il basso salario si confronta continuamente con uno più basso ancora, che da qualche parte del mondo c'è sempre. Eppure, contro il piagnisteo dei teorici del solito "attacco padronale", ricetta luogocomunista da impotenti, il nostro metodo ci mostra ben altra strada, addirittura squarci sul domani, strada che la classe saprà imboccare nuovamente non appena sarà spazzato via ogni residuo del vecchio socialismo moralista che impregna ancora i programmi, l'azione e il linguaggio di troppi. Squarci sul domani sono tutte quelle modificazioni dell'assetto produttivo contro cui gli operaisti si scagliano in una assurda "lotta contro la ristrutturazione" con cui ci rompono le tasche almeno dal '62. Il percorso verso la produzione di masse crescenti di plusvalore relativo attraverso la razionalizzazione dei processi favorisce senz’altro l'avvento della nuova società; l'automazione ci deve far gridare che non vedevamo l'ora di mettere all'opera macchine in sostituzione di uomini; la rottura del legame fra padrone e operaio, con l'immissione di quest'ultimo in un ambiente impersonale, è benvenuta; la rottura ulteriore dell'operaio con la fabbrica, la sua liberazione totale, che lo rende assolutamente precario ed esposto ai venti del mercato come non mai, è un passo necessario. Di fronte a tutto ciò i comunisti non rivendicano affatto (sono sempre stati contro) il ritorno ai contratti a scadenza fissa, agli aumenti di salario automatici, alla potenza dei sindacati corporativi post-fascisti, agli scioperi addomesticati, massicci o articolati che fossero: tutto ciò è passato e non tornerà più. E meno male, perché altrimenti sarebbe ritardata la comparsa di approcci diversi alla questione dell'organizzazione proletaria, immediata e politica. Scrivevamo venticinque anni fa, quando si incominciava a parlare di "agenzie del lavoro" in sostituzione di cassa integrazione e licenziamenti, che l'ulteriore liberazione della forza-lavoro avrebbe posto finalmente l'operaio non più di fronte a un "suo" padrone, che non avrebbe più avuto, ma di fronte all'intera, anonima, classe dei capitalisti, col risultato, difficile da raggiungere ma rivoluzionario, di riscoprire la sua appartenenza di classe a un livello più alto. Non c'è piagnisteo, non c'è ridicola parola d'ordine di fronte al nulla, non c'è proclama con debito punto esclamativo che possa far tornare "i bei tempi" della lotta sindacale storica, inquadrata dallo stalinismo, cioè da uno degli elementi – il maggiore – della controrivoluzione. C'è solo lavoro duro e sistematico in aderenza ai reali rapporti di forza fra le classi, la consapevolezza del fatto che niente potrà rianimare il proletariato (toglierlo dal coma, ridargli anima-programma) più del reale percorso di tutta la società verso le soluzioni future. E l'assetto della produzione, la forma del rapporto di lavoro, la diffusione della fabbrica in contrasto con la contrazione numerica delle aziende (quelle vere, non le botteghe) sono forze più potenti di qualsiasi velleitario proclama. Come sempre. Ritorno al futuro: la nuova schiavitù Oggi le agenzie del lavoro temporaneo coinvolgono una massa crescente di forza-lavoro. Solo le due più grandi hanno impiegato mediamente nel mondo, l'anno scorso, 3,4 milioni di salariati (5,7 milioni la punta massima) con un fatturato di 55.000 miliardi di lire. In Italia ne agiscono già una cinquantina. Il lavoro interinale, cui si affiancano svariate forme di lavoro precario legalizzato dalle varie politiche internazionali sulla "flessibilità", rende più mobile che mai la forza-lavoro, contribuendo a rompere i limiti aziendali e aumentare il flusso dei proletari verso gli strumenti del lavoro. Si tratta di un passo ulteriore nella liberazione della merce forza-lavoro dai vincoli precedenti, in modo che essa possa a tutti gli effetti comportarsi sul mercato come ogni altra merce in vendita o in affitto. L'operaio si universalizza e internazionalizza, tende persino a perdere il contatto con casa e famiglia, suo tradizionale legame fuori dalla fabbrica, elemento di conservazione borghese il cui abbattimento non sarà mai abbastanza rapido. Oltre che libero di vendere la propria forza-lavoro, ora si è liberato anche dall'azienda-padrone fisso. La sua vita non è più divisa fra lavoro e riposo, dentro e fuori la fabbrica: può essere chiamato in qualsiasi momento. Magari è costretto a fare due part-time e calcolare un enorme spreco di tempo solo per gli spostamenti. Potrebbe fare a meno della casa e vivere nelle foresterie delle aziende. Non solo non sa più che cosa sia un orario, ma neppure il cosiddetto tempo libero, perché non ha più tempo del tutto. Finché accetta questa condizione è schiacciato dall'avversario, dato che, come sappiamo, non può abdicare neanche per un sol giorno alla lotta per la difesa delle sue condizioni senza vivere da sconfitto (Marx). La sua esistenza è ora in tutto e per tutto nelle sue proprie mani e, nella frenetica corsa del Capitale assetato di plusvalore, egli può soltanto soccombere o riscoprire di far parte di una classe ben precisa, smentire le cassandre che ne predicevano la fine, constatare che il suo isolamento è solo un fatto apparente in un mondo collegato come non mai, dove ognuno è – e può essere ancora di più – parte attiva, immerso nella rete della comunicazione, come hanno dimostrato importanti lotte di questi anni. Dopo il leasing – l'affitto delle strutture produttive – ecco ora che l'affitto della forza-lavoro giunge a completare lo stravolgimento del mondo aziendale. Di fronte a un simile fenomeno, dov’è infatti finita l'azienda tradizionale proprietaria, con i suoi impianti e i suoi operai? Questa situazione rende sempre più evidente l’importanza di testi come Proprietà e Capitale, dove si dimostra che il capitalismo non cambia di una virgola se pure spariscono capitalisti ed impianti in proprietà, ma che la maturazione della forza produttiva sociale produce le basi materiali affinché l'umanità esca concretamente dall'utopia, impadronendosi della scienza rivoluzionaria e passando all'azione attraverso il suo partito (capitolo intitolato, appunto, "Utopia, scienza, azione"). La rottura dei limiti d'azienda e la mobilità estrema della forza-lavoro rappresentano il culmine raggiunto dallo sfruttamento, ma, dialetticamente, rappresentano anche il mezzo materiale che permetterà al programma immediato della futura società di indirizzare in senso inverso i flussi del lavoro, distribuendo quest'ultimo in modo razionale sul territorio. Questa "mobilità" del lavoro, oggi negativa sotto ogni aspetto umano, si accentua ogni giorno sotto i nostri occhi. All'operaio parziale proiettato fuori dalla fabbrica, la quale era già diventata fabbrica parziale, si affianca un'altra figura di lavoratore, contraddittoria al massimo grado, perciò stesso gravida di significato per noi e per tutti coloro che guardano al domani. Si tratta del non-operaio, cioè di chi vende non soltanto la propria forza-lavoro ma la propria esistenza, quasi come un nuovo schiavo. La differenza fra l'operaio e lo schiavo consiste proprio nella libertà del primo, che è libero di vendere sul mercato non sé stesso ma la sua capacità lavorativa per un tempo limitato. Anche il servo della gleba non vendeva sé stesso poiché, per quanto misero, possedeva in varie forme i suoi mezzi di lavoro ed era "soltanto" obbligato al lavoro di corvée per il suo signore, al pagamento della gabella e alla decima per la Chiesa. Accanto all'operaio descritto da Marx compare ora quello che vende la propria capacità lavorativa nel modo più "flessibile" e totale, fuori da ogni regola stabilita in passato. Oggi diventa anche normale un'altra figura di "produttore", chi giuridicamente è un professionista ma che in realtà non è neppure un artigiano, è solo un povero cristo senza lavoro che si arrangia e lavora per la grande industria. E' libero e nello stesso tempo schiavo, imprenditore di sé stesso e nello stesso tempo salariato, un ibrido mostruoso che solo il Capitale degenerato poteva partorire e che anche in Italia si conta a milioni. Ma, se è corretto chiamare "degenerato" il Capitale dall'interno del sistema che lo perpetua, non è meno corretto, spingendoci al di fuori di esso verso la società futura, vedere non degenerazione ma tensione verso la catastrofe liberatoria, insita in quel capitalismo "di transizione" che Lenin analizza nel suo testo sull'imperialismo. Per definizione chi possiede i propri mezzi di produzione e vende sul mercato il prodotto del proprio lavoro non è un proletario. Così non è proletario chi partecipa a qualsiasi titolo alla conduzione dell'azienda, ne intasca parte degli utili, non vende la propria forza-lavoro per un numero di ore definito, è coinvolto con la sua stessa vita nel lavoro e quindi non ha nessuna possibilità di scindere il lavoro necessario dal pluslavoro. Ma oggi questo strano tipo di produttore non ha nessuna possibilità di scambiare lavoro con denaro in quanto tale, come fanno il bottegaio, il professionista o l'artigiano: egli, lavorando in simbiosi con l'industria, può soltanto scambiare lavoro contro denaro in quanto capitale. A decine di milioni di uomini è negato l'accesso "tradizionale" al mondo della produzione, però essi vi partecipano in modo diretto, anche se in forme che si distinguono dal lavoro salariato. Ma è solo, appunto, una questione di forma. L'aspetto burocratico-fiscale della loro condizione non è più importante di quello sostanziale: se è lecito inserire tra i proletari l'operaio disoccupato che usufruisce della ripartizione sociale del plusvalore, è anche lecito inserirvi quello che, per non rimanere disoccupato, lavora per l'industria in varie forme imposte esclusivamente dalla legislazione. Stiamo parlando di un’enorme massa di lavoratori che sono costretti ad inserirsi in mille modi nel processo industriale sotto mentite spoglie, non di chi si mette a fare l’artigiano e il commerciante, e che è perciò facile inquadrare. In Italia i lavoratori dipendenti assunti con contratti "atipici" sono circa 1.000.000 e aumentano dell'8,4% all'anno; nell'area Euro i soli contratti a tempo parziale coprono il 17% della forza-lavoro (minimo dell'Italia con il 9,2%, massimo dei Paesi Bassi con il 44,5%) e si sa che ciò significa spesso doppio lavoro; i contratti a termine nella stessa area coprono il 14% della forza-lavoro (minimo dell’Italia con il 10,1%, massimo della Spagna con il 32%); in Italia i contratti di "collaborazione coordinata e continuativa" sono circa 700.000 e, anche se sono conteggiati ufficialmente nel lavoro "autonomo", vanno intesi come occupazione proletaria mascherata, per la quale il super-sfruttamento è istituzionalizzato. Ricerca spasmodica di plusvalore Nel citato VI Capitolo Inedito Marx, dopo aver ribadito drasticamente che è produttivo chi scambia lavoro con denaro in quanto capitale e non con denaro in quanto mero denaro, afferma che si può produrre plusvalore indipendentemente dalla forma in cui ciò avviene, dal contenuto del lavoro e dalla natura del prodotto. La distinzione si fa sulla base della suddivisione della giornata lavorativa in lavoro necessario a riprodurre l'operaio stesso e in pluslavoro, quindi vi è plusvalore ogni volta che vi sia lavoro non pagato. L'argomento era già stato trattato nel Primo Libro del Capitale (cap. XIV) e verrà ripreso nelle Teorie sul Plusvalore dove sono riprodotti brani interi dal VI Inedito. Perciò oggi abbiamo da una parte una restrizione formale, dal punto di vista quantitativo, del proletariato tradizionale, dovuta all'aumento della produttività, cioè allo sviluppo della produzione di plusvalore relativo; dall'altra un enorme aumento delle masse proletarizzate ma improduttive, che usufruiscono della ripartizione sociale del molto plusvalore estratto da pochi. Il loro reddito, cioè "il prezzo delle loro prestazioni, dalla prostituta al re", dice Marx, è calcolato sulla base "delle stesse leggi che regolano il lavoro salariato", e ciò potrebbe indurre in errore sulla sua origine, che in realtà è sempre il plusvalore prodotto dai proletari. In mezzo, tra proletari e proletarizzati improduttivi, sta una massa amorfa e crescente di lavoratori che hanno uno scambio effettivo di lavoro vivo con capitale (il quale è lavoro passato, morto) ma che non rientrano nella classica definizione di proletari. Ora, se si ricorre a una meccanica suddivisione statistica, vediamo che si giunge all'assurdo di attribuire la massa del plusvalore esistente ad un numero estremamente esiguo di operai, per cui il saggio di sfruttamento risulta irrealistico. Marx sottolinea a più riprese che, nonostante l'aumento storico del pluslavoro e quindi del plusvalore che ogni operaio cede al Capitale, non si può estrarre da pochi operai tanto plusvalore quanto se ne estrae da molti. C'è un limite, dato dalla lunghezza non variabile a piacere della giornata lavorativa, oltre il quale non si può andare. Se anche un operaio riproducesse il suo salario in un millesimo delle sue 8, 10 o 16 ore di lavoro, il plusvalore corrisponderebbe solo al restante periodo di pluslavoro, cioè quasi 8, 10 o 16 ore. Perciò occorreranno sempre due operai per ottenere un incremento a quasi 16, 20 o 32 ore rispettivamente. Per questo il capitalismo deve ricorrere al plusvalore assoluto anche all'apice del suo percorso storico di sviluppo. L'azienda è quella che assume gli operai e che rappresenta l'oggetto della statistica di cui sopra. Ma, come abbiamo visto, solo la fabbrica è l'insieme della produzione che permette di raggiungere l'obiettivo del prodotto finito. Perciò la fabbrica e non l'azienda deve rappresentare l'oggetto della nostra attenzione. Ora, e riprendiamo sempre dal VI Capitolo Inedito, "con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al Capitale, del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero fattore del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci, o meglio, qui dei prodotti". Quel che conta quindi è l'utilizzo di lavoro indifferenziato nel processo produttivo, indipendentemente dalla forma in cui avviene, purché vi sia scambio di lavoro con Capitale. Osservare inoltre quel magnifico inciso finale in cui Marx precisa e dice: entro il processo e prima di uscire sul mercato non abbiamo ancora merci, ma solo prodotti; la fabbrica produce valori d'uso, è l'azienda che li trasforma in merci. "Se si considera quel lavoratore collettivo che è la fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale – che è nello stesso tempo una massa totale di merci – dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio", ciò che conta di "questa forza-lavoro collettiva è il suo consumo produttivo immediato da parte del Capitale, la produzione immediata di plusvalore, la sua trasformazione immediata dello stesso in Capitale". Il luogo della produzione per la fabbrica è indifferente, quando il flusso non richieda specificamente la contiguità delle operazioni. Per questo si sviluppano forme di lavoro a distanza, collaborazioni esterne continuative, attività a domicilio. Queste forme di lavoro non hanno nulla a che fare con il lavoro a domicilio degli esordi del capitalismo e dislocano già la forza-lavoro in una rete molto più ampia rispetto alle mura aziendali. Il lavoro a domicilio odierno, recita per esempio la legge, "è un rapporto di lavoro subordinato quando le direttive impartite dal committente sono specifiche e riguardano anche le modalità di esecuzione dell’opera …. La retribuzione del lavoratore a domicilio non può essere inferiore alle tariffe di cottimo collettivo stabilite dai contratti collettivi" (Legge 877 del 1973). Questo tipo moderno di lavoro a domicilio - già analizzato da Marx nel Primo Libro - presuppone l'esistenza della fabbrica, dell'operaio e della rete produttiva capitalistica, dato che trasforma la casa dell'operaio stesso, la sua donna e i suoi figli in "un reparto esterno della fabbrica". Il tele-lavoro, cioè il lavoro a distanza tramite telefono o computer che un numero crescente di proletari accetta in particolari condizioni, è un prodotto ancora più sofisticato della "diffusione" della fabbrica, dato che permette una vera e propria dislocazione della forza-lavoro sul territorio indifferentemente dallo spazio e dal tempo, la libera dall'obbligo di recarsi sul posto di lavoro, dall'orario, dal luogo in cui svolgere l'attività. Secondo l'International Telework Association soltanto il tele-lavoro propriamente detto impiega 20 milioni di persone negli Stati Uniti e 6,5 milioni in Europa, con una crescita 1999-2000 del 10%. In tal modo il lavoro non solo si internazionalizza sempre di più, ma può anche non fissarsi in un territorio definito, tanto che molte attività sono svolte permanentemente in paesi diversi da quello in cui risiede l'azienda (per esempio gran parte delle aziende americane affidano l'amministrazione a sistemi gestionali in India), oppure direttamente off-shore, cioè su navi che incrociano in acque internazionali o su ex piattaforme petrolifere e militari abbandonate e riciclate alla bisogna (su Internet sono in vendita spazi industriali e residenziali anche in una costruenda nave-città itinerante capace di ospitare 30.000 abitanti e con tanto di scuola, ospedale, giardini pensili, aeroporto). Oggi ovviamente ciò è fatto per banali ragioni di risparmio o fiscali, ma un domani questa facilità di movimento, che si esprime in mille modi, potrà essere utile per facilitare la rottura della concentrazione capitalistica, del legame fra mezzi di produzione e forza-lavoro, per avviare la diffusione armonica e razionale sia degli uni che dell'altra. Il capitalismo sta trasformando l'operaio legato al posto fisso in operaio della fabbrica globale, schiavo del bisogno ma nello stesso tempo libero più che mai sul mercato, disponibile al trasferimento continuo verso i luoghi dove agisce il Capitale, anche in massa, come oggi avviene, ma per ciò stesso in grado di muoversi un domani in senso inverso o di applicare la sua energia in loco, quando lo richiederà una produzione sociale che farà a meno delle mostruose concen-trazioni di lavoro vivo e morto. Nel settore delle cosiddette nuove tecnologie vi sono addirittura forme embrionali di superamento totale della separazione fra giornata lavorativa e "tempo libero", per cui il lavoratore è sottoposto alla vendita di tutto sé stesso. Non si tratta della schiavitù di ritorno come quella ancora esistente nelle piantagioni africane o nelle manifatture indiane ma storicamente superata, bensì di una nuova condizione non più classificabile fra le categorie appartenenti a questa società. Siamo quindi di fronte a un paradosso, a una contraddizione che, per quanto non immediatamente visibile, ci mostra una vera dinamica distruttrice nei confronti dell'esistente: da una parte il sistema di aziende riduce drasticamente la forza-lavoro in carico, puntando sempre più sull'estrazione di plusvalore relativo e diminuendo il numero totale dei proletari occupati nell'industria propriamente detta; dall'altra il sistema di fabbriche, la fabbrica globale che utilizza lavoro sociale combinato, ricorre ad una massa crescente di possessori di forza-lavoro ibrida, aumentando l'offerta extra-legale oppure non-tradizionale di forza-lavoro, disarmata di fronte a quella che in certi casi appare come una vera e propria schiavizzazione moderna, difficile quanto si vuole da classificare, ma direttamente inserita nel ciclo produttivo globale assetato anche di plusvalore assoluto. La struttura del lavoro sociale, la sua rete internazionale, la sua configurazione come specchio del cervello collettivo dell'umanità doveva necessariamente rompere le ultime barriere del localismo della forza-lavoro, renderla disponibile al pari di tutte le altre merci sul mercato mondiale, internazionalizzarla definitivamente. * I precedenti articoli sul programma immediato della rivoluzione proletaria sono comparsi sui nn. 0,1,2,3 della rivista n+1: - Patologie dell'investimento - Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani - Tempo di lavoro, tempo di vita - Elevare i costi di produzione LETTURE CONSIGLIATE - Partito Comunista Internazionale, Riunione di Forlì, "Il programma rivoluzionario immediato", ora in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, ed. Quaderni Internazionalisti. - I dati sulle migrazioni dei lavoratori sono tratti da: Peter Stalker, Workers without frontiers - The impact of globalization on international migration, ILO, Geneva and Lynne Rienner Publishers, 2000. Quelli sull'occupazione "atipica" sono del Centro Studi Confindustria. Tutti gli altri provengono dai siti ufficiali degli organismi internazionali rintracciabili su Internet tramite il nostro portale. - K. Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo VI Inedito, "Risultati del processo di produzione immediato", La Nuova Italia. - K. Marx, Il Capitale, Libro I, capitoli XII, XIII e XIV. - Partito Comunista Internazionale, Proprietà e Capitale, ed. Quaderni Internazionalisti, specialmente i due capitoli: "La formazione dell'economia comunista" e "Utopia, scienza, azione". |
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