made n.21 Dicembre 2023
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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DOCUMENTO a| Una prima bozza cartacea per la comunicazione [1]

Titolo da decidere  (forse, la violenza e il comunismo?)

Titolo 1 (titoli dei paragrafi ancora tutti da decidere)

Nel primo libro de Il Capitale di Karl Marx, si legge che «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova società».
In Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe Amadeo Bordiga scrive: «è pacifico, tra le più opposte valutazioni, che la violenza tra uomo e uomo sia non solo un dato importantissimo dell'energetica sociale, ma un fattore integrante, se non sempre decisivo, di tutte le mutazioni delle forme storiche».   
Partendo da queste due esplicite formulazioni, che possono bastare per anticipare lo specifico orizzonte di questa nostra comunicazione – ed anche favorire tutti nella libera scelta di rimanere ad ascoltarla o di recarsi altrove – il nostro gruppo di lavoro ha discusso il tema della violenza ponendosi la classica domanda: l'uomo è violento per natura o sono le convenzioni “civili” a caricarlo di aggressività?
Una domanda, magari grossolana come un luogo comune, ma che, appunto per questo, ha necessità di molti chiarimenti, tanto sul soggetto “uomo” quanto sull’oggetto “violenza” e a quanti fenomeni con essi variamente connessi. La domanda l’abbiamo diciamo pure “disposta” come aperta anche a varie possibilità conoscitive in grado di sciogliere la vaga nozione di “violenza” dalle interdizioni ideologiche della società di classe per ridarla alla “natura” e alla “storia” (in quanto storia naturale della specie), affinché, liberata dai residui morali ed etici propri di un’epoca ancora preistorica, se ne possa cogliere il suo naturale lavoro di levatrice del mondo nuovo e di becchina del vecchio.
Dunque: l'uomo è violento per natura o sono le convenzioni civili a caricarlo di aggressività?
Senza ripercorrere tutta la storia della millenaria questione, possiamo dire rapidamente che la borghesia rivoluzionaria non solo non l'ha sciolta, ma è ricorsa ora ad una ora all'altra “verità”, brandendole entrambe come formidabili bastoni ideologici per scalzare il sistema dei privilegi feudali. Infatti, mentre da un lato spiegava le cause della violenza come un fattore connaturato alla stessa natura umana, che per brevità riassumiamo nella celebre formula “homo homini lupus”, dall'altra avanzava la tesi opposta che chiamava in causa il “buon selvaggio”, per cui non lo stato di natura, ma la “civiltà” ne corrompeva l'innata indole pacifica.
È curioso osservare come immagini opposte e speculari derivano dalla stessa matrice ideologica, quella della nascente “civiltà” borghese nei XVII e XVIII secolo. Nel ritrarre l'uomo come un lupo fra lupi, non è difficile scorgere il riflesso ideologico della lotta di concorrenza mercantile che oppone produttori di merci ostili e in perenne lotta fra di loro, il tentativo di giustificare ed assolvere moralmente e politicamente tali pratiche dichiarandole uno “stato di natura”. La stessa giustificazione la ritroviamo nell'opinione opposta che dà risalto alla bontà dell'uomo primitivo. Il quale nasce docile e pacifico ed è reso malvagio dalla “civiltà”.
Anche qui l'allusione è alla “civiltà” feudale, contro la quale si abbatte l'ostinata richiesta del ritorno allo stato naturale, che coincide, per i rivoluzionari borghesi, con il generico richiamo politico all'uguaglianza e ai diritti dei liberi cittadini. Il tentativo è quello di coniugare diritti naturali e spirito borghese repubblicano.

Titolo 2

Tutta questa sovrastruttura ideologica ha mostrato una potente forza d'inerzia che, con la potente eccezione della teoria marxista, solo ai giorni nostri, con gli apporti fondamentali della cibernetica e la teoria dei sistemi, ha cominciato a regredire.
La recente fioritura di tecniche produttive ha permesso di conoscere in profondità i meccanismi soggiacenti il comportamento animale ed umano, contribuendo non poco a spostare buona parte della ricerca scientifica dal vecchio metodo metafisico al concetto di relazione, di intreccio, di coevoluzione fra l'innato e l'apprendimento. I concetti di buono e cattivo, riferiti agli esseri umani tendono ad essere considerati termini relativi da quando si è scoperto che tanto la tolleranza quanto la violenza sono tendenze adattative, entrambe fondamentali al processo evolutivo.
In senso lato, fenomeni violenti si manifestano da sempre, precedendo di gran lunga la nascita degli uomini e il sorgere della cosiddetta “civiltà”, rendendo inessenziale la domanda iniziale.
Dalla grande esplosione del Big Bang che ha dato origine al cosmo, ai movimenti delle lastre tettoniche che hanno dato forma al rilievo del pianeta, ai terremoti e alle eruzioni vulcaniche che accumulando e sgretolato successive formazioni rocciose hanno mescolato, in milioni di anni, i più diversi elementi chimici costruendo un suolo che permette la vegetazione più copiosa e svariata.
Se riconosciamo in questi fenomeni manifestazioni di violenza, allora dobbiamo esaminarla non solo dal punto di vista politico e come prerogativa del regno animale ma come un fenomeno e una forza vitale che permea e modifica la materia tutta quanta, uomini compresi.
Se la vita, così com'è lo conosciamo, è il risultato del succedersi di una catena di eventi catastrofici, allora essi sono allo stesso tempo movimenti di rinnovamento della natura nelle sue molteplici manifestazioni. Per tanto, una definizione di violenza conseguente potrebbe essere formulata in questo modo: tutto ciò che è relativo al cambiamento contiene sempre un elemento di violenza che predispone la materia alla vita e apre al futuro “sgretolando” e macinando risultati precedenti.
 “La natura sembra non lottare, ma in realtà anch'essa lotta. Quando avvenivano le grandi convulsioni telluriche del vulcanismo primitivo dovute al fuoco interno, era una lotta della natura contro se stessa, come lo sono le lotte di classe all'interno della specie”
Quindi se vita e lotta sono momenti fra loro inseparabili, possiamo considerare l'aggressività come parte del corredo biologica e istintuale del genere umano, senza per questo considerarla un elemento alternativo alla cooperazione. Al contrario: aggressività e collaborazione sono aspetti complementari della natura umana e, fino ad un certo punto, inseparabili fra di loro.
Già Marx, in una rara intervista alla domanda del giornalista su cosa fosse la vita, rispose perentorio e diretto: la vita è lotta.  Quando ha costretto il mondo ad aprire gli occhi sul funzionamento delle società umane, l'ha forzato a riconoscere nella lotta un elemento dinamico intrecciato ed indispensabile alla vita.
Con più di un secolo di ritardo anche la scienza ufficiale sembra pervenire a conclusioni simili. Nell'ambito dell'etologia moderna, la disciplina scientifica che studia le abitudini e i comportamenti animali, non è raro trovare descrizioni relative alla aggressività come forme di comunicazione alla basa del rapporto fra individui della stessa specie. Lo zoologo Korand Lorenz, suggerisce, ad esempio, che le relazioni sociali si hanno soltanto negli animali con un'aggressività intra-specifica. Noi, ovviamente, non solo includiamo l'uomo nel regno animale, ma inscriviamo nelle manifestazioni di aggressività altrettante forme della lotta che la natura conduce con sé stessa. E come questa lotta sia determinata dal modo stesso di essere della materia
L'esposizione che segue tenterà di raccontare, per sommi capi, il modo pratico in cui la lotta si è svolta all'origine dell'umanità e come attraverso le sue manifestazioni la materia predispone le sue forze a divenire umane e infine “raziocinizzanti”.
Nel raccontarne il percorso di questo divenire il distinguo, esposto dalla nostra corrente, nel testo: Forza, violenza dittatura nella lotta di classe, per cui lo stesso movente ed effetto nell'impiego della forza può presentarsi come potenziale o virtuale da un lato, come cinetico ed attuale dall'altro, costituisce un punto di riferimento costante ed indispensabile a cui ci richiameremo puntualmente. Ovviamente l'esposizione toccherà temi già trattati se pur in modo frammentario dalla nostra corrente di cui cerchiamo di operare collegamenti che ci riserviamo di approfondire e completare in lavori successivi.

Titolo 3

Come sappiamo le uccisioni all’interno della stessa specie animale sono eventi rari perché la lotta si arresta allo stato potenziale quando l’animale vinto emana un segnale convenzionale per comunicare al vincitore la propria resa. Un cervo, ad esempio, se sente un verso più forte (bramito) da parte di un rivale, fugge lasciandogli il campo libero. Un lupo, non ucciderà mai un suo simile che gli offre la gola in segno di sottomissione. Essere aggressivi in modo flessibile, fermando l’escalation al momento giusto fa parte delle strategie evolutive che servono all'individuo per sopravvivere. La natura ha optato affinché l'atto potenziale, il gesto simbolico, la resa formale, fosse sufficiente ad esaurire in se uno scontro altrimenti letale per le specie.  È sufficiente ai contendenti scaricare in atti simbolici l'energia accumulata negli atti di minaccia, prima che sfoci in violenza cinetica aperta.  Anticipiamo fin d'ora che nell'uomo il riso o il sorriso non sono altro che ritualizzazioni del comportamento di minaccia che consisteva nel digrignare i denti e che, nel corso dell'evoluzione, perduta la primitiva carica di aggressività, ha acquisito una valenza pacificatrice
All'inizio quando gli ominidi, scesero dagli alberi, non dovevano differire molto, in quanto ad aggressività intraspecifica, dai gruppi attuali di gorilla o di bonobo. Anche la ricerca del cibo doveva essere di tipo individuale senza distinzione di sesso. Oltre a foglie e frutta che ognuno raccoglieva e consumava individualmente, il menù si poteva arricchire di carcasse di animali, spolpate ed abbandonate da altri predatori e i bocconi migliori contesi con la forza. Ma, poiché era estremamente pericoloso consumare il pasto sul posto, divenne necessario trasportare le carcasse in “siti di soggiorno”, dove poterle macellare in tranquillità. Ciò implicava lo stabilirsi a fianco dell'aggressività una più complessa forma di collaborazione e comunicazione fra i membri del gruppo
Un sistema collaborativo costituisce una maggiore risorsa per sfamarsi meglio, per essere maggiormente protetti e difesi in caso di pericolo. Il calcolo dei vantaggi rispetto agli svantaggi è presto fatto, ed è così evidente da costituire uno stimolo sufficiente affinché prevalgano nel mondo animale forme di socialità dai profili disparati ma che, comunque, una volta acquisiti risulta impossibile ritornare a situazioni individuale precedenti, se mai ve ne furono.

Titolo 4

In questo modo, quando gli ominidi furono costretti a lasciare i margini della foresta, per avventurarsi in ambienti più vasti e nacque il bisogno di spostarsi su aree più estese per trovare il cibo sufficiente, che rese l'andatura bipede vantaggiosa, essi avevano già interiorizzato caratteristiche della vita comunitaria ancestrale e una predisposizione biologica alla vita di gruppo.
Una constatazione che ci porta a considerare come il “comunismo”, inteso come bisogno di cooperare fra gli uomini, sia una tendenza e una condizione insita nella natura stessa, che ha preceduto di gran lunga la comparsa dell'uomo sulla terra. Quello che gli ominidi ereditarono e che diffusero nella savana fu una forma di socialità che molto probabilmente si stabiliva sulla base di atteggiamenti improntati sull'aggressività, con i quali ogni singolo dava una rappresentazione intimidatoria di sé agli altri, segnali sufficientemente efficaci da pretendere rispetto e considerazione da parte di tutti i componenti il gruppo. È in questo modo che. Molto probabilmente e a fatica si sono stabilite regole e un primitivo comportamento sociale.  
Possiamo immaginare le primitive forme di comunicazione avviate digrignando i denti, lanciando grida minacciosa o, viceversa, reclinando il capo, allontanandosi velocemente, ecc, Tutti precisi segnali che ogni individuo lanciava permeando di informazioni utili il resto del gruppo riguardo le proprie intenzioni, in modo che ognuno poteva tirarsi indietro senza lottare, e pretendere a sua volta che il più debole facesse lo stesso.
Ovviamente conosciamo poco o nulla nei riguardi del processo di pre-umanizzazione. sappiamo che fu favorito dalla postura eretta e di conseguenza dalle mani libere di costruire e trasportare oggetti, ma in esso possiamo iscrivere l'aggressività intraspecifica come un criterio primordiale di autorganizzazione della specie, la quale con la lotta, la combattività ha formulato un principio ordinatore per disciplinare e regolamentare le prime rudimentali forme di convivenza sociale.

Titolo 5

Lo scenario proposto non deve essere molto lontano dalla realtà. Proviamo ad immaginare i nostri lontani antenati costretti dal cambio climatico ad abbandonare i protettivi margini della foresta e attraversare timorosi la savana africana senza difese efficaci e con scarse risorse per la corsa. Dovettero, seguendo il loro istinto naturale, far leva espressamente sulla collaborazione allo scopo di unire le loro deboli risorse fisiche individuali con tecniche cooperative di sopravvivenza. Nello stesso tempo, in quanto prede, dovevano poter mantenere integra una forte carica di aggressività individuale per restare in vita, non potendo farne a meno in quel quadro di primordiale sopravvivenza.
Se l'istinto aggressivo ancestrale fosse stato rimosso completamente o abbassato sotto una certa soglia di tolleranza per eccessiva sicurezza o per qualsiasi altro motivo, il singolo sarebbe stato privato di quella difesa naturale costituita da una sana diffidenza e l'ostilità nei confronti degli altri predatori, senza i quali non aveva scampo nella lotta per la vita.
Nello stesso tempo si trattava di non precludersi le possibilità, anch'essa vitale, di cooperare con altri individui della stessa specie, anch'essi attrezzati con le stesse aggressive modalità di sopravvivenza.
In questo conflitto con se stessa la natura, da un lato, arma l'istinto, che spinge l'uomo in direzione del primate, dall'altra parte l'incalza con la forza della collettività che lo spinge in direzione opposta.
Un controsenso che si risolve spostando il conflitto ad un livello superiore: trasformando la violenza cinetica in violenza potenziale. Lo stesso risultato, in una qualche misura, agisce anche in altre specie animali.
Ad esempio presso i polli domestici attivandosi come "ordine di beccata", o presso la famiglia dei cervidi come “ordine di cornata” e così via.

Titolo 6

Costretto, in questa lotta della natura, l'ominide si è trovato a vivere uno strano conflitto in cui aggressività e altruismo, cooperazione e repulsione attirandosi e respingendosi allo stesso tempo, hanno dato luogo ad uno stato di natura, tanto fisico che mentale, lontano sia da un ordine immutabile e statico, dettato dal puro raziocinio, sia dal disordine incontrollabile del caos animalesco primordiale. E' barcamenandosi intorno a questa condizione, in lotta fra il caos primordiale e il piano emergente di vita di specie, che si è andata formando la primordiale rete relazionare umana intrecciata su piccoli nodi stretti intorno a esigui ed isolati raggruppamenti umani.
Ma è proprio da questo conflitto, da questa instabilità, che si è snodato il filo della vita, lungo un tratto nel quale, se l'aggressività individuale si espandeva troppo finiva per prendere il sopravvento, facendo cadere il sistema nell'incoerenza animalesca. Viceversa, se si ritraeva oltre un certo margine, rovinava comunque nella dissoluzione. Insomma, se il conflitto eccedeva da una parte o dall'altra l'intero sistema crollava.
E' stato proprio questo stato di equilibrio instabile, puntellato da esibizioni muscolose e fughe precipitose, a formare la strettoia attraverso la quale la natura ha costretto gli uomini ad imboccare la strada di una superiore complessità, obbligando il sistema di relazioni ad assumere, nel tempo, una propria coerenza sociale interna, senza utilizzare la forza.
L'animale uomo – scrive Bordiga – comincia a descrivere il suo ciclo non certo uniforme e continuo né privo di crisi e di ritorni, ma nel senso generale inarrestabile, dal primo stato di libertà individuale illimitata, di autonomia totale del singolo, alla soggezione sempre più estesa ad una rete sempre più fitta di vincoli che prendono il carattere e il nome di ordine, di autorità, di diritto”.
Il singolo, sottoposto al flusso continuo di furiose pressioni da parte degli altri componenti il gruppo è costretto ad una continua vigilanza per schivarne le minacce ma, nello stesso tempo, impara a valutare i comportamenti e a   prefigurarne le future intenzioni in modo da poterle prevenirle adattando un comportano adeguato.
Immaginare per prevenire i comportamenti altrui appare oggi un esercizio di poco conto mentre ha dovuto essere un passaggio mentale enorme, che è servito a ridurre il comportamento ereditario dalle antropomorfe a elementi semplici tali da poterli prevedere. Deve essere stato in questo gioco complesso di concatenazioni comportamentali che gli ominidi hanno imparato a calcolare il grado di relazione fra una causa agente e il suo effetto immediato, imparando a intervenire consapevolmente in modo da far corrispondere l'azione allo scopo voluto.
Riuscire ad immedesimarsi nelle intenzioni altrui ha dovuto comportare uno sforzo mentale notevole, risultato di una lunga pratica che ha permesso di imparare a pianificare strategie di interazione con gli altri che non si esaurissero nel semplice ed immediato messaggio di forza. Questa capacità di sviluppare interazioni sociali finalizzate ad uno scopo, sono state riscontrare anche nei primati, solo che in essi si attiva solo per ristabilite la pace fra individui in seguito ad uno scontro violento. Gli scimpanzé, ad esempio, si comportano come se conoscessero il significato della riconciliazione, ma la loro complessità cognitiva si esaurisce nel segno della pace e non va oltre. Gli ominidi, invece, per stare al gioco nel complesso intreccio fra istinto e raziocinio, sono stati indotti ad acquisire la capacità di usare mezzi migliori che la sola forza muscolare per raggiungere i propri scopi.
Possiamo azzardare che probabilmente, in questo gioco di sopravvivenza, la materia grigia dei singoli, costretti a costruire in fretta complessi scenari mentali di rapporti personali futuri, ha dovuta adeguarsi costruendo nuove interazioni neurali, che a loro volta hanno dato luogo a una sfera di relazioni e di influenze che nel mondo delle scimmie antropomorfe erano appena abbozzate.
L'individuo, costretto a rispettare determinate regole, a poco a poco ha appreso a condividerle senza che nessun atto di forza lo costringesse a farlo. Segno che l'attività collettiva si era fatta abbastanza potente da orientare spontaneamente i componenti il gruppo verso una condivisione che alimentava reciproca complicità. L'attività collettiva li aveva predisposti alla fiducia e all'altruismo rinserrando vincoli duraturi di solidarietà (lavoro).
A differenza delle altre specie animale, dove ogni esemplare viene al mondo per così dire “completo” già formato come individuo che non deve imparare nulla dall'ambiente ne dall'esperienza, in quanto la sua abilità nasce e muore con lui. L'ape sa già come costruire la sua celletta, il ragno sa tessere la rete e il castoro ha già impresso nella mente il modello per costruire la diga.
Negli ominidi la predisposizione biologica non arrivava a tanto e da sola non è sufficiente a garantirne l'esistenza. Non potendo subire passivamente le circostanze hanno dovuto interagire fra di loro e con la natura, trasformando entrambi per poter sopravvivere. In questa interazione hanno imparato, in un processo non certo piano e lineare, a conoscere se stessi e il loro ambiente in relazione allo sviluppo delle “vie associative” cervello compreso.  È solo operando in relazione con gli altri e in lotta con l'ambiente che il singolo ha potuto faticosamente “imparare” a divenire da individuo sociale a individuo umano.

Titolo 7

In una prospettiva ampia, ciò che prende avvio nella preistoria è l'ascendere della materia vivente a materia razionale, di cui l'uomo costituisce il tramite.  Un avvio che possiamo far risalire a circa 2- 2,5 milioni di anni fa, a Homo habilis, il primo fabbricante di strumenti. Un’attività di quel periodo consisteva nello spolpare carcasse o prede appena uccise da altri predatori. Si trattava di un esercizio che proietta gli ominidi da un rapporto immediato con la natura a quello di produttore di primitivi strumenti necessari a lacerare i tessuti rimasti sulla carcassa o se troppo spolpata a frantumare le ossa lunghe per estrarre il midollo.
Poco importa se, secondo alcuni antropologi, dopo queste escursioni nella savana alla ricerca di carogne questi ominidi, che ancora non conoscevano l'utilizzo del fuoco, tornavano a rifugiarsi sugli alberi per trascorrere la notte al sicuro. Quello che conta e che, anche se si trattava di operazioni semplici, che richiedevano una tecnica primitiva, lo scheggiare una pietra fino a ricavarne un bordo tagliente (choppers) rappresentava comunque un primo passo decisivo verso la condizione umana. >
Il ritorno di Erostrato dal 1978
Possiamo ipotizzare che questa fase di “ordine di beccata” si sia prolungata in un tempo lunghissimo, forse fino a quando compare un nuovo e formidabile strumento: il bifacciale. Una grossa pietra a forma di mandorla, accuratamente scheggiata su entrambi le facce allo scopo di ottenere una forma simmetrica. È Il famoso “coltello multiuso del paleolitico”, che costituisce una preziosa indicazione di come i rapporti fra gli ominidi avessero assunto caratteristiche nuove. La cooperazione, di quelli che ormai stavano diventando abili cacciatori, era probabilmente divenuta talmente potente da annullare definitivamente l'”ordine di beccata”. La presa della selezione individuale aveva perso decisamente terreno a vantaggio degli insegnamenti appresi collettivamente.
 É un salto ulteriore in cui l'umanità non si limita più solo a fabbricare frammenti di pietra da dedicare al consumo immediato di carcasse. Producendo un'utensile come il bifacciale, la cui multifunzionalità lo fa ritenere uno strumento fabbricato per fabbricare ulteriori strumenti, come il coltello, l'ascia o la lancia, si proietta in una nuova prospettiva che corrisponde alla prima caratteristica che definisce compiutamente la specie umana e cioè: fabbricare utensili con altri utensili, con i quali organizzare la produzione di ulteriori utensili.  Si cominciano a progettare scadenze future e quindi in una qualche misura a rovesciare la prassi.
 l'accuratezza con cui vengono fabbricati i nuovi manufatti, passati in modo significativo dallo scopo di riprodurre un singolo attributo, un margine tagliente senza interesse per la forma, al bifacciale, che ha invece molteplici usi, è che è palesemente costruito seguendo una morfologia simmetria secondo uno schema standardizzato, il cui impiego per tagliare, raschiare, e squartare ne fa uno strumento di largo uso, sembra suggerire che la nuova tecnologia rispecchi una maggiore e più intensa collaborazione, una maggiore concordia e un affermazione compiuta del senso comunitario.

Titolo 8

La caccia ha contribuito a rinsaldare i legami sociali, adattando il singolo a vivere interiorizzando e rispettando regole e norme senza bisogno di mediazioni o interventi aggressivi: il senso soggettivo si è completato in senso collettivo. L'attività cooperativa si è fatta ormai abbastanza potente da orientare naturalmente tutti i componenti il gruppo verso una forma di condivisione che presuppone armonia e complicità reciproca fra gli uomini. Nessuno ha più interesse a sottrarsi alle regole comunitarie, e comunque, chi volesse farlo, sospinto dalla primigenia animalità, sa di dover ingaggiare una sfida non più contro un singolo individuo ma con tutti gli altri componenti il gruppo coalizzati e più forti di lui. Sa che da solo, scacciato dal gruppo, non avrebbe nessuna possibilità di sopravvivere.
Le regole ormai sono dettate dal lavoro comune e dal modo di collaborazione che richiede, a cui nessuno ha più interesse a sottrarsi e vi si adatta spontaneamente.
“Il senso generale dell'evoluzione è quello di rendere statisticamente meno frequenti i casi in cui la violenza tra uomo e uomo viene consumata nella forma cinetica, con la lotta, la sanzione corporale, l'esecuzione capitale, ma nello stesso tempo di rendere più frequenti in raddoppiata ragione i casi in cui la disposizione autoritaria viene eseguita senza resistenza poiché l'oggetto di essa sa, per esperienza, che non gli conviene sottrarvisi”, spiega Bordiga.
Tuttavia per quanto una tale risultato, basato su relazioni di tipo comuniste, fosse diventata una caratteristica umana universale, il tempo e il luogo della sua realizzazione presentavano tratti parziali e limitati, circoscritti com'erano alla tecnica produttiva venatoria e alla raccolta dei vegetali, attività esercitabile  esclusivamente all'interno di ristrette  e mobili cerchie familiare Una struttura comunitaria che mentre risultava un approccio sociale grandioso e potente, scontava economicamente, nello stesso tempo, limiti locali e storici tali da formare un tutto frammentato caotico e disperso.
A queste prime aggregazioni comunistiche non era permesso domiciliare a lungo nello stesso luogo, altrimenti non avrebbero dato il tempo ad animali e frutti di riprodursi e maturare, dovevano restare gruppi esigui per potersi spostarsi alla ricerca o all'inseguimento di sempre nuove fonti alimentari.
Che cosa accadeva se in questi spostamenti due diverse comunità si incrociavano, contendendosi gli stessi territori di caccia e raccolta?
Alcuni studiosi sostengono che in tal caso uno dei due gruppi poteva spostarsi altrove evitando il conflitto e, forse, in qualche eccezione, l'abbandono volontario può avere rappresentato una soluzione. Ma, in generale, è difficile pensare che una comunità potesse abbandonare volontariamente il proprio sistema di sopravvivenza per incamminarsi verso un esilio ignoto e minaccioso piuttosto che combattere armi alla mano. E' plausibile che lungo il paleolitico, quando due comunità entravano in contatto, scaturisse, il più delle volte, un conflitto sanguinoso il cui esito, generalmente, consisteva nell'annientamento indiscriminato di tutti i componenti la comunità che aveva la peggio.
Non perché la natura umana fosse malvagia, ma perché, non esistendo servitù personale, i prigionieri di guerra erano un ingombro, e non restava altra soluzione che eliminarli tutti. Uno sguardo sul mondo delle società cacciatrici-raccoglitrici che ancora sopravvivevano a centinaia in Australia negli anni '40, del secolo scorso, ci mostra società in conflitto permanente fra di loro. Un antropologo Gerard Wheeler, descriveva ad inizio secolo questi conflitti in questo modo:” «Nelle azioni di guerra, una procedura comune consiste nell’avvicinarsi di soppiatto all’accampamento nemico nel cuore della notte e circondarlo alle prime luci dell’alba. A quel punto, con un grido, inizia la carneficina».
Un comportamento che molto probabilmente seguiva le regole generali di interazione tra una comunità e l'altra almeno fino alla comparsa dell'agricoltura.
Non deve sorprenderci se, in mancanza di territori abbondanti di risorse e con una tecnica produttiva primitiva, la lotta, superato il primo ostacolo, che era consistito nello spingere il singolo a condividere spontaneamente le norme sociali, si svolge ad un livello superiore allo scopo di distribuire gli esseri umani nello spazio vitale disponibile al fine di evitarne l'estinzione derivabile da una sovrappopolazione incontrollabile.
Per sostenersi, al fine di preservare un equilibrio fra le risorse disponibili nel territorio e un numero limitato dei cacciatori-raccoglitori che l'abitavano, la lotta intra-specie si mostrava un mezzo necessario da perseguire fino in fondo senza apparire una serie indiscriminata di atti crudeli e casuali, come comunemente viene accreditato.
Così, mentre il comunismo originario innalzava gli ominidi a picchi di solidarietà mai visti, le necessità alimentari e le scarse risorse tecniche li respingeva in basso, costringendoli, per sopravvivere a blindarsi, per più di un milione di anni, in agguerrite comunità organiche senza violenza interna, ma separate ed isolate fra di loro. La natura umana si è così modellata integrando fiducia e solidarietà, nei confronti di ciò che ci sta intorno che conosciamo bene, congiuntamente al senso di diffidente ostilità su quanto si presenta estraneo ed ignoto.
La violenza, quindi, al contrario di quanto sostengono borghesi e pacifisti di ogni   risma, non agisce in alternativa al vivere “civile”, non è una deviazione patologica del senso comune. Violenza e cultura costituiscono un intreccio inestricabile, tanto da formare il “sistema nervoso” del corpo sociale, simile, per molti versi, a quello biologico nel trasmettere segnali edificanti o inibitori, provenienti dall'istinto e dall'ambiente esterno, allo scopo di inquadrare, intorno ad una media compatibile, il comportamento umano in una rete di relazioni predefinite.
Secondo le parole di Marx, la violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova, è lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte.

Titolo 9

Accecati dal bagliore della furia distruttrice dell'incendio tendiamo ad attribuirgli un esclusivo carattere devastante ma non è sempre così. Certi incendi nei boschi sono indispensabili e addirittura insostituibili alla riproduzione della vita.
Vi sono esemplari di alberi in cui le scaglie delle pigne sono praticamente sigillate da una grande quantità di resina che solo temperature intorno ai 65° riescono a liquefare liberando i semi che continuano ad essere germinativi. Incendi di questo genere la natura li provoca spontaneamente ogni 80-200 anni: quando si sviluppano la maggior parte degli alberi muore, ma le pigne si aprono e le ceneri degli alberi bruciati fanno da fertilizzante e in qualche decennio la foresta rinasce.
Avvenimenti con queste caratteristiche sono innumerevoli e dimostrano come l’intreccio tra forza, impulso vitale e violenza è potente e inestricabile, denotano che in natura tutto ciò che è vitale contiene sempre un elemento di forza, di energia, di vigore che lo rende più adatto a vivere, ad adattarsi al mondo naturale.
Lo stesso criterio vige nella società; anche qui, la violenza agisce come strumento di rinnovamento indispensabile di ogni risultato umano. Pur non essendo partigiani della violenza sempre e in ogni caso, i comunisti rivoluzionari sanno bene che qualsiasi cambiamento è ostacolato dall'inerzia dell'ambiente e il rinnovamento non può realizzarsi se non attraverso uno sforzo tanto più violento tanto più intensa è la resistenza esercitata.
L'uso della forza da parte del proletariato non solo è legittimato dal fatto ovvio che la borghesia non rinuncerà mai volontariamente a sgombrare il campo dai suoi privilegi economici e sociali, ma anche in quanto la violenza rivoluzionaria è il solo mezzo pratico con il quale la classe dominata può scrollarsi di dosso l'enorme forza d'inerzia esercitata su di essa dalle vecchie, tenaci e secolari categorie borghesi.
“La liberazione delle coscienze dagli ammassi delle vecchie superstizioni non è affare di educazionismo propagandistico ma soprattutto di forza. La violenza non solo è un agente economico, ma un professore di filosofia”, leggiamo in Marxismo e persona umana.
Riassumendo possiamo reputare il ruolo della violenza nella storia come una costante, che in forme e in misura diverse, svolge una funzione di “propedeutica sociale”. Dall'iniziale “ordine di beccata” sugli ominidi ha fiancheggiato, lungo i corridoi del tempo, un processo preparatorio che consiste nel sottrarre con la forza l'individuo dal suo isolamento, per così dire “istruendolo” ad assumere un comportamento sempre più collaborativo e solidale.
Un percorso che tra tentennamenti, rinculi e brusche accelerazioni raggiunge un culmine e la sua conclusione nell'epoca moderna, quella caratterizzata dal trapasso dal regime capitalista alla forma sociale comunista.  In effetti, con l'intervento del partito l'uso della forza nelle questioni sociali assume un carattere consapevole e una conseguente dissoluzione non appena lo scopo prefissato: la società senza classi è stato realizzato.
Quella comunista è l'ultima lotta che gli uomini conducono contro se stessi, in quanto essa, trascendendo il singolo e la sua essenza privata, si trasforma immediatamente in una gara di solidarietà sostenuta dall'energia e dall'entusiasmo collettivo di classe. Ogni lotta è sempre il risultato di profonde insoddisfazioni sociali, nella nostra epoca però essa trasforma le insoddisfazioni e le sofferenze individuali in gioia collettiva, facendo in modo che ognuno mentre lotta per se sa che combatte nello stesso tempo per tutti, anche se non ha ben definito l'orientamento di pensiero.
Lo stesso strumento di lotta immediata da semplice mezzo organizzativo, per difendere gli interessi individuali, diventa un fine in se per la cui difesa vengono sacrificati persino gli interessi individuali per il quale era spontaneamente sorto.
Ci sono ragioni a sufficienza affinché il partito della rivoluzione debba rompere radicalmente con ogni legalismo borghese, senza dissimulare i propri scopi eversivi, rivendicando apertamente l'uso della forza, e pianificando, al momento favorevole, la guerra di classe e la violenza dittatoriale fra lo scandalo di pacifisti e ideologi borghesi.

Titolo 10

Abbiamo detto che il militante può agire anche prima di avere un preciso orientamento di pensiero. Ciò è possibile perché è permeato dall'ineludibile sentimento dell'odio di classe, senza il quale non combatterebbe la borghesia armi alla mano.
Bordiga argomenta bene come l'oggetto di odio “non è un agglomerato gaudente di persone, bensì una potenza mondiale che forma ostacolo alla vittoria del partito rivoluzionario e quindi alla luce e alla gioia per tutti nella società comunista futura”. Argomenta, con un passaggio storico di grande potenza, che vede l'odio generatore di gioia, e la guerra di classe generatrice di serena pace futura.
Approfondendo l'argomento si evince bene come la guerra di classe non si riassume tutta in un’azione politica per abbattere lo stato borghese, ma come essa si prolunga in una percezione fisica e di sentimento che invade i militanti e che tende a rompere l'immobilismo millenario costituito da contrapposizioni considerate eterne, stabili ed assolute.
Contrapposizioni come singolo-collettivo, sofferenza-gioia, pace-guerra si dissolvono rapidamente nel corso della lotta, dove le sofferenze di ognuno diventano gioia nell'azione di tutti, alla luce di aspirazioni di cui tutti percepiscono i futuri vantaggi. Insomma la lotta comunista contemporaneamente al potere della borghesia dissolve anche antiche e persistenti dicotomie di pensiero.
“Quando voglio sollevare un peso, fare uno sforzo per raggiungere un risultato, quando per esempio voglio avere la gioia, il puro godimento di un’escursione in alta montagna, di un sesto grado affrontato col tormento delle membra, io soffro per ottenere quel risultato. Ogni risultato si ottiene soffrendo. La mia azione non è il cammino verso la gioia, né il cammino per evitare il dolore: è il cammino per avere una combinazione razionale, naturale ed umana di gioia e di dolore, perché il rapporto dell'uomo con la natura considera questi due elementi inseparabili”.
È come se all'improvviso la somma di tutte le aspirazioni alla felicità, alla solidarietà si risvegliassero contemporaneamente e nella durezza della lotta dissolvessero contrapposizioni ideologiche che non hanno corrispondenza nella rivolta sociale.
 Sciogliendo il dualismo sofferenza-gioia, conflitto e cooperazione, la rivoluzione comunista renderà inutile il fattore violenza nella regolamentazione futura dei rapporti fra gli uomini. Rendendo il conflitto, per la prima volta nella storia, un elemento inessenziale allo sviluppo sociale, il quale regolato consapevolmente si risolverà unicamente negli scambi organici con la natura.
Le forze d'inerzia a futuri cambiamenti sociali, se ce ne saranno, verranno attentamente vagliati e valutati preventivamente secondo i consigli, le elaborazioni e le direttive scientifiche elaborate dal partito. Il quale venuta meno la sua funzione politica con l'estinzione degli antagonismi di classe, avrà assunto i connotati di un organismo che rappresenta e coordina la prassi divenuta razionale della specie umana. Nel senso di salvaguardare la continuità spostando ad un gradino superiore la lotta. Quella diretta a prevenire disastri naturali, cambiamenti climatici e epidemie, attraverso tentativi di sintonia, di elaborazioni progettuali, di valutazione degli impatti dell'azione umana sulla natura.

Titolo 11

Abbiamo iniziato il nostro viaggio della lotta della natura con se stessa a partire da qualche milione di anni fa. Ovviamente è un inizio arbitrario. Essa può benissimo cominciare con la formazione delle sostanze chimiche semplici che miliardi di anni fa si unirono a formare modelli molecolari complessi, generando prima le cellule, poi gli animali, i mammiferi, i primati, le grandi scimmie, lungo un processo filogenetico nel quale la materia ha trasformato continuamente se stessa per formare infine, con gli ominidi, un materiale da modellare per trasformare ulteriormente se stessa ad un livello “superiore”.
Ovviamente siamo in presenza di una trasformazione perenne della materia che non ha un termine. Ma, questo processo incessante, con la formazione della materia vivente umana, perviene ad un apice e a un nuovo cominciamento. Attraverso l'uomo, la materia ha dato inizio a un processo di consapevolezza di se stessa (Élisée Reclus), che con l'avvento del comunismo svolgerà in modo appropriato essendosi dotata anche di un proprio organo di senso: il partito di specie. Il quale sviluppando vasti progetti di intervento organico sulla biosfera o sulla specie stessa, li configurerà come controllo e salvaguardia dei processi evolutivi.
Il vero salto dal regno della necessità a quello della libertà, cioè la possibilità per gli uomini di capovolgere la prassi, non è tanto quello che compie l'uomo nei riguardi della società, ma quello che realizza la specie umana rispetto alla natura. E ciò avviene nel momento stesso in cui il partito diviene parte attiva e soggetto conoscente del reale processo di umanizzazione della materia.
Diventa chiara la prospettiva indicata da Marx secondo cui “l'intera storia è storia di preparazione affinché l'”uomo” divenga oggetto della coscienza sensibile e il bisogno dell'uomo come uomo divenga bisogno. La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della umanizzazione della natura”. 
NB – Non repertato il documento cartaceo della bozza realmente utilizzata dai relatori nel corso dell’evento. In sostituzione Cfr. video della manifestazione conservato in Archivio Videosorveglianza Circondariale / Attività Culturali e sportive | Incontri Relazionali domenica 6 dicembre 2020
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[1] . N.d.R. – Unico documento cartaceo precedente la traccia, non pervenuta, realmente utilizzata dai relatori nel corso dell’evento. Al riguardo cfr. video dell’evento in Archivio di Videosorveglianza Circondariale / Attività Culturali e sportive | Incontri Relazionali domenica 6 dicembre 2020.



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