IL LIBRO DELLE MACCHINE

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Samuel Butler . 1872
arteideologia raccolta supplementi
made n.19 Giugno 2020
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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EREWHON . Oltre i limiti . Capitolo XXIV.1

[...] Il signor Thims mi condusse in casa di un signore noto per la sua grande cultura, ma, a sentire il signor Thims, anche piuttosto pericoloso, in quanto aveva cercato di introdurre un nuovo avverbio nel linguaggio ipotetico. Costui, che godeva fama di essere il più dotto specialista di Erewhon nel campo dell’antica meccanica, aveva sentito parlare del mio orologio e voleva assolutamente conoscermi. Il discorso cadde sul suo argomento preferito, e quando mi congedai mi regalò una ristampa dell’opera che aveva provocato la rivoluzione.
Questa era scoppiata circa cinquecento anni prima del mio arrivo; da tempo, ormai, la gente si era adattata al nuovo stato di cose, benché all’epoca in cui essa si ebbe il paese fosse caduto nella più nera miseria, e la reazione che ne era seguita per poco non avesse preso il sopravvento. La guerra civile infuriò per anni, e si dice che la popolazione si riducesse della metà. I due partiti avversi erano denominati macchinisti e antimacchinisti: da ultimo, come ho detto, gli antimacchinisti ebbero la meglio, e trattarono i loro nemici con tale inaudita ferocia da estirpare radicalmente ogni opposizione.
Tuttavia, cosa strana, permisero che alcuni strumenti meccanici restassero in uso. Merito, immagino, dei professori di Ambiguità e di Evasività i quali fecero di tutto per impedire che i nuovi princìpi venissero applicati fino alle loro legittime conclusioni. Questi professori insistettero anche perché gli antimacchinisti adoprassero nella lotta tutti i mezzi più perfezionati dell’arte bellica; e durante quella guerra furono inventate molte nuove armi di offesa e di difesa. Mi stupii al vedere tutti gli esemplari di macchine conservati nei musei e allo scoprire che gli studiosi erano riusciti a ricostruirne con esattezza il funzionamento. All’epoca della rivoluzione, infatti, i vincitori avevano distrutto tutte le macchine più complicate, bruciato tutti i trattati di meccanica e tutte le officine, decisi a estirpare il male fino alle radici, anche a prezzo di tante vite umane e di tanto denaro buttato al vento.
Certo, essi non avevano risparmiato i loro sforzi, ma un’opera così immane non può mai essere realizzata alla perfezione; e quando, circa duecento anni prima del mio arrivo, placate ormai le passioni, nessuno, tranne un pazzo, si sarebbe sognato di ripristinare le invenzioni proibite, le macchine divennero un appassionante soggetto di studi archeologici, come per noi certi costumi religiosi da tempo dimenticati. Allora iniziò l’accurata ricerca di ogni frammento esistente e di ogni macchina che potesse esser stata nascosta durante la guerra civile, e vennero scritti innumerevoli trattati per spiegare il possibile uso di ogni ordigno riportato alla luce, e ciò non con l’intento di rimettere quell’ordigno in funzione, ma con il sentimento che prova ad esempio un archeologo inglese di fronte a un monumento druidico o a una punta di freccia intagliata nel sasso.
Tornato alla capitale, durante le ultime settimane o meglio gli ultimi giorni del mio soggiorno in Erewhon, scrissi in inglese un resumé dell’opera che aveva provocato la famosa rivoluzione.
La mia ignoranza dei termini tecnici mi ha portato probabilmente a commettere parecchi errori, e qua e là, quando qualcosa mi è parso intraducibile, ho semplicemente sostituito nomi e idee inglesi ai nomi e alle idee erewhoniane. Ma in linea generale, il lettore può contare sulla mia accuratezza. Ritengo che la cosa migliore sia di inserire qui il mio lavoro.

CAPITOLO XXIII

L’autore comincia così:

« Vi fu un tempo in cui la terra, almeno per quel che ne sappiamo, mancava compieta- mente di vita vegetale e animale e, a detta dei nostri migliori filosofi, era solo una sfera incandescente coperta da una crosta che andava gradatamente raffreddandosi. Ora, se a quell’epoca fosse esistito un essere umano che, sprovvisto di ogni nozione scientifica, avesse potuto vedere la terra come un qualsiasi altro mondo a lui completamente estraneo, non gli sarebbe forse parso impossibile che da quella specie di tizzone ardente potessero nascere e svilupparsi creature dotate di una qualche sorta di coscienza? Non avrebbe egli negato che potesse contenere un germe qualsiasi di coscienza? Eppure, col volgere dei millenni, la coscienza apparve. Perché, allora, non esisterebbero nuove strade attraverso cui essa giungerà a manifestarsi, anche se per ora quelle strade sono invisibili ai nostri occhi?
« E ancora. Se la coscienza, in tutte le accezioni attuali del termine, si è manifestata a un certo punto come cosa nuova e, per quanto ci è dato sapere, posteriore persino alla comparsa di un centro individuale di azione e di un sistema riproduttivo (quali vediamo esistere nelle piante anche in assenza di coscienza apparente), perché non potrebbe prodursi una nuova fase dell’intelligenza tanto diversa da tutte le fasi finora conosciute quanto l’intelligenza degli animali è diversa da quella dei vegetali?
« Sarebbe assurdo tentare di definire un tale stato spirituale (o comunque lo si voglia chiamare) in quanto è così estraneo all’uomo che la sua esperienza non può aiutarlo in alcun modo a concepirlo. Ma certo, quando pensiamo alle molteplici fasi attraverso cui la vita e la coscienza si sono evolute fino ad oggi, non possiamo affermare con sicurezza che non possano prodursene altre, né che la vita animale sia il limite estremo di tutte le cose. C’era un tempo in cui il limite di tutte le cose era il fuoco, e un tempo in cui lo erano l’acqua e le rocce
.».

Dopo aver dissertato per diverse pagine su questo argomento, l’autore passa a chiedersi se oggi si possano scorgere segni precursori di questa nuova fase di vita; se si notino circostanze ambientali che potranno, in un lontano futuro, favorirne lo sviluppo: se, in pratica, oggi, sulla terra, si possa rintracciare la cellula primordiale che la produrrà. Nel suo trattato egli risponde a questo interrogativo affermativamente, e indica come corrispondenti di quella cellula le macchine più perfezionate.

« Il fatto che attualmente le macchine posseggano ben poca coscienza, non ci autorizza affatto » cito le sue parole « a ritenere che la coscienza meccanica non raggiungerà col tempo il massimo sviluppo. Un mollusco non possiede gran che di coscienza. Pensate alla straordinaria evoluzione delle macchine in questi ultimi secoli, e osservate con quale lentezza progrediscono il regno vegetale e quello animale. Le macchine più altamente organizzate sono creature non di ieri, ma addirittura degli ultimi cinque minuti, oserei dire, di fronte alla storia dell’universo. Supponiamo che gli esseri coscienti esistano da venti, venticinque milioni di anni: guardate quali passi da gigante hanno fatto le macchine nell’ultimo millennio! Il mondo non può forse durare altri venti milioni di anni? Ma se dura altri venti milioni di anni, che cosa finiranno per diventare le macchine? Non è più prudente distruggere il male all’inizio e impedire loro di progredire ulteriormente?
«Chi può dire che la macchina a vapore non possieda una qualche sorta di coscienza? Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissare il limite? Chi può fissare un qualsiasi limite? Non sono forse le cose intessute tutte l’una nell’altra? E le macchine non sono legate in mille modi alla vita animale? Il guscio di un uovo è fatto di una materia bianca e fragile, e rappresenta a suo modo una macchina non meno di un portauovo; il guscio è uno strumento per contenere l’uovo come il portauovo è uno strumento per contenere il guscio: sono entrambi fasi della stessa funzione; la gallina fabbrica il guscio dentro di sé, ma ciò non toglie che il guscio sia un semplice recipiente. La gallina si fabbrica il nido all’esterno per ragioni di comodità, ma anche il nido è una macchina né più né meno del guscio. Una “macchina” è soltanto uno “strumento”
.».

Poi, tornando alla coscienza, e tentando di scoprirne le prime manifestazioni, l’autore prosegue:

« Esiste una pianta che si nutre di materie organiche per mezzo dei propri fiori; quando una mosca si posa sul calice i petali si chiudono e la rinserrano finché la pianta non l’ha divorata e assimilata; ma quegli stessi petali imprigionano soltanto ciò che può nutrirli. Di una goccia di pioggia o di una scheggia di legno non fanno alcun caso. Curioso: una cosa tanto incosciente sa distinguere tanto bene il proprio utile! Se questa è incoscienza dov’è che c’è la coscienza?
« Dovremmo dire che la pianta non sa quello che sta facendo semplicemente perché non ha occhi, orecchi e cervello? Se diciamo che agisce meccanicamente, e solo meccanicamente, non saremmo costretti ad ammettere che anche molte altre azioni, apparentemente deliberate, sono meccaniche? Se a noi sembra che la pianta uccida o mangi la mosca meccanicamente, perché alla pianta non può sembrare che l’uomo uccida e mangi meccanicamente l’agnello?
« Ma si potrà dire che la pianta è priva di ragione, perché la sua crescita è involontaria. In determinate circostanze ambientali della terra, dell’aria, e a una certa temperatura, la pianta deve crescere: è come un orologio, che una volta caricato continua a funzionare finché non si esaurisce la carica o non viene arrestato da cause esterne; è come la nave, che quando il vento soffia e gonfia le vele è costretta a solcare il mare.
Ma un ragazzo sano può forse fare a meno di crescere, quando mangia, beve, ed è ben coperto?
Esiste qualcosa che può fare a meno di procedere finché dura la propria carica, o di fermarsi quando essa si esaurisce? Non scorgiamo in ogni cosa una molla, come nell’orologio? >

Il lavoro di Erostrato
« Persino una patata in una cantina buia possiede una sua bassa astuzia che sfrutta a dovere. Conosce perfettamente il suo scopo, e come realizzarlo. Sente la luce entrare dalla finestra e protende verso di lei i suoi germogli; eccoli strisciare raso terra, arrampicarsi su, lungo il muro, fino al davanzale, e fuori della finestra. Se da qualche parte, lungo il percorso, c’è un po’ di terra, la pianta riesce a rintracciarla e ad adoprarla per i suoi fini. Quali attente riflessioni essa faccia una volta piantata nella terra per dirigere le sue radici, lo ignoriamo, ma possiamo immaginarla tutta intenta a ragionare più o meno così: “Metterò un tubero in questo punto e un altro un poco più in là, in modo da assorbire ciò che mi serve fra quanto mi circonda. Questa pianta vicina la soffocherò con la mia ombra, e quest’altra la scalzerò alle radici; e ciò che potrò fare sarà il limite di ciò che farò. Chi è più forte di me ed è meglio situato mi vincerà, mentre chi è più debole io lo vincerò”.

« La patata esprime tutto ciò nel farlo. Non è forse questo il migliore dei linguaggi? Che cos’è la coscienza se questa non è coscienza? Non ci riesce facile simpatizzare con le emozioni di una patata o con quelle di un’ostrica, perché la patata non fa chiasso quando la lessano, come non fa chiasso l’ostrica quando viene aperta: mentre nulla per noi è più eloquente del chiasso; ne facciamo tanto sulle nostre sofferenze! E siccome ostriche e patate non ci infastidiscono con manifestazioni di dolore, pretendiamo che non sentano nulla. Ed effettivamente non sentono nulla dal punto di vista del genere umano: ma il genere umano non è tutto.
« Se poi qualcuno obietta che l’azione della patata è soltanto chimica e meccanica, e dovuta agli effetti chimici e meccanici della luce e del calore, bisognerebbe chiedere, per tutta risposta, se ogni sensazione non è forse un processo chimico e meccanico; se le cose che noi riteniamo puramente spirituali non sono forse mutamenti di equilibrio in una serie infinita di leve, a partire da quelle troppo piccole per essere visibili al microscopio fino ad arrivare al braccio dell’uomo e agli strumenti di cui si serve. Chi ci dice che non esista un movimento molecolare del pensiero da cui si può dedurre una teoria dinamica delle passioni? In altre parole, non dovremmo chiederci di quali specie di leve è composto un uomo invece di domandarci quale sia il suo carattere? In quale equilibrio sono quelle leve? Quanto di questo e di quello ci vorrà per farle funzionare e spingerle a fare così e così?
.».

L’autore proseguiva dicendo che verrà un tempo in cui, esaminando con un potente microscopio anche un solo capello, sarà possibile accertarsi se colui a cui quel capello apparteneva può venire insultato impunemente. Poi il testo diveniva sempre più oscuro, al punto che rinunciai a tentare di tradurlo, perché non riuscivo a seguire il filo dei suoi ragionamenti. Quando, proseguendo la lettura, trovai nuovamente un passaggio intelligibile, mi accorsi che aveva cambiato tattica:

« O si deve riconoscere» continuava «che molti atti finora considerati puramente meccanici e inconsci contengono più elementi di coscienza di quanto si ammetta (e in tal caso germi di coscienza si riscontreranno anche in molte operazioni delle macchine superiori) oppure (accettando la teoria dell’evoluzione ma negando contemporaneamente la coscienza all’azione dei vegetali e dei cristalli) la razza umana discende da esseri assolutamente privi di coscienza. Nel secondo caso non è da escludere a priori che dalle macchine attualmente esistenti discenderanno in avvenire macchine coscienti (e più che coscienti), anche se l’apparente assenza di un sistema riproduttivo nel regno meccanico fa sembrare la cosa improbabile. Quest’assenza, comunque, è solo apparente, e lo dimostrerò.
« Non vorrei che si pensasse, tuttavia, che io abbia paura delle macchine attualmente esistenti. Probabilmente tutte le macchine conosciute sono solo prototipi della vita meccanica futura. Rispetto alle macchine dell’avvenire quelle di oggi sono come i primi dinosauri rispetto all’uomo. Le più grandi, con tutta probabilità, si rimpiccioliranno molto. Alcuni dei primi vertebrati avevano proporzioni molto maggiori di quelle ereditate dai loro discendenti, dotati di organismi più perfetti; allo stesso modo che le macchine, a mano a mano che si sviluppano e progrediscono, si riducono di dimensioni.
« Prendete ad esempio l’orologio; osservate il suo meccanismo perfetto, il giuoco intelligente delle minuscole parti che lo compongono; eppure questa piccola creatura è solo un perfezionamento delle ingombranti pendole che l’hanno preceduta, non una degenerazione. Verrà un giorno in cui le pendole, che certo finora non si sono rimpicciolite, verranno soppiantate dall’uso universale dell’orologio: la loro diverrà quindi una specie estinta, come quella degli ittiosauri, mentre l’orologio, che da qualche anno tende a rimpicciolirsi piuttosto che a fare il contrario, rimarrà l’unico tipo sopravvissuto di una razza estinta.
« Ma, per tornare al nostro argomento, nessuna delle macchine attuali, ripeto, mi spaventa. Ciò che mi spaventa è la straordinaria rapidità con cui esse si stanno trasformando in qualcosa di ben diverso da quello che sono oggi. Nessuna specie animale o vegetale ha mai fatto, in passato, simili passi da gigante. Non dobbiamo dunque sorvegliare gelosamente il loro progresso, e arrestarlo finché siamo ancora in tempo? E per far ciò non è forse necessario distruggere le macchine più progredite oggi in uso, anche se si ammette che di per sé esse non costituiscono un pericolo?
« Per ora le macchine ricevono le impressioni attraverso il veicolo dei sensi dell’uomo. Una locomotiva in moto lancia un "grido acuto di allarme per avvertirne un’altra, e costei immediatamente si ritira: ma è attraverso le orecchie del conducente che la voce dell’una ha avvertito l’altra. Senza il conducente la macchina avvertita sarebbe stata sorda al grido di richiamo. Un tempo, certo, sembrò molto improbabile che le macchine apprendessero a manifestare i loro bisogni coi suoni, sia pure attraverso l’orecchio dell’uomo. Non possiamo, dunque, immaginare che verrà un giorno in cui quell’orecchio non sarà più necessario, e le macchine saranno capaci di cogliere il suono grazie alla loro stessa delicata struttura, un giorno in cui il loro linguaggio si sarà evoluto fino a diventare, da strillo animalesco, un discorso complesso come quello umano?
« È possibile che a quell’epoca i bambini imparino il calcolo differenziale (come ora imparano a parlare) dalla madre o dalla nutrice; o che conoscano il linguaggio ipotetico o la regola del tre; ma non è probabile. Non possiamo sperare in un progresso delle capacità intellettuali o fisiche dell’uomo che regga il confronto col molto maggiore sviluppo cui sembrano destinate le macchine. Alcuni potranno dire che l’influenza morale dell’uomo basterà a dominarle: ma non mi sembra prudente contare molto sul senso morale di qualsiasi macchina.
« Fra l’altro, la maggiore gloria delle macchine non potrebbe consistere proprio nella mancanza del tanto vantato dono della parola? “Il silenzio,” ha detto uno scrittore “è una virtù che ci rende graditi ai nostri simili”
.».
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