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. Una nota informa che questo documento è stato inviato alla redazione di un giornale della sinistra in risposta ad un appello circa una sottoscrizione per le armi al MIR cileno, e per conoscenza ai compagni Pietro Z., L.T., Marco O., L.O.R., Vilfredo J., R.R., Augustin A., Andrea M., Ugo R., Kurt L., Inigo E., Henry H., e agli Uffici per la Immaginazione Preventiva (M. Benveduti, T. Catalano, F. Falasca). – Cfr. anche con Cintoli/Stuprò in nømade 15 alla nota 5 –
L'adesione alla sottoscrizione per le armi al MIR cileno di un numeroso gruppo di pittori e scultori con relativa e immancabile presa di posizione, così come è apparsa sulle pagine del vostro giornale, ci sembra studiata ad arte per non urtare la suscettibilità politica o "ideologica" di nessuno. Per poter raccogliere tutti attorno a parolette sostanzialmente borghesi quasi a voler costituire una sorta di farsa da fronte popolare della cultura, come costoro ci hanno abituato da lunga data e per ogni occasione.
Né ci aspettavamo, da questi signori presi a mazzo, posizioni diverse e meno tiepide. Ma la tiepidezza e specialmente la vocazione interclassista che vi si nasconde dietro e la promuove, è quanto di più antiproletario viene prodotto dall'opportunismo e agevolmente smerciato nella lunga fase controrivoluzionaria che il movimento operaio internazionale sta subendo da oltre quattro decenni di dominio imperialista.
Chiunque siano stati i compilatori di questa presa di posizione, e ritenendo sia sempre utile ricordare quanto il Manifesto del Partito Comunista del 1848 enuncia inequivocabilmente rispetto all’atteggiamento dei comunisti nei confronti delle altre posizioni politiche, e cioè: "i comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni", cercheremo di esporre quanto ci preme, sperando di esser chiari pur nella prolissità a cui siamo costretti.
Prima di aderire come pittori i compilatori di questo documento intendono chiarire la loro posizione di classe che li pone in quanto comunisti accanto alla lotta che il proletariato cileno ha intrapreso per difendersi dalla spietata reazione che la propria borghesia nazionale (incapace perfino a portare avanti il proprio programma al punto di rinnegare sé stessa lasciando sottomettere i propri interessi a quelli dell'imperialismo nord americano) gli ha scatenato contro con furia cannibalesca e cieca.
Non sta certamente a noi in prima persona (e specialmente nella veste che solo marginalmente indossiamo per rispondere come "artisti") svolgere un'analisi politica e economica della situazione cilena; questa può spettare solo ad un partito realmente rivoluzionario perché risolverebbe almeno la rivendicazione integrale della visione marxista del corso delle rivoluzioni nei paesi preindustriali, giovani-industriali e ex-coloniali ecc. (cosa da non dimenticare, al proposito, è che il Cile è Stato indipendente e costituzionale da oltre centotrenta anni) nei quali, insieme ad una borghesia poco sviluppata e a un proletariato poco numeroso, accanto a rapporti capitalistici convivono strutture e rapporti arcaici che all'imperialismo fa comodo mantenere così da impedire anche "vie pacifiche" al capitalismo, come riteniamo sia stato il caso del Cile, al di fuori di ogni fantasia politica.
Ma in quanto comunisti rivendichiamo e proclamiamo, ogni volta che ce ne sarà bisogno, le posizioni generali di classe che contraddistinguono da sempre e per sempre i comunisti dagli ideologi piccolo borghesi di ieri, di oggi e di sempre, incapaci perfino a partorire originali idiozie che non siano già state fustigate da oltre un secolo dal comunismo conseguente, cioè rivoluzionario.
Da comunisti non ci siamo mai fatti illusioni sulla democrazia borghese e sul parlamentarismo, sul gioco democratico (o "giogo" democratico?) né tantomeno sui suoi attributi di libertà, uguaglianza, fratellanza ecc. ai quali non riesce neppure, perché non gli è sempre possibile, di tener fede. Su queste paroline hanno riso intere generazioni di comunisti che non vale la pena soffermarcisi. Non rimpiangiamo presunti diritti infranti dalla politica, mai sconfessata, della borghesia mondiale che in Cile si è tolta la maschera per presentarsi nel suo più genuino appetto di dittatura e terrore di classe. Potremmo dire “dalla violenza potenziale alla violenza attiva e operante” contro la classe che sa’ sua irriducibile nemica. La necessità politica della borghesia ci è nota da troppo tempo che non possiamo "indignarci" quando, costretta a svelarsi, presenta sulla scena del mondo il suo vero volto. E lo presenta per due buoni motivi; prima per stroncare sul nascere anche solo riforme di struttura che non gli sono al momento congeniali, sebbene queste cerchino di adeguare la struttura sociale alle mutate condizioni economico-sociali, e in ciò si attesta su posizioni paradossalmente antiborghesi giacché impedisce il superamento di una fase arretrata di capitalismo per favorire quella parte di borghesia legata al capitale nordamericano contro la borghesia autoctona; in secondo luogo ha la funzione di terrorizzare il proletariato mondiale spingendolo alla difesa dello status quo (non dimentichiamo che per il 1975 è prevista la più grossa crisi economica del dopoguerra).
L’azione politica della borghesia quando scende sul terreno controrivoluzionario ci si è andata rivelando fin dal 1848: ci si è andata chiarendo sempre più dal 18 brumaio di Napoleone il piccolo nella repressione dei comunardi parigini (dove due borghesie belligeranti tra di loro si rappacificano senza indugi di fronte alla minaccia della rivoluzione sociale); la fisionomia di questa politica giunge a perfezionare se stessa fino al fascismo italiano e tedesco, con intermezzi che hanno visto il massacro socialdemocratico dei comunisti in tutto il mondo e due macelli mondiali. Il suo aspetto, che tanto sembra toccare i cuori delicati del piccolo borghese e specialmente la sensibilità del suo codazzo di intellettuali e ideologi, è quello, né più né meno, della dittatura della classe borghese che si manifesta direttamente tramite la violenza degli organi del suo Stato.
In questi momenti si solleva immancabilmente il coro degli Uomini di Cultura che condanna la "dittatura in generale”, al di fuori del tempo, tanto astorica quanto a-classistica; il “fascismo” diviene lo spauracchio che si vuole porre davanti al proletariato, che sta per scendere sul terreno della rivoluzione, per indurlo alla difesa della Democrazia “in generale”. In termini più chiari a morire per difendere o ristabilire la forma democratica della dittatura borghese. Con questo non vogliamo sostenere che per il proletariato siano indifferenti le forme che assume il dominio borghese ma ricordare che qualunque sia la veste che occasionalmente è costretto a indossare per difendersi meglio, compito dei comunisti è mettere a nudo il corpo reale del sistema capitalistico affondandovi impietosamente il bisturi affilato della critica di classe - quando altro praticamente gli è precluso da condizioni oggettive - per preparare lo scontro finale che vedrà contrapposte classe contro classe, irriducibilmente. Marx, nell'Ideologia Tedesca scrisse: "Il proletariato non ha bisogno di alcunché se non di un chiarimento critico".
Il borghese difensore della democrazia costituzionale, intesa come solo egli la può intendere, la deve intendere come conquista sociale definitiva e ultima, come il migliore dei mondi possibili, come sistema eterno e giusto (giacché per lui solo è giusto e lo vorrebbe eterno); vede e vuole vedere il proletariato non come classe per sé e in sé ma come classe per la borghesia. Vorrebbe che la ruota della storia girasse a ritroso e riconducesse il proletariato affianco alla borghesia, quasi fosse possibile ripetere le rivoluzioni del XVII, XVIII e XIX secolo. Si tralascia opportunamente il semplice fatto che allora la borghesia si poneva storicamente sul terreno rivoluzionario nella sua lotta contro il sistema feudale e i suoi residui, e in quella sua lotta trovava il proletariato d'allora come proprio naturale alleato non ancora politicamente autonomo; e, dato più importante, che consegue al primo, che ormai il ciclo delle rivoluzioni borghesi si è concluso definitivamente da lunga data, almeno per l'occidente capitalistico, e con il trionfo irreversibile del modo di produzione capitalistico. Con questo alla borghesia non resta che conservarsi in vita, consolidare il suo dominio a livello planetario, sopravvivere a se stessa aiutata in questo dall’illusione riformista che si è data il compito di cullare il proletariato in pacifici paradisi nazionali la cui artificialità ci si va facendo sempre più atrocemente lampante. Ma se lo stramaledetto allucinogeno del riformismo non dovesse più funzionare, l'altra via gli è perfettamente congeniale e da tempo conosciuta, e il Cile ne è testimone: reazione, repressione spietata, dittatura aperta, terrore di classe.
Di fronte a queste, per noi comunisti, semplici verità acquisibili agevolmente dalle vicende della storia moderna, gli intellettuali, siano essi esponenti di una Cultura posta misticamente al di sopra delle classi, siano donchisciotteschi eroi di incruente quanto inconcludenti “battaglie culturali" per i "valori umani", sembrano costituzionalmente incapaci ad assumere posizioni che vadano appena al di là dei limiti angusti della morale piccolo borghese. La dittatura è intesa e condannata come un oltraggio alle virtù indiscutibili della Costituzione, la quale è posta (forse da un Dio imparziale e giusto?) come garante di tutte indistintamente le libertà dei singoli.
Il Fascismo diviene la figurazione storica corrispettiva del bocio infantile: oscuro e tetro, forza metafisica e evento eccezionale, incarnazione del male che con arti occulte scende da una dimensione metastorica e viene a minare il corpo sano della Società Civile e sottrarre ai Liberi Spiriti il Diritto alla Libertà.
La rivendicazione massima a cui questi signori possono giungere è quella di fatto squisitamente borghese del "diritto alla libertà", forse ignorando o volendo ignorare che si può avere diritto ad una cosa senza per questo avere la cosa. Così vivono e vogliono far rivivere la medesima illusione del contadino del secolo scorso che si compiaceva della sua conquista del diritto alla proprietà anche se la terra che amava come sua era zeppa di ipoteche e da lui succhiava lavoro e danaro l'usuraio e l'Imposta.
Tutto questo gran parlare di Costituzione e diritti ci richiama a quanto Marx scrisse in Lotte di classe in Francia:
"il 21 maggio la Montagna pose la pregiudiziale, proponendo la reiezione dell'intero progetto, perché esso violava la Costituzione. Il partito dell'ordine rispose che la Costituzione sarebbesi violata, ove fosse stato necessario; ora però non esservene bisogno; prestandosi la Costituzione a qualsivoglia interpretazione. Agli attacchi selvaggiamente sfrenati di Thiers e Montalembert, la Montagna contrappose un umanesimo decente ed educato. Essa si richiamò al terreno del diritto; il partito dell'ordine richiamò lei al terreno, ove il diritto cresce, alla proprietà borghese."
Nulla è cambiato. Salvo che le paroline sante che allora venivano individuate chiaramente come parole d'ordine della borghesia, vengono ora impunemente fatte proprie dai partiti operai nazionali e dai sindacati interclassisti che hanno abbandonato il terreno della rivoluzione per mettere il proletariato alla coda della borghesia nella difesa delle istituzioni che la borghesia storicamente si è data per mantenere il suo dominio: prima fra tutte lo Stato nazionale, la cui difesa relega irrimediabilmente questi partiti e i suoi ideologi fuori dalla teoria della classe rivoluzionaria e perciò stesso li colloca contro il proletariato.
Il disarmo teorico che il riformismo comporta è al contempo disarmo materiale del proletariato, ed entrambi questi disarmi preludono alla sua sconfitta (politica, teorica e anche fisica) quando la borghesia nazionale decide di farla finita anche con i tentativi di riforma del suo proprio Stato.
Il proletariato ha imparato a proprie spese che il primo dovere del tanto decantato Diritto è di conservare in vita la classe da cui egli stesso direttamente emana, di cui è riflesso determinato e necessario al mantenimento del più importante diritto che questa classe riconosce e da cui prende fiato e vita: il diritto alla proprietà privata, il diritto ad estorcere forza-lavoro, il diritto-dovere al profitto. E questo dovere il Diritto lo esercita, quando occorre, anche contro se stesso: negandosi come diritto legale borghese per difendere "illegalmente" il principio borghese della proprietà privata. Sacrificando la sua veste di giustizia imparziale (nella quale per altro è il primo a non credere) per consolidare o salvare il diritto al plusvalore, la “libertà” nel lavoro salariato, il dominio del Capitale sul Lavoro.
In momenti storici in cui la borghesia vede minacciato in qualche modo il suo dominio, sopprimere i diritti legali che ha dovuto concedere (sia per proprio tornaconto, che sotto le pressioni sociali) è giocoforza.
Ma il terreno dei comunisti, e non è mai stato nascosto ed è criminale nascondere (il Cile ne è prova), non è il terreno del diritto ma il terreno della rivoluzione, come scriveva Marx per le lotte in Germania. E l'unico possibile accesso alla conquista dell'emancipazione del lavoro dal Capitale, per i comunisti passa solo attraverso quel cataclisma storico-sociale che è la rivoluzione che si consolida con la dittatura del proletariato. E dopo e solo dopo che quest’ultima dittatura di una classe sociale avrà cancellato questa marcia società e sarà per sempre eliminato il modo di produzione capitalistico e con esso le classi stesse, si accederà dalla preistorica illusione del "diritto alla libertà" del singolo, allo storico "regno della libertà" della specie.
Se ci siamo dilungati è perché riteniamo necessario distinguerci da quanti, condannando la forma storica della dittatura e della violenza come categorie trascendenti le contingenze storiche e le determinazioni sociali che forgiano queste forme a dispetto dei pii desideri degli uomini di buona e buonissima volontà, non fanno che tirare acqua al mulino della borghesia costringendo il proletariato a muoversi all'interno dell’alveo legalitario borghese e sbarrando con ciò l’unica via che sola gli può permettere di infrangere non soltanto le proprie catene ma quelle di tutte le classi, liberando l’uomo sociale da quell'aborto mostruoso che è il Capitale e che fa il degno paio con lo Stato democratico borghese.
Non possiamo e non vogliamo unirci al coro poco chiaro e squinternato che ad ogni occasione si è pronti ad intonare per innalzare patetiche litanie alle democrazie borghesi e alle gioie idilliache dei loro “diritti civili". Compito dei comunisti nel perdurare di condizioni controrivoluzionarie oggettive, è quello di tracciare e mantenere il confine che li separa dai tardi epigoni del liberalismo borghese, sia pure "radicale" o "libertario individualista", tanto più ammantato da una fraseologia rivoluzionaria che mille e mille volte nei fatti si è dimostrata vuota e micidiale; specialmente ad opera degli intellettuali che continuano ad usare questo gergo come fosse un codice poetico privato, che di questi tempi diviene troppo facilmente redditizio meritandosi furbescamente benevolenze e considerazione. Il giuoco non rischioso vale la candela della sempre perseguita popolarità.
Quanto è successo in Cile purtroppo non ci meraviglia; meraviglia avrebbe sortito piuttosto il contrario. E lo "sdegno morale" dei deboli stomaci degli Uomini di cultura, puzza di pretaglia. I comunisti non si sono mai fatti illusioni in proposito. Sappiamo bene che la borghesia in frangenti storici a lei avversi ha celebrato, e continuerà a celebrare se rimane in vita, i saturnali con il sangue degli operati. Sappiamo bene, e non si deve nascondere al proletariato rivoluzionario che l'unica via che lo conduce a prendere finalmente in pugno i propri destini è via durissima sulla quale moltissimi sono caduti e altri cadranno crivellati dai colpi della barbara furia di sopravvivenza del capitalismo mondiale. Ed è nonostante questo e proprio per questo che riaffermiamo la nostra volontà politica di militanza anche se la rivoluzione ci può apparire allontanata nel tempo dalla controrivoluzione mondiale e dal tradimento dei partiti opportunisti.
Quanto è successo in Cile non sarebbe certamente accaduto se il proletariato cileno andando al potere con la forza avesse con la stessa forza applicato la prima tra le misure rivoluzionarie che sola poteva imporre nell'esercizio di una sua dittatura: disarmo e smobilitazione dell'esercito nazionale, armamento del proletariato rivoluzionario. Ma anche non sarebbe accaduto se il proletariato di tutti i paesi, e specialmente quello delle metropoli degli stati imperialisti, avendo impugnato di nuovo lo storico programma rivoluzionario, si fosse presentato come forza minacciosa, irriducibilmente decisa e pronta ad azzannare le gole delle proprie borghesie nazionali; perché sarebbe bastata soltanto anche la ventilata minaccia di una rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato per dissuadere la codarda borghesia cilena a toccare uno solo di quegli operali che adesso a migliaia massacra impunemente. E' inutile peraltro sottolineare come la borghesia cilena è assolutamente dipendente dalle vicende sociali ed economiche degli altri stati borghesi, e in special modo di quelli occidentali.
Il nostro auspicio, non solo per il proletariato cileno ma per quello mondiale, è che possa finalmente scrollarsi di dosso il giogo dei carrozzoni nazional-comunisti e ritrovare quel programma che non può non battere strade diverse dalle vie nazionali, e che in squarci storici lo ha visto spingere avanti irreversibilmente anche le rivoluzioni borghesi ma per potere immediatamente innestare, sul troncone di queste, la propria rivoluzione. Marx ha scritto più volte che il proletariato o e rivoluzionario o non e nulla.
Tutto questo sappiamo e lo gettiamo in faccia a quanti si arrabattano a maneggiare per il proprio tornaconto l'occasione di una sconfitta (la quale è in realtà lampante sconfitta dell'opportunismo riformista e gradualista) dalla cui lezione se ne vuol trarre a forza l'esatto opposto: più democrazia. Tradotto in termini più chiari questo significa più libertà alla reazione di organizzarsi. Perché, in Cile ne ha avuta poca? Ma forse si parla di lotta di classe e si pensa a battaglie parlamentari a colpi micidiali di emendamenti; si parla di rivoluzione sociale ma si pensa a rivoluzioni culturali a colpi di libretti o manifesti ben scritti.
E ben presto non si parlerà più neppure di lotte di classi, di proletariato, di dittatura di classe, di profitto ecc. Da tempo si avverte il processo di revisione anche terminologica del linguaggio marxista. Si pretende superato da situazioni "nuove", "impreviste" dalla teoria classica del comunismo. Ma succedono strane cose; mentre questi termini si pretendono superati i termini veramente sconquassati e beceri della ideologia borghese si pretendono rinnovati; allora ecco rispuntare all'orizzonte, emergenti dalla fossa nella quale il comunismo li aveva per sempre seppelliti, i fantasmi putrescenti dello Stato Nazione, magari variato con il termine più suadente di Paese; e poi Il Popolo, i Cittadini; la fabbrica viene chiamata astrattamente Impresa, il plusvalore Valore aggiunto, ecc.
Nelle condizioni generali in cui si trova attualmente la teoria rivoluzionaria, ogni tentativo, limitato a pochi soggetti, di far chiarezza in un suo solo punto solleva inevitabilmente un cumulo di questioni (e questo è per noi prova della monoliticità e invarianza del comunismo) e ciò ci rende difficoltosa una conclusione. Ma avendo iniziato questo documento come una chiarificazione politica rispetto alla generalità degli Uomini di Cultura (qualcosa come i Signori della Guerra asiatici), teniamo concludere dicendo che il comunismo non è una "scelta culturale", come piace di solito a questi signori ridurlo, ma volontà politica di lotta materiale la cui figura storica e sociale conseguente è il militante comunista che risolve e dissolve ogni ideologia culturale nell’attività pratica che lo porta a lottare per il comunismo. Attività che risolve l'antinomia borghese teoria/prassi, non ponendo i due termini sotto l'idealistico segno di uguaglianza o identità, ma facendo scaturire il primo dal secondo e il secondo dal primo in un processo dialettico senza soluzioni di continuità. Chi riduce il comunismo ad una faccenda ideologica da sbrigarsi nell'interiorità della propria santa coscienza, e forse peggio, chi lo tratta come una faccenda estetica, non si ferma che ai gradini infimi del comunismo e si preclude ogni possibilità di accedere alla visione storica rivoluzionaria che in esso si racchiude. Chi crede che il comunismo in ciò si risolve per buonagrazia di questi uomini di cultura, fa più che trasformarlo in una icona inoffensiva: lo trasforma in un opportuno blasone privato che oltre ad essere inoffensivo è ributtante.
Il nostro sforzo per il momento si ferma qui. Ma forse potevamo "risparmiarcelo", come potrebbero dire alcuni con gergo mercantile, ricorrendo alla chiara parola di Marx ed Engels quando nel 1879, mettendo in guardia Bebel, Bracke e Liebknecht nell'accettare nel partito "persone provenienti dalle classi sinora dominanti” - che potevano apportare al partito "elementi di educazione" - raccomandavano prima di "por mente a due cose. In primo luogo, per essere realmente utili al movimento proletario, queste persone devono portare con sé reali elementi di educazione...”, questi dovevano cioè "cominciare a studiare a fondo per conto proprio la nuova scienza, invece di aggiustarsela ciascuno dal punto di vista che si è portato con se, di farsene una scienza privata e di farsi subito avanti con la pretesa di volerla insegnare; in secondo luogo, la prima esigenza è che siffatte persone non portino con se nessun residuo di pregiudizi borghesi, piccolo borghesi ecc., ma facciano proprio senza riserve il modo di considerar le cose del proletariato."
Inutile dire che per rispetto all'uomo di cultura si è fatto il contrario di quanto si raccomandava, e ora ognuno biascica di comunismo che avrebbe in visione privata come una santa Bernadette la madonna di Luordes. Il tormento e l'estasi della creatività di un comunismo come a lor signori piace immaginarlo.
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