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[da oltre il bosco]
Kneip - Ed ecco che anche da Hirschwieseu, da oltre il bosco, si fa sentire la campana del mattutino; e, vinto dallo splendore e dai suoni, Martin, raccolto in meditazione, procede sul campo, spinge il cavallo nel solco e dà di piglio all’aratro che è lì in attesa di fronte a lui. Un senso di sacro terrore lo accoglie nel momento con cui la sua mano tocca l’antichissimo, sacrosanto  strumento con cui l’uomo fa della terra la sua schiava, ne fa la fiorita distributrice di dono, la sua opulenta nutrice, finché egli stesso non riprecipita in essa e diviene egli stesso terra.[1]
Cosa c’è da vedere nel quadro di van Gogh?…- si era chiesto Heidegger.
Nell’orificio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando… la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala… Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce” - risponde infine alla sua stessa domanda.
Si tratta piuttosto di scarpe dell’artista, tipiche di un uomo che in quel periodo viveva in città, di un cittadino“ - replica Schapiro.
In questa disputa sull’attribuzione delle scarpe sarebbe troppo facile ravvisare la contrapposizione tra stanzialità e nomadismo come il classico conflitto tra campagna e città (tra mondo contadino e industriale, tra feudalesimo e capitalismo, tra capitale fondiario e capitale finanziario) se non fosse che una semplificazione a linee così rozze può aiutarci ad uscire dal bosco per averne una visione d’insieme.

Schapiro e Derrida riconoscono entrambi, ognuno per il proprio conto, che in van Gogh è viva la componente contadina (come motivo e come movente) poiché e spesso nelle sue lettere sono presenti delle invettive contro i cittadini.[2]
Detto questo possiamo però dire che tali invettive sono manifestazioni di quella medesima “ideologia - diciamo così - rurale agraria, terrestre, artigianale, che Heidegger è accusato di aver proiettato” sulle scarpe in causa, e quindi convenire con Derrida che la proiezione allucinatoria di Heidegger, se pure esiste, trova le sue giustificazioni in questa possibilità di identificazione[3] di Heidegger con van Gogh?
La “contadinità” di van Gogh si mostra come l’evidenza patetica (umanamente sofferta) di una “realtà” sociale (di un Mondo, diremmo forse con Heidegger) che è sul finire, proprio mentre un’altra realtà sta rapidamente affermandosi per trionfare definitivamente prima dello scadere del secolo. Van Gogh raccoglie sì le spoglie del mondo contadino, ma il suo “modo” di ricomporle appartiene interamente ad una fase superiore, come i suoi tubetti di colore, i formati standards delle tele, la loro replicabilità e l’amore per le stampe popolari.
E proprio quelle scarpe di nessuno che si ostinano a non essere altro che una immagine che non rappresenta null’altro che ciò che rappresenta, portano van Gogh nella modernità, se non addirittura nella contemporaneità dell’arte più conseguente all’epoca attuale e corrente.

La “contadinità” di Van Gogh è vettoriale, non residuale. Non è frutto del mito territorializzato di un Mondo oramai sceso nel sepolcro, dove si dà da fare (con gli aiuti di Stato) per uscirne almeno in spirito come “ideologia” di redenzione o re-organizzazione di un popolo eletto che salda la stirpe (il sangue) con il suolo geografico mettendo in opera  la Nazione.
E che questo sia il risultato di proiezioni sentimentali, non rende meno livido un programma di contraffazioni composto esclusivamente di vestigie ed elementi da parata.

Dalla fine della guerra franco-prussiana - ben oltre mezzo secolo prima della stesura dell’Origine - la Germania aveva iniziato la sua ascesa economica e ormai da tempo era una potenza industriale e capitalistica, almeno al pari della Francia.
Già nel 1928 c’erano più scarpe tedesche indossate da cittadini inurbati, operai e borghesi, che da contadini.[4]
E tuttavia… nel 1932, appena quattro anni dopo

…Martin raccoglie un pugno di questo suolo bruno, fresco – un pugno della terra dalla quale noi siamo venuti e alla quale tutti ritorniamo – e, soprappensiero, tastandola, la leva contro il sole, e poi la lascia fluire nel cavo della mano, in segno di offerta all’estro lucente che, stando sopra la testa del cavallo, investe della propria luce aratro e aratore; e, facendo l’offerta, così egli parla al grande sole: ’Dona vita, dona feracità a questa terra; trai dal solco ciò che verso te si protende, ciò che della tua calda luce si diletta, tu, padre di tutto ciò che è vivente.[5]

Nonostante la terra, l’aratro e la mano del seminatore appaiano tutti nelle tele di van Gogh, è forse da sempre rimasta invariata la verità della terra, dell’aratro o della mano?
E il Sole di Francia del 1886[6] è lo stesso di quello della Germania del 1936?
Arduo sostenerlo.
Neppure Heidegger oserebbe.
Perché neppure un’opera di filosofia, benché sottratta al “mondo” cui apparteneva[7], può raschiarsi via le tracce matriciali di quel “mondo” tedesco del 1936 che (la) conteneva, a cui apparteneva.
Di quel mondo, possiamo almeno vederne una fotografia?

Egli era il villaggio. Che gli uomini e le donne di Reth, che gli uomini e le donne di tutti i villaggi, abbandonassero pure, una volta di più, la retta via, per cadere nelle grinfie di mercanti e truffatori: essi non erano il villaggio, ed era del pari indifferente che ritornassero a lui. La terra non calcolava alla stregua di una generazione: finché c’era terra, c’erano villaggi, e se quella stirpe non aveva più la forza e la volontà e la frugalità necessarie per ritrovare se stessa, altri sarebbero nati, i quali avrebbero saputo ancora ciò che era necessario. Che accadesse pure ciò che era predisposto o voluto: sempre vi sarebbe stata qui una vecchia madre che, al mattino, sarebbe uscita per i campi e, al ritorno, avrebbe detto ai figli: “Tutto a posto!”.[8]

Una vecchia madre custodirebbe l’immutabilità del mondo contadino come custodirebbe le sue proprie scarpe? [9]
Allora azzardo un’empiria:
prendo le scarpe di van Gogh e le appendo accanto alla fantasia contadina che queste scarpe hanno suscitato in Heidegger:
ma tra loro nessuna cosa risuona.

[1] -  Da Porta nigra, un romanzo di Jakob Kneip,del 1932, riportato in F. Schonauer, cit. p. 100-101.
[2] - Vincent a Theo, Nuenen 4 gennaio 1884 (n. 419-351): “Quanto a me, preferisco stare con quelli che il mondo neppure lo conoscono, come ad esempio contadini, tessitori e così via, piuttosto che stare con chi appartiene ad un mondo più civile. Il che per me è una fortuna”.
[3] - Derrida, Restituzioni, cit. p.345 e 354.
[4] - Esclusi bambini e massaie, in quell’anno la Germania è composta da una popolazione di 62,4 milioni di lavoratori con famiglia: - 40,7 ml. di lavoratori dell’industria; - 10,7 ml. di media borghesia urbana; - 09,0 ml. di contadini medi e piccoli; - 02,0 ml. di borghesi, inclusi proprietari terrieri e contadini ricchi.
[5] - Jakob Kneip, Porta nigra, in F. Schonauer, cit. pag 100-101.
[6] - Proprio quell’anno in cui le scarpe furono dipinte, in Francia e in Europa la produzione e la popolazione agraria subivano un drammatico crollo. 
[7] - Heidegger, Origine Ni68, cit. p. 26: “Gli Egineti del museo di Monaco, o l’Antigone di Sofocle nel suo miglior testo critico, in quanto sono le opere che sono, sono sottratti al loro ambito essenziale. Per grandi che siano il loro livello e la loro capacità di suscitare emozioni, per buona che sia la loro conservazione e chiara la loro interpretazione, tuttavia il trasferimento in una collezione ha privato queste opere del loro mondo. Anche nel caso che ci sforzassimo di annullare questo trasferimento o di evitarlo, andando a vedere, ad esempio, il tempio di Pesto lì dove si trova o il duomo di Bamberga dove è stato costruito, tuttavia il mondo che apparteneva all’opera che ci sta innanzi è andato perduto”.
[8] - Friedrich Griese, Lipsia 1934: riportato in La letteratura tedesca del terzo reich, op. cit. p. 102.
[9] - Quando si tratterà di custodire l’opera d’arte, tenete presente questo fatto: per “salvaguardare” l’opera è prescritto di salvaguardare quel mondo a cui l’opera appartiene. 






VALIGIE
parte seconda H.D.S. MAROQUINERIES