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[ scarpe, scarponi, calzini e calzerotti ]
Marx - Dove la borghesia, i suoi filosofi e scrittori compresi, potrebbero vantare un’opera pari alla Garanzie dell’armonia e della libertà del Weitling, rispetto all’emancipazione politica della borghesia? Se si paragona la mediocrità scipita e fiacca della letteratura politica tedesca con questo grande e brillante debutto letterario dei lavoratori tedeschi, se si paragona questa gigantesca scarpa infantile del proletariato con la piccolezza della consueta scarpa politica della borghesia tedesca, si deve anche antivedere l'aspetto atletico della Cenerentola tedesca.[1]
Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccicati, denunciandone almeno l’impiego[2] E tuttavia, nessuna esitazione da parte di Heidegger che siano scarpe da contadino!
Così è deciso.
Così è dettato!
- Pur riconoscendola affrettata e imprudente, non si deve dare troppa  importanza all’attribuzione delle scarpe al contadino, poiché  Heidegger avrebbe potuto sostenere gli stessi argomenti facendo riferimento a delle scarpe da città - dice Derrida.
- Ma non lo ha fatto – dico io.
Questo “mezzo assai comune” che si vuol far passare per generico è stato già in partenza specificato come “da contadino”; e, d’esempio in esempio, questa qualità diviene la medesima di quella rappresentata nel “quadro famoso di van Gogh, che ha ripetutamente[3] dipinto simili scarpe.
Cioè: che ha ripetutamente dipinto scarpe da contadino.
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Precisamente.
Inequivocabilmente.
Certo Heidegger poteva anche risparmiarsi di addebitare quelle precise scarpe al mondo agrario indossandone un paio qualsiasi per andarsene a zonzo dove più gli piaceva.
Ma non lo ha fatto - ripeto.[4]
Invece si è lasciato prendere la mano dal sistema di un mondo in uniforme (coloniale?), dove è assolutamente prescritto di indossare qualche indumento tipico del paese in cui recarsi per “soggiornare” o  prendervi cittadinanza e dimora.[5]
Per sentirsi a proprio comodo in campagna è consigliabile infilarsi nei panni tagliati e cuciti sulla rettitudine contadina, e riposare col suo riposo.[6] 
Solo scarpe già intrise del patetismo stanziale della vita agreste autorizzano ad incamminarsi tra campi e boschi.
E dove altro si può andare così conciati?
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E ci andrà... O se ci andrà..! - purché un tale andare rimanga un tornare sui propri passi. Perché di questo tornare all’origine, al Caucaso e alla Terra, e di saltarvi sopra per fargli la festa, essenzialmente si tratta.
Con un semplice “da contadino”, gettato lì per trascuratezza (secondo Derrida) si fa inciampare Heidegger nei lacci slegati delle sue proprie scarpe, procurando uno sdrucciolone imperdonabile ad uno spirito sempre attento a tenersi lontano da ogni quotidiana abitudinarietà che lo facesse incontrare malamente con la ruvida terra.
Capisco le buone intenzioni del francese nei riguardi della metafisica; comprendo meno i riguardi per il concreto metafisico tedesco.
Perché con quel semplice “da contadino” Heidegger rivela che lui, con quelle scarpe dipinte da van Gogh, sapeva già bene in anticipo dove vuole mandare la Verità…
Dove?
Lontano dalle città.
Per questo ce le descrive nei campi o alla festa paesana, non certo nei cantieri o nello sfinimento operaio, fuori dalle fabbriche, nelle bettole o dentro i bordelli.
E’ impossibile che una “trascuratezza” così rilevante ed essenziale da dischiudere la severa pagina filosofica all’idillio rurale, non trasformi immediatamente gli enti assoluti che si vogliono maneggiare (le scarpe filosofiche sulla terra metafisica) in “cose” storiche, sociali ed economiche del tutto determinate e determinanti che trascinano il filosofo nel loro tempo e nelle responsabilità della sua propria storia personale, nella quale si ritrova, infine, immerso con le proprie intramontabili scarpe.
Verosimilmente proprio questo “esempio d’esempio”[7] di un paio di “scarpe da contadino”, che si vorrebbe “affrettato e imprudente”, ha disturbato prima Goldstein, quindi Schapiro; per i quali la posta in gioco si svelerebbe essere, in “verità”, di ordine politico – stabilisce infine Derrida per aprire la “propria” minuziosa e incalzante pagina discorsiva alla narrazione poliziesca.
Anche se, come fa Schapiro, si tronca e si disarticola brutalmente il modo di procedere de L’origine…, si potrà tuttavia comprendere un po’ meglio il riferimento al “quadro famoso”, leggendo un paragrafo in più [8]...
“Ma forse tutto ciò, dice Heidegger alla fine del suo sproloquio, non lo vediamo che noi nel quadro.” La conseguenza diventa ambigua. Heidegger mostra, almeno, di non esserne tanto sicuro: tutto quello che ha appena finito di evocare pateticamente deriva forse dalla capacità evocativa del quadro o dalla osservazione soggettiva dello spettatore, e allora lascia prudentemente aleggiare un dubbio sul rigore del collegamento.[9]

Schapiro si sarebbe fermato troppo presto?
Allora noi ci spingiamo ancora più avanti di qualche paragrafo, e leggiamo:
 

…semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di van Gogh. E’ il quadro che ha parlato… Sarebbe un errore esiziale quello di credere che la nostra descrizione, con procedimento soggettivo, abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto… Il quadro di van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità.[10]

Sembra proprio che quel dubbio che per un po’ Heidegger avrebbe lasciato aleggiare per prudenza nell’aria si sia infine deciso a scendere in terra per infilarsi nelle scarpe come un loro appropriato calzerotto da contadino.

[1] - K. Marx, Glosse critiche in margine all’articolo Il re di Prussia e la riforma sociale; osservazioni di un prussiano, “Avanti!”, 10.08.1844, n. 64. [in Scritti politici giovanili, Giulio Einaudi Edit.Torino 1975, p. 441].
[2] - Heidegger, Origine Ni68,  p. 19.
[3] - Certo che lo ha  fatto; e ripetutamente, come per una serie, una rassegna, un catalogo completo dell’indigenza – forse anche, e inoltre, come delle sciarade da inviare a Theo…
[4] - Per una qualche trascuratezza, o per (opportuna) necessità? Per quella stessa necessità-opportunità che lo ha indotto a sostituire la scultura della Barbarina (e che neppure era un’opera del tutto generica e “innocente”) con le scarpe dipinte? Nella prima stesura inedita della conferenza friburghese sull’Origine dell’opera d’arte, al posto della natura morta con vecchie scarpe, Heidegger menzionava (indicandola come das Straßburger) la cosiddetta Barbarina, una testa di donna in pietra arenaria rossa, che è uno dei due frammenti superstiti che adornavano il portale della Cancelleria di Strasburgo, eseguiti tra il 1463 e il 1464 dal maggior scultore d’origine olandese della seconda metà del XV secolo, Nicola da Leida (Niclaus Gerhaerts van Leyden, Leida ca. 1430 – Vienna 1473).
E’ utile al proposito leggere il commento di Adriano Ardovino, curatore della prima stesura dell’Origine (1931-32), riportato in Materialiqui sotto.
[5] - Contrariamente a Gauguin o Bernard di Pon-Aven, van Gogh non ha mai eseguito “specificatamente” ritratti in costume; anche nelle arlesiane, il costume non è poi così fortemente tipizzato, e in generale, in altre opere (come nei contadini del Brabante, nello zuavo e nel postino Roulin) il costume o la divisa non si discosta dal carattere della persona ritratta ed è partecipe della loro espressione come un tratto del loro volto, del loro essere (umano e soprattutto sociale); non sono individualità in costume ma è l’individualità nella sua forma sociale.
[6] - “Sai anche tu quanto siano belle quelle figure in riposo che vengono eseguite così spesso. Molto più spesso delle figure in movimento. Si è spesso molto tentati di disegnare una figura in riposo; è molto difficile esprimere l’azione ed agli occhi di molti l’effetto delle prime è più ‘gradevole’ di qualsiasi altra cosa. Ma questo oggetto ‘gradevole’ non deve allontanare la verità e la verità è che c’è più fatica che riposo nella vita. Così vedi che la mia idea principale su questo punto è questa – che per parte mia io lavoro per la verità”. [Vincent a Theo, L’Aia 4 dicembre 1882 (n. 291-251)] 
[7] - In un primo tempo Heidegger intende prendere ad  esempio un “mezzo”; quindi, come esempio di un “mezzo”, prende un “mezzo” assai comune come un paio di scarpe (“mezzo” di locomozione?). Le scarpe, nel testo di Heidegger sarebbero dunque (come si esprime Derrida) “l’esempio di un esempio”. Un esempio al quadrato.
[8] - Derrida, Restituzioni, cit, p. 327.
[9] - Ivi, cit. p. 326. Il collegamento delle scarpe col mondo contadino, pateticamente evocato dall’orificio oscuro delle scarpe.
[10] - Heidegger, Origine Ni68, cit. p. 21.

ALTRE FIGURE ESISTENTI
1. L’officina del gas (F 924); L’Aia, marzo 1882; matita, inchiostro e pittura su cartavergata, mm.240x335; Amsterdam, V. G. Museum.
2. Stazione di Staatsspoor (F 919); L’Aia, seconda metà di marzo 1882; matita e inchiostro su carta vergata, mm.237x333; L’Aja, Haags Gemenentemuseum.
3. Fonderia (F 925); L’Aia, inizio 1882; matita e inchiostro su carta vergata, mm. 240x330; Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle.
4. Vivaio e case vicino allo Schenkweg (F 915); L’Aia inizio 1882; matita e inchiostro mm.400x690;  L’Aia, Coll. Mrs. W. van Eck-Nieuwenhuizen Segaar






MATERIALI ulteriori con riferimento alle note di questo paragrafo

Nota 4  - “Bärbele”, è uno dei due frammenti superstiti dei busti che adornavano il portale della Cancelleria di Strasburgo (vittima di incendi nel 1686 e nel 1870), eseguiti tra il 1463 e il 1464 dal maggior scultore d’origine olandese della seconda metà del XV secolo, Nicola da Leida (Niclaus Gerhaerts van Leyden, Leida ca. 1430 – Vienna 1473), il quale esercitò una rilevante influenza nei territori di lingua tedesca e fu attivo principalmente tra il 1462 e il 1473 (in particolare a Treviri, Baden-Baden, Strasburgo, Costanza e Vienna), con realizzazioni sia in pietra che in legno. Nonostante il soggetto della commissione fosse di carattere religioso (ma l’indagine storiografica ha fornito nel tempo letture divergenti), nella coppia di busti raffiguranti probabilmente un profeta e una sibilla la popolazione strasburghese dovette riconoscere le fattezze di una coppia di illustri concittadini (il conte alchimista Giacomo di Lichtenberg, balivo della città, e la bella consorte Barbarina di Ottenheim, donde il soprannome della scultura, impostosi già verso la fine del XVI secolo insieme a una pittoresca aneddotica che culminava con l’imprigionamento della donna per motivi passionali). I tratti del volto, estremamente vividi e mobili proprio nel loro rimando alla declinazione delle passioni, esemplificano con grande incisività la transizione e la commistione tardo-gotica tra universo religioso e universo profano. A giudicare dalla ricezione novellistica del tema in Germania (cfr. ad esempio l’opera del romanziare nazionalsocialista di origini alsaziane O. Flake, Schön-Bärbel von Ottenheim, Rembrandt, Berlin 1937 e quella della poetessa e scrittrice H. Maierheuser, Bärbel von Ottenheim. Ein Roman vom Oberrhein, Steuben, Berlin 1939), nonché, soprattutto, dal rilievo assunto dall’artista e dalla sua opera nella storiografia artistica tedesca degli anni ’30, è lecito presumere che il riferimento heideggeriano, presente ancora nella versione della conferenza friburghese del ’35, risultasse relativamente familiare ai suoi uditori… Per quale motivo, unico tra tutti i riferimenti ad opere d’arte, nel testo definitivo delle conferenze Heidegger abbia lasciato cadere proprio questo, si lascia spiegare soltanto per via di congetture. A prescindere dall’eventualità di una minore perspicuità del rimando rispetto alle altre esemplificazioni (da Sofocle a Hölderlin, da Egina e Paestum a Bamberga, cui si aggiungeranno, nella versione definitiva, un dipinto di Van Gogh e una breve poesia di Meyer), tra le supposizioni più verosimili potrebbe figurare l’inopportunità del richiamo alla città di Strasburgo nel quadro del secondo dopoguerra (in contrapposizione, invece, alla sua valenza politica, plausibilmente messa in conto da Heidegger nel clima delle rivendicazioni annessionistiche degli anni ’30), per via cioè della sua drammatica vicenda storica. Restituita dalla Germania alla Francia nel 1918 con il trattato di Versailles, Strasburgo fu rioccupata nel 1940 al termine di numerose tensioni e andò infine soggetta ai devastanti bombardamenti americani in occasione della liberazione del 1944. – Villa Liebig (1896) di Francoforte sul Meno fu trasformata in museo comunale tra il 1907 e il 1909. Da allora l’attuale Liebighaus/Museum alter Plastik ospita una delle più importanti collezioni di sculture a livello internazionale, che si estende dall’antichità egizia e greco-romana fino al periodo barocco e neoclassico.” [Da una nota di Adriano Ardovino, curatore di Martin Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, cit.]
In alto:Nicolaus Gerhaerts van Leyden (Leida ca. 1430–Vienna 1473), la Barbarina (1463-1464).

VALIGIE
parte seconda H.D.S. MAROQUINERIES