DRAMMI GIALLI E SINISTRI
Il Programma Comunista 1956
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 6 dicembre 2012
UNA SETTIMANA DI BONTA'
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I fatti qui evocati sono: il naufragio del transatlantico Andrea Doria in seguito ad una collisione nella nebbia al largo dell'isola di Nantucket (New York), il 26 luglio 1956; la catastrofe mineraria di Marcinelle, in Belgio, dell'8 agosto, coi suoi 263 morti; la nazionalizzazione del Canale di Suez, annunciata da Nasser il 26 luglio 1956).

Andrea Doria

Alla prima applicazione alle navi del motore meccanico, la sicurezza dei viaggi marini parve, con buona ragione, un risultato storicamente e scientificamente garantito per il futuro, e tanto più con la costruzione metallica degli scafi. Dopo un secolo e mezzo di "perfezionamenti" tecnici, la probabilità di salvezza del navigante è relativamente minore che con gli antichi velieri di legno, giocattoli in preda del vento e del mare. Naturalmente la "conquista" - la più imbecille - è la velocità, se pure velieri speciali verso il 1850 guadagnassero sui vapori dei "nastri azzurri" non disprezzabili nel giocare - già allora - alla borsa dei cotoni tra Boston e Liverpool. Un ladro più rapido è un ladro più ladro, ma un fesso molto veloce non diventa meno fesso.
Tuttavia l'epoca dei levrieri del mare sta già dietro di noi; essa corrispose alla fase successiva alla prima guerra mondiale. Già prima di essa si era arrivati ai tonnellaggi enormi: il Titanic colato a picco nel 1906 aveva superate le 50 mila tonnellate di stazza. È vero che la sua velocità nel viaggio inaugurale, in cui cozzò contro l'iceberg, non passava i 18 nodi. Dopo un mezzo secolo si hanno due sole eccezioni di transatlantici, tra francesi, inglesi, tedeschi, italiani, superiori di molto alle 50 mila tonnellate: infatti dopo l'ultima guerra il massimo varo è stato quello dell'United States di 53 mila tonnellate. Le due eccezioni furono le inglesi Queen Mary, di 81 mila, e Queen Elisabeth di 84 mila tonnellate, impostate prima della guerra e ancora in navigazione. La nuovissima nave americana ha tolto al Queen Mary il primato della traversata, che la stessa aveva nel 1938 tolto alla francese Normandie, distrutta durante la guerra. Le velocità sono in questo moderno periodo salite oltre le trenta miglia orarie, o nodi: l'Andrea Doria, maggior nave italiana del dopoguerra con la gemella Colombo (il Rex antebellico era di 51 mila tonnellate), era di 29 mila sole tonnellate, ma di buona velocità.
Si è dunque arrestata la corsa al grosso tonnellaggio, che prelude alla grossa catastrofe, ma si è anche arrestata la corsa all'alta velocità, di cui ci inebriò qui in Italia il ventennio fascista. La ragione è che oggi chi ha molta fretta dispone dell'aereo, che col poco equipaggio più di una cinquantina alla volta non ne ammazza; e la traversata per mare (col sole e il tempo quasi sempre bello sulla rotta meridionale che si scelse dopo la catastrofe del Titanic) è più che altro uno svago e uno spasso: gli ultrapotenti apparati motori per far filare come torpediniere i mostruosi colossi, col costo enorme (si guadagna un miglio di velocità oraria e poche ore di traversata sciupando diecine di migliaia di cavalli in più e aumentando in proporzione il consumo del combustibile) che comportano, non sono più chiesti dal viaggiatore e non fanno comodo alla compagnia. Quindi oggi la logica consiglia navi di media stazza e di media velocità, per i passeggeri di non primissimo rango in affari (economici o politici!) non costretti a volare. Le cronache hanno detto come i poveri scampati dell'Andrea Doria non volevano tornare in aereo: troppi saggi, in una volta, della gran civiltà della tecnica...
Inoltre quando ci si vede poco, checché sia del gran discutere sul radar, è buona norma andare poco veloci, come da che mondo è mondo.
Non è questa la questione centrale: ma è l'altra della estrema fragilità dello scafo della Doria sotto l'urto del non pesantissimo né velocissimo Stockholm, checché sia dello sperone rompighiaccio, che meccanicamente parlando poteva fare una breccia più profonda, ma meno dilacerata e meno paurosamente ampia.
Evidentemente è la Doria che si è scassata, probabilmente risultata troppo fragile in tutta la sua ossatura, nelle costolature e nei dorsali. Solo supponendo che un lungo tratto longitudinale dello scafo si sia sconnesso, si spiega come abbiano ceduto molti scompartimenti stagni (che per la nebbia erano già chiusi) e molte parti vitali: macchine, casse della nafta e così via.
Non sono solo le navi in cui la mania della tecnica moderna è orientata nel fare economie sulle strutture, usando profili leggeri, sotto il pretesto di materiali sempre più moderni e di resistenza miracolosa, garantiti più da una pubblicità sfacciata e dalle lunghe mani, che dalle prove dei burocratizzati laboratori e istituti ufficiali di controllo. Come avviene per le costruzioni e le macchine terrestri, la nave che ci dà la tecnica recente ed evoluta è meno solida di quella di mezzo secolo fa. La superba unità ha quindi sbandato, e si è affondata, in tempi contrari a tutte le norme e le attese degli esperti. Poteva essere l'ecatombe, col mare agitato o con meno frequenza di navi vicine.
Vi è un'altra ragione oltre quella della falsa economia dell'impresa costruttrice. È noto che per ragioni tanto nazionaliste quanto demagogiche, lo Stato italiano (chi non sa come, dopo la Santa Russia, la maggior dose di industria "socialista" si trovi nella vaticanesca Italia, sebbene Palmiro non sia ancor del tutto contento?) era, della nave, tanto il committente quanto l'impresa appaltatrice (sono infatti dell'Irimare tanto la compagnia di navigazione Italia che i cantieri Ansaldo). È noto che in Italia l'acciaio costa di più; ed anche la mano d'opera (il lavoratore vi mangia meno, ma l'assistenza sociale e di Stato vi sbafa a man salva). Ordinando la nave a; cantieri olandesi o tedeschi la nave sarebbe costata un quarto di meno, ma Palmiro avrebbe avuto meno voti. Gli ingegneri italiani ebbero interesse ed ordine di lesinare sull'acciaio.
Non si lesinò però sull'architettura decorativa e di lusso. Uno dei sintomi del decadere mondiale della tecnica è che l'architettura uccide l'ingegneria. Tutte le civiltà hanno passato tale stadio, da Ninive a Versailles.
Vecchi marittimi mugugnanti sulle calate di Genova lo hanno raccontato ai giornalisti. Troppi saloni, piscine, campi di vari giochi, troppi ponti sopra l'acqua - eh, l'inimitabile linea, la sagoma slanciata delle navi italiane! - troppo volume, peso, spesa nell'opera morta, ossia in quel mezzo "grattacielo" che sta al di sopra della linea di galleggiamento, sfinestrato e sfolgorante di luci, ove si bea la classe di lusso. Tutto a danno dell'opera viva, che è lo scafo a contatto dell'acqua, dalla cui vastità e saldezza dipende la stabilità, la facoltà di galleggiamento, di raddrizzamento dopo le sbandate, di resistenza ai colpi di mare, agli urti colle montagne di ghiaccio, e a quelli eventuali con navi di paesi ove l'acciaio costa di meno, non solo, ma forse la tecnica è meno venduta alla politica affaristica... finora.
Tutto ciò, brontolano i veterani del mare, è a danno della sicurezza. Lusso più o meno cafone, o sicurezza delle vite umane trasportate, ecco l'antitesi. Ma può una tale antitesi fermare la Civiltà, il Progresso!?
Quando tuttavia non è sicura la terza classe, né l'equipaggio, nemmeno la classe superiore, dai favolosi prezzi di passaggio, lo è. Vi supplisce la retorica sui ritrovati moderni, l'alta tecnica, la decantata inaffondabilità, a prova di ghiaccio, a prova di scoglio, a prova di Stockholm!
La stessa storia avvenne per il risanamento delle grandi metropoli, in cui, come stabilirono Marx ed Engels fino dai tempi dello sventratone di Parigi, Haussmann, le classi povere hanno avuto e avranno tutto da perdere e niente da guadagnare. Fu fatto da abili tecnici e speculatori notare all'alta borghesia come le epidemie non si fermano davanti alle differenze di classe, e si può anche nelle case dei ricchi morire di colera. Avanti dunque il Piccone! Ora, quando la nave affonda, affondano anche i passeggeri di lusso, seminudi come i poveri cristi anche loro, e magari affogano in abito da gran sera. La sicurezza è quindi indispensabile a tutti: non si può fregarsene come avviene per le miniere, dove scendono solo i cirenei della produzione, con qualche ingegnere, ma senza ruffiani della decorazione: tanto si sta al buio.
La classe dominante, a sua volta impotente a lottare anche per la sua stessa pelle col Dèmone dell'affarismo e della superproduzione e supercostruzione, dimostra così la fine del suo controllo sulla società, ed è folle attendere che, in nome del Progresso, che segna la sua via a tappe di sangue, possa fare più sicure navi di quelle di un tempo.
Ed infatti i gorghi sulla disonorata carcassa dell'Andrea Doria si erano appena chiusi, che l'economia statalista, vivaio optimum del moderno privato affarismo e succhionismo, annunziava che ne avrebbe rifatta un'altra tal quale, solo, per scaramanzia, cambiando... il nome! Si vanta anche che, dato che il costo salirà di circa un terzo rispetto alla vecchia, si economizzeranno le spese di progettazione, calcolazione, e sperimentazione! I decoratori faranno, è sicuro, gli stessi affari, e la macchina per arraffare le commesse di Pantalone si è già scatenata. Come dopo la guerra mondiale si scatenò, nella Ricostruzione, ferrata di tutte le risorse della odierna grande Tecnica, "il più grande affare del secolo", così si è risolta la "crisi" cantieristica e di navigazione (per cui si stava varando un'apposita legge) con la commessa della nuova nave. Dopo la speronata dello Stockholm, e forse per qualche litro di più di alcool che avevano ingerito i suoi ufficiali, si è reso inutile il saggio ed alto voto del nostro Democratico Parlamento.
Nessuno penserà, nessuno legifererà, nessuno voterà perché si straccino le tavole dei vecchi calcoli e si ridisegni lo scafo e il suo scheletro, il solo che in un natante è vivo, spendendo cinque milioni più di acciaio e altrettanto meno di ruffianeschi lenocinii. Il che non si può fare finché la produzione "socialista" è produzione aziendale, anche se di Stato, serva di considerazioni ancora mercantili e di concorrenza tra le "bandiere", ossia tra le bande di criminali dell'affare, che vale lo stesso.
E colui che lo facesse "deprezzerebbe" il non affondato Colombo.

Marcinelle

Allorché su queste colonne pubblicammo la serie sulla Questione agraria e la Teoria della rendita fondiaria secondo Marx, avvenne in Italia la sciagura di Ribolla, che fece 42 vittime contro le ormai sicure 250 e più di Charleroi. La stessa dottrina economica della rendita assoluta e della rendita differenziale si applica, come al terreno agrario, alle estrazioni di materie utili dal sottosuolo, alle forze idrauliche, e simili. Non a caso si dice "coltivare" una miniera. Intitolammo un paragrafo dell'esposto: Ribolla, o la morte differenziale.
Nell'economia del mondo capitalista tutti i consumatori di beni che sono offerti dalla natura, li pagano a condizioni più severe di quelli che sono tratti da umano lavoro. Per questi pagano il lavoro, ed un margine di sopravalore che la concorrenza, fin che vige, tende a ridurre. E la società borghese li offre ai suoi membri più a buon mercato delle precedenti società, poco manifatturiere.
I prodotti della terra in senso lato sono pagati dal consumatore secondo il lavoro e il sopralavoro, adeguati al caso del "terreno peggiore". Anche in questo caso tuttavia si aggiunge un terzo termine: la rendita, ossia il premio al monopolista della terra, al proprietario fondiario, terza forza della società borghese "modello". Il terreno più sterile detta per tutti i consumatori di cibi il prezzo di mercato. Ne segue che i proprietari monopolisti dei terreni più ricchi aggiungono alla rendita assoluta, o minima, la rendita differenziale dovuta al minor costo delle loro derrate, che il mercato paga allo stesso prezzo.
Crescendo i popoli e il consumo, la società deve dissodare le terre vergini e utilizzare tutte le superfici libere, fertili o sterili. Il limite alla fisica estensione determina il monopolio, e le due forme della rendita.
Per ardua che a molti la teoria appaia, essa è cardine del marxismo, e solo chi non l'ha mai digerita crede che la dottrina dell'imperialismo sia sorta come un'aggiunta al marxismo, studio preteso del solo capitalismo concorrentista. La teoria della rendita contiene tutta quella del moderno imperialismo, del capitalismo monopolista, creatore di "rendite" in campi anche prevalentemente manifatturieri, e che quindi si può chiamare col termine di capitalismo a profitto più rendita, e con Lenin: parassitario.
Bene intesa la dottrina, viene chiaro che nulla cambia se questa rendita con radici in cespiti tradizionali e nuovissimi, passa allo Stato, ossia alla società medesima capitalista organizzata in macchina di potere: ciò avviene al fine di tenere in piedi il suo fondamento mercantile monetario ed aziendale. Prima di Marx, Ricardo lo aveva proposto e Marx ne svolge la critica, fin dalla sua formazione, completa ed integrale.
I giacimenti di lignite di Ribolla sono tra i meno fertili, come lo sono in massima quelli belgi di antracite, e mai converrà al capitalismo, dove non vi è premio di rendita differenziale, come nelle migliori miniere di francesi, olandesi, inglesi, tedeschi, americani, spendervi per installazioni più costose atte ad aumentare la resa e garantire la vita del minatore.
All'economia presente non è d'altra parte consentito di chiudere quelle miniere; e resteranno allo stato di quelle descritte da Zola nel Germinal, col cavallo bianco che non vedrà mai la luce del sole, e che comunica con uno strano linguaggio della tenebra con due minatori condannati con lui dalla "società civile". Può il Progresso fermarsi, per scarsità di carbone?!
Ora che esiste una Comunità superstatale del Carbone, come del Ferro, tra Stati che hanno nazionalizzato le ricchezze sotterranee al pari dell'Italia, e su scuola fascista, si hanno gli estremi di ultramonopolio, per saldare sulla scala delle rendite differenziali, basse a Ribolla o a Marcinelle, una rendita base assoluta. Ma questa non basterà certo a pagare nuovi impianti, forse appena alla macchinosa impalcatura affaristico-burocratica che lavora, lei sì! "alla luce del sole".
Quando le logore condutture elettriche dei pozzi fanno divampare l'incendio, non bruciano solo le attrezzature e le carcasse degli uomini, ma brucia il carbone del prezioso, se pur poco fertile, giacimento geologico. Brucia perché le gallerie scavate dall'uomo gli conducono l'ossigeno dell'aria atmosferica, ed ecco il perché dei muri di cemento che esistevano a tappare vecchie gallerie. Quindi l'alternativa tecnica: mandare giù ossigeno per i morenti e i temerari loro salvatori, o chiuderlo perché ogni tonnellata di ossigeno ne annienta circa mezza di carbone? I minatori hanno gridato, all'arrivo dei preparatissimi tecnici chiamati di Germania: li avete fatti venire per salvare non i nostri compagni, ma la vostra miniera! Il metodo, se le urla inferocite dei superstiti non si fossero levate troppo minacciose, sarebbe stato semplice: tappare tutti gli accessi!
Senza ossigeno tutto si calma, l'ossidazione del carbonio, e quella analoga che avviene dentro l'animale uomo, e chiamiamo vita.
Vi è dell'altro - e non sono periodici rivoluzionari che riferiscono queste cose! Per un'antichissima tradizione, che certamente è più vecchia del sistema sociale capitalistico, fino a che il minatore non è riuscito, vivo o morto che sia, dalla sinistra bocca della miniera, questa continua a pagare per lui l'intero salario, anzi il triplo di esso. Il minatore infatti ha solo otto ore da permanere là sotto, e se non esce si suppone che stia erogando altro turno.
Quando il cadavere è estratto e riconosciuto, i turni sono chiusi, e la famiglia non avrà che una pensione, inferiore dunque all'importo di un turno solo. Interessa dunque la compagnia, privata o statale o comunitaria, che le salme escano comunque; sembra che per questo le donne urlavano che le bare chiuse, su cui posavano pochi oggetti riconoscibili per l'identificazione, non si sapeva se contenessero detriti degli uomini, o del giacimento.

Fate uscire tutti i vivi, e tappate per sempre queste discese! Non potrà mai dirlo la società mercantile, che si impantanerà in inchieste, messe funerarie, catene di fraternità, in quanto capisce solo la fraternità da catena, lacrime coccodrillesche, e promesse legislative ed amministrative tali da allettare altri "senza riserva" a chiedere di prendere posto ancora nelle lugubri gabbie degli ascensori: di cappello alla tecnica! Non è facile cambiare il sistema di coltivazione seguito per lunghissimi periodi. E la teoria della Rendita vieta che si lasci ferma l'ultima miniera, la più assassina: è dessa che detta ad una società negriera e strozzina il ritmo massimo della folle danza mondiale del business carbonifero; che appunto il limite geologico dei suoi orizzonti futuri, restringendosi, spinge sulla china dell'economia di monopolio, del massacro del produttore, del ladrocinio contro il consumatore.
Il racconto giallo di Marcinelle fa vibrare i nervi del mondo. Per quanti altri turni, di otto ore per otto, i "dispersi" del ventre della terra, come ieri quelli delle profondità dell'Adriatico, consumeranno ricchezza di questa civile economia borghese, che da tutte le cattedre vanta la sua spinta gloriosa verso un più alto benessere? Quando si potrà depennarli dai registri paga, e pregato Dio per loro l'ultima volta, passare a dimenticarsene?

Il canale di Suez

Sangue non è corso, ed era chiaro dal primo momento che corso non sarebbe, per il terzo atto della trilogia borghese di ferragosto, che ha tinto di giallo la più fessamente rosea delle manifestazioni borghesi, la feria, la vacation, il vuoto nel vuoto di questo mondo di costruttori da operetta, di faticatori della fregatura al prossimo.
Possiamo mai credere che vi sia un marxista che, per un solo momento, abbia visto in Nasser un nuovo protagonista della storia, e il mondo messo a rumore e a soqquadro per un semplice gesto, per una trovata audace dell'ultimo cesaretto, o faraoncino che sia? Che uomo! Ha messo alla frusta Francia, Inghilterra ed America con una tirata di genio: la nazionalizzazione del canale! Tutto effetto di un cambio della guardia: da re Faruk che frustava solo odalische da un milione di dollari, al semplice colonnello che ha saputo porre a gonne levate Marianna ed Albione.
Anche il problema Suez si legge permettendo al colonnello di rimanere, senza altri incomodi pseudo-sessuali, quel fesso che è; ed applicando la teoria della Rendita.
Suez fu un'operazione ancora onorevole, e se vogliamo gloriosa, della borghesia giovane, pari a quelle che il Manifesto dei Comunisti levò a luci da epopea. Forse una delle ultime: quando il bis fu tentato a Panama, si tombolò ben presto nel marcio e nel superscandalo, e la vecchia Europa depose le armi del grande Lesseps e dei suoi tecnici di prima forza.
Lesseps sarebbe stato un sansimoniano, e l'idea di Suez passò nel mondo di un secolo fa come un'idea socialista. Essa entusiasmò gli utopisti, ma è indubbio come anche nella concezione marxista le imprese del capitalismo dirette a legare lidi lontani del mondo fossero considerate come premesse della trasformazione socialista di esso. L'idea si era fatta risalire a Napoleone I, che fece eseguire studi tecnici, e si disse sostenuta dal filosofo Leibniz, grande matematico. Non a caso Bonaparte aveva tentato di partire dall'Egitto nella distruzione della supremazia marittima ed imperiale inglese. Ma civiltà ancora più antiche avevano concepita l'opera: il Faraone Sesostri l'avrebbe addirittura intrapresa, e giusta Erodoto 120 mila lavoratori sarebbero periti nel tentativo di un altro Faraone. I Califfi arabi vi rinunziarono per tema di aprire le vie alle flotte di Bisanzio. Dopo la scoperta della rotta per l'India, nel XV secolo, ritentarono i Veneziani, precursori del moderno capitalismo, ma i Turchi si opposero.
I lavori durarono dal 1859 al 1868 con capitali francesi in gran parte, ed ottomani, tra l'ostilità inglese. Memorabili furono le ecatombi di lavoratori bianchi ed arabi: gli inglesi denunziarono come schiavismo l'arruolamento a migliaia dei miserrimi fellaghs, e una controversia fu arbitrata da Napoleone III. Gli ingegneri francesi del tempo erano dei lottatori e non solo degli affaristi: liberati dalle armate di manovali, impiegarono macchine gigantesche e superarono il compito. La concessione data dal governo egiziano doveva durare 99 anni dall'inaugurazione del canale: per tale periodo l'Egitto doveva ricevere il 15 per cento dei guadagni della Compagnia. Non è il caso di ripetere la storia delle gesta dell'affarismo e dell'aggiotaggio internazionale con cui i viceré d'Egitto, soggetti al Sultano di Costantinopoli, furono defraudati dal loro diritto alla quota di azioni, che passò per diverse vie al capitale e al governo, anzi alla stessa corona, britannici.
Fermo restò che trattavasi di una concessione, e la proprietà di tutta l'opera, più volte ampliata e perfezionata, doveva nel 1968 passare senza riscatti al governo del Cairo.
Ci guardiamo bene dal trattare la questione di "diritto" nel merito di questa lotta tra filibustieri e pescecani di massimo tonnellaggio.
Interessano i concetti economici. Il capitale iniziale fu di 200 milioni di franchi oro. Portato questo capitale a franchi di oggi potrebbe essere di 60 miliardi; in lire italiane di circa 100 miliardi.
Il valore attuale delle azioni, a parte la loro discesa del 30 per cento dopo il decreto di Nasser, che ha tuttavia assicurato il loro rilievo al corso di borsa (ciò dovrebbe voler dire al giorno del decreto), il capitale della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez, si afferma in cifre inglesi di 70 milioni di sterline, in cifre francesi di 90 miliardi di franchi. Le valutazioni non sono secondo il cambio: in dollari danno, la prima 200 milioni, la seconda 250, e in lire italiane 120 miliardi e 150 miliardi, all'ingrosso.
Nell'ultimo anno gli introiti della Compagnia sono stati di 35 miliardi di franchi, coll'utile di ben 16 miliardi, il 45 per cento! In lire 53 e 25 circa. Ma Nasser li valuta 100 milioni di dollari! 60 miliardi netti di lire.
Un frutto così alto non può essere tutto profitto di capitale industriale, a parte il già scontato suo ammortamento, che sembra coperto da enormi riserve che i capi della compagnia si sono formate. Non si tratta di un'intrapresa di produzione: le navi che passano lasciano un pedaggio da trecento a seicento lire per tonnellata di stazza, ma non portano via nulla di alienabile sul mercato: pagamento di un servizio, non di merci. Evidentemente le spese di manutenzione, custodia, esercizio, amministrazione del canale, sono una minima parte degli introiti. La differenza è una rendita.
È assoluta in quanto discende da un monopolio: quello di chi può chiudere le porte di Suez o Port Said. È, inoltre differenziale in quanto rappresenta il costo della navigazione per la via peggiore, il giro interminabile del Capo di Buona Speranza.
A chi spetta questa rendita? Al "proprietario fondiario" del terreno in cui il canale fu tracciato, senza il permesso del quale non si poteva aprire il primo cantiere di scavo nel 1859. Questa questione di proprietà diventa per Nasser una questione di sovranità. A noi questa terminologia non dice nulla. Per noi marxisti la rendita tocca a chi può far valere il monopolio. Questo non è nemmeno antigiuridico: nella teoria classica del diritto romano "fonte della proprietà è l'occupazione". La stessa, da che mondo è mondo, è la fonte della politica sovranità.
A questa stregua sono insulsi gli Inglesi, e altrettanto insulso è Nasser. I primi fino a qualche anno addietro avevano truppe di custodia nella zona del canale, per la difesa di esso. Infatti nelle due guerre mondiali navi tedesche, e alleate a loro, non se ne fecero passare. Nella guerra italo-etiopica Londra stette lì per chiudere la porta; Mussolini ebbe allora il suo momento felice: ricattò gli Inglesi mostrandosi pronto ad attaccare la flotta del Mediterraneo. Ma non si creda che fanno la storia quelli che sanno fare i pazzi: il candidato al manicomio Nasser sta ancora molti cubiti più sotto.
Potevano gli Inglesi sognare di ritirare i gendarmi e conservare la rendita? Potevano tanto sognare i Francesi?
Maggiore follia è quella degli Egiziani che puntano sulla carta sovranità, metafisicamente intesa, per cui la sovranità di un paese minuscolo sta nella bilancia a pari di quella dei paesi giganti.
Nasser avrebbe fatto conto sulla Russia, uno dei colossi. È, per questo che lo consideriamo un fesso. I giornali hanno pubblicato alla vigilia della conferenza a Londra, e prima che Scepilov, evento grandioso, si esibisse con l'abito a code, che i russi, nel XX congresso, avrebbero abbandonata un'altra delle teorie errate di Stalin, ossia il predominio politico internazionale dei grandi Stati sui piccoli, e la liberazione di questi dalla funzione di soggetti di satelliti e di vassalli. O poveri piccoli Stati! Non è questa una teoria creata da Stalin, che Stalin possa farsi venire l'uzzolo di abbandonare, o che possano togliere di circolazione i suoi esecutori testamentari! E non è il colonnelluccio del Cairo che può collocare al suo posto una teoria nuova: la santa sovranità degli staterelli anche tascabili. O la (più risibile ancora) fiducia che una simile teoria sia tenuta a rispettarla l'America, che la avrebbe predicata, o la Russia, campione del principio opposto: quello del pesce grosso che mangia il pesce piccolo.
Il fatto e la legge storica che i grandi Stati affettano il mondo come vogliono, colla guerra generale o colla (dio ci scampi e liberi) pacifica consistenza tra essi (pesci grossi), e che gli Stati minori sono nelle loro mani docile plastilina della carta terrestre a rilievo, dominano la storia da millenni, da due secoli di storia europea soprattutto, e in maniera clamorosa nelle due ultime grandi guerre, che solo cambiano di scanno alcuni dei Big: Giappone, Germania, e ve ne pongono nuovi, come la Cina.
Nasser non è andato alla conferenza. E sia. Ma Londra gli deve fare paura proprio perché vi siede la Russia. Questa difende lo stesso principio degli altri: chi se ne frega della sovranità sulle due rive di questi passaggi mondiali, nodi della rete internazionale dei traffici? Da che non vi è più un solo padrone imperiale, come al tempo in cui Albione si fece la strada (per noi è la vita, oltre che la strada, rispose un Benito di formato non deteriore) lungo il Mediterraneo, e tutti i Mediterranei, i padroni sono i tre o quattro big di turno, per i quali un Nasser conta meno di un caporale. Suez lo regoleranno loro. O chi tra loro vincesse la (lontana venti anni) guerra terza del mondo, senza che conti un centesimo se l'Egittino avrà militato tra i vincitori o tra i vinti.
Hitler, che era espresso da forze alquanto più serie, fu dal dettato di queste condotto ad una tremenda puntata fino a Creta. La mira e la posta era Suez; egli arrivava a intendere (o chi per lui) che la meta era più Suez che Dunkerque, da cui si ritrasse. Big non mangia Big. Nasseruccio, allegro. Non uscire dal rango dei commestibili.
A te, vecchia talpa!
Passeranno questi venti anni, e noi animaletti-uomo, noi consumatori beffati e intossicati, noi produttori di sforzi sempre più sgradevoli e inutili, li lasceremo passare pendendo dalle radio e dagli schermi a sentire frottole e ciance di tecnici, di esperti, di specialisti, di managers, di diplomatici, di politici, di filibustieri e di avventurieri, senza nulla imparare, o sempre più dimenticando quanto la classe operaia sapeva già bene al tempo in cui cominciavano a decorrere i cento anni di Suez?
Bene, arcibene, che gli istmi siano incisi da tagli formidabili (Suez resta il più lungo, se non il più complesso: 160 chilometri, il doppio di Panama) e che la rete degli allacciamenti internazionali cinga e ricinga il mondo mercantile del convivente capitalismo, come quella del reziario immobilizzava il barbaro gladiatore alla mercé del colpo di grazia. Un proletariato latitante straccia oggi le sue Internazionali, ma il capitale è dannato a ricostruirle sopra i mari e i continenti. Bene, arcibene, che i grossi poteri siano pochi e oscurino nell'impotenza i piccoli e numerosi, avvolgendoli nell'altra rete inestricabile e inallentabile di falsità, di menzogna, di frode, di oscurantismo filisteo e bigotto, sotto gli orpelli, divenuti intollerabili pel fetore, di tecnica, di scienza, di filantropia e di ascese verso il benessere. Bene, che i centri di questa scuola di superstizione e di corruzione siano sempre più pochi, e più evidenti da ogni angolo della terra.
Mentre essi ci propinano le false credenze di tutte le loro patrie e le loro religioni, e ci rileggono con falso puritanismo e blasfema oscenità le Bibbie di Cristo, di Mammone e di Demos, anche noi possiamo ripetere i nostri classici versetti, e dimostrare che sapevamo da allora, da prima che si tagliasse il canale, che bene sarebbero venute le concentrazioni vertiginose della ricchezza e del potere, il totalitarismo imperiale, l'oppressione monopolistica, lo Stato di partito, la Santa Alleanza dei grandi Mostri Capitalisti, più che mai rinsaldata dalle guerre terrestri. Bene, la Dittatura del Capitale, del Militarismo, dell'Affarismo, del Fascismo, benedetta a vuoto dai Preti di tutti i riti. Apriamo la nostra Bibbia!
"La rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. (...) Non ha condotto a termine che la prima metà della sua preparazione: ora sta compiendo l'altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l'unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: - Ben scavato, vecchia talpa!".
Col radar storico della dottrina di Marx, sui cui schermi non si legge menzogna, da osservatori che non abbiano ingozzato l'alcool della intossicante ideologia borghese, nella caligine dei fondali di Nantucket, nella tenebra delle murate tombe di vivi di Marcinelle, nel limo amaro degli stagni del deserto arabico, mentre le forze della Rivoluzione sembrano rintanate, e il Grande Capitale gavazza nel vivo sole, abbiamo ritrovata, intenta al suo lavoro inesausto, la Vecchia Talpa, che scava la maledizione di infami forme sociali, che ne prepara la non prossima ma certissima, distruttiva esplosione.

Da "Il Programma Comunista" n. 17 del 24 agosto-7 sett. 1956


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Vedi altre catastrofi in nomade n.7, dicembre 2013.
Cfr. "Il programma comunista" n. 6 del 18-31 dicembre 1952