Dada è stato tutto e niente.
Forse potrebbe essere questa laconclusione cui perviene, nell'accanito e retrospettivo dibattito sul movimento zurighese di oltre cinquant'anni fa, sovvertitore ed anarchico (strana coincidenza: accanto al «Cabaret Voltaire » si trovava la sede dove era esiliato Lenin), uno del massimi suoi biografi e protagonisti, Hans Richter nel tentativo di definire e ripercorrere quella ormai lontana cronologicamente ma assai più prossima, idealmente e ideologicamente, vicenda.
Dada e stato tutto e niente? E' un paradosso: ma Dada è un paradosso.
Come movimento rivoluzionario ha favorito l'involuzione del linguaggio artistico negli esiti del Surrealismo — la sua letteratura come anarchia anti-artistica ha avuto lo stesso destino (ma è il decorso di una malattia breve e fulminante) di proliferare e anticipare tanti e tali germi artistici da desiderare, per reazione a quelle insuperabili promesse gia realizzate e ormai splendidamente organizzate, il limite definitivo, il « non plus ultra » invocato della « morte dell'arte », di antica, hegeliana memoria.
Tant'è che la più avanguardistica delle correnti artistiche di questo secolo, a oltre cinquant'anni (Dada è nato ufficialmente nel '16) di esperienza storica sedimentata attraverso le più tormentate peripezie estetiche, ha finito col decretare la morte del concetto stesso di avanguardia; tanto le indicazioni dadaiste hanno portato all'esaurimento di quelle premesse in fieri nell'accorto svolgimento e metodica logica degli sviluppi posteriori, al punto di domandarci se sussiste ancora un'esperienza artistica (persino un morfema stilistico) che non abbia attinto a quella doviziosa, insuperata fonte.
Dopodichè Dada, oltre ad essere, e forse più che essere un movimento artistico che ha scardinato le porte sacre dell'arte — consentendole tuttavia una nuova sacralità —, è stato il catalizzatore che ha reso possibile ogni tipo di reazione chimica, per dirla metaforicamente, e con tutti i reagenti a disposizione, provocando ogni sorta di combinazioni chimiche, pur avendo la facoltà di non prendervi apparentemente parte.
Dopo Dada è successo tutto e, sembra, non può più succedere niente.
Tutto ciò non è un caso.
Il fatto stesso che a tanta distanza di tempo i protagonisti del movimento Dada non solo non siano d'accordo, ma rinuncino addirittura a ricostruire l'origine di quella designazione, ammettendo chiaramente e l'impossibilità di una storicizzazione di un semplice nome (come invece è accaduto per tutte le altre correnti del XX secolo) e la nullità — come appunto fa Richter — del valore che se ne puo trarre, ai fini di una maggiore comprensione delle intenzioni o fini del movimento, se non come puro fatto e acquisizione filologica, dall'impostare dunque un simile problema, dimostra dunque, quasi come una volontaria tautologia non passibile di ulteriori interpretazioni, di successive aggiunte o cancellature, di correzioni o rettifiche ad uso dei posteri sospetti, che il valore dei programmi dadaisti, inconsci o consapevoli che siano, proprio per la loro intrinseca e non indagabile ambivalenza, è interamente compreso in questo vicolo cieco, nell'ammettere e nel postulare un'alternativa e una alterità di valore, e, con lo stesso spirito di indifferenza e cinismo, nel negarla.
Il nihilismo di Dada è la sua forza.
A Dada è permesso tutto, perché Dada è contro tutto, anche contro se stesso.
A Dada è concessa la critica e l'autocritica, il giudizio distaccato e il coinvolgimento massimo e immediato, con lo stesso metro della costruzione e della distruzione, contemporaneamente.Lo scandalo organizzato, tipico dei Surrealisti, non è l'obiettivo di Dada, perché Dada non vuole essere un sistema, sia pure un sistema della protesta e della contestazione teleologica elevata a dogma, a neo-metafisica, a sicura ontologia...
Dada è una riserva di libertà assoluta, di liceità e di non liceità: scegliere i confini di assunzione e di scelta sembra essere l'ulteriore e più proficuo schiaffo che Dada ha provocato nel mondo, nel pensiero, di fronte alla storia, per se e per gli altri. E' difficile, ora, scindere le proprie responsabilità in esperienze plausibili. La competizione di Dada non ammette la ripetizione.
L'apochè di Duchamp, l'accumulo della realtà vissuta e scartata, e poi riproposta in immagine, di Scwitters, la tabula rasa di Arp — che sceglie il caso a principio interpretativo ed espressivo —, la parodia macchinistica di Picabia, in cui non si sa se essa giochi il ruolo di protagonista o di oggetto, la fotografia di Man Ray che confonde la pittura con la fotografia e viceversa, sono gli aspetti d'indagine di Dada, con tutti i procedimenti e le particolari tecniche adottate e messe in luce, che convergono nell'unico obbiettivo di sconfiggere e redimere la realtà apparente ed oggettiva in uno scambio di fini con quella soggettiva, di invertire i termini delaa attendibilità del costruito a-priori senso delle cose, di corrodere col proprio inesauribile serbatoio critico l'impalcatura mitica del comportamento, di « scegliere come bersaglio la base stessa della società: il linguaggio inteso come eterno mezzo di comunicazione », a detta del suo stesso teorico, Tristan Tzara.Ma a differenza del ritorno alle origini dell'Espressionismo (« Il fine è l'origine ») al relativismo rappresentativo del Cubismo (un'immagine piatta resa ancora più plastica da una netta gnoseologia rappresentativa), Dada non ha contenuti, rifiuta in blocco l'idea stessa di parlare se essa deve condurre a qualcosa di funzionale o di sovrapponibile o di interpretativo, verso il limite sondato dell'autonomia.
Se affermare e negare sono le facce della stessa moneta non convertibile del presente, Dada si scarica alle spalle, battendo moneta propria, la superstizione acquisita, canonica dell'affermazione e della negazione.
Gli estremi si toccano: per non affermare veramente, per non incorrere nell'impacciato arbitrio (il mondo è un arbitrio) di partecipare alla realtà dissuadendone la portata e dissociandosi da essa, non basta dunque negare, occorre affermare e negare continuamente, nello stesso tempo.
Una delle manifestazioni attinenti a questa conclusione (una conclusione che non si conclude mai) sul piano espressivo, e la scelta questa volta non è casuale, è il cinema, inteso come sperimentazione tecnica immanente, come stacco successivo di fasi unite e smentite nella sintesi dello svolgimento temporale, ricostruite nella associazione libera, mentale, automatica dell'osservatore.
[Il mezzo filmico, potrebbe dirsi, riassume la tecnica stessa, lo scatto stesso della molla Dada, con la sua avversione per l'immagine statica, interpretativa in cui l'attore diventa spettatore, e lo spettatore oggetto, oppure in cui è proprio l'oggetto che diviene protagonista esclusivo di una vicenda senza più trama, senza connotazioni controllabili, senza via d'uscita.]
Il concetto della ricostruzione è importante per Richter, come quasi per tutta la poetica del Dadaismo, quanto quello della disgregazione, sottolineando il fatto che il processo dissociativo Dada, ben diverso dunque da quello deformatore espressionista e da quello scompositivo cubista, nasconde in realtà « dietro — come suggerisce Fagiolo — un metodo rigoroso.
C'era la volontà di ricominciare a compilare i frammenti del mondo (dada richiama anche il primo balbettare del bambino...) ».
Di questa ricostruzione a ritroso, inconsciamente sperimentata con tutte le armi liberate dall'innocente affermazione di Kandinsky, già qualche anno prima, « tutto è lecito », Hans Richter è stato, senza risparmio di risorse, un protagonista.
Il ruolo di Richter in seno al Dadaismo è centrale ed eversivo allo stesso tempo.
Intervento Critico, Roma 1978
Ciò dipende dalla sua diretta e tempestiva azione all'interno di Dada, e alla più distaccata funzione, di chiarificazione e di selezione assimilatrice delle influenze e delle condizioni più diverse cui Dada andò soggetto lungo la sua corrosiva stagione proibita: riabilitata secondo il suo inverso, corruttore e ostico cammino, essa fu ripercorsa da Richter nella sua interezza estensiva, nella sua incomparabile potenzialità di applicazione, con la stessa indifferenza e con la stessa partecipazione, con la stessa attitudine analitica nei confronti della realtà estetica e dell'oggetto artistico, con cui si era attentato alla sua più completa ed esauriente demolizione.
Coscienti che quello che si attraversava era un vuoto assoluto morale e storico, si proponeva un linguaggio inedito, di cui non si conoscevano pure i termini, con la scusa di non volerne nessuno. L'alibi di Dada era la sua nullità, ma la sua nullità era il
suo obbiettivo. Quando Richter espone nel '16 al « Cabaret Voltaire » era ancora legato ai motivi del « Blaue Reiter »: il che dimostra come l'adesione incondizionata a Dada fosse di origine prettamente linguistica.
Con Eggeling esperimenta la sua pittura su rulli (i famosi rotuli “Prelude”), i cui rapporti col cinema, come scoperta di un nuovo e più pertinente linguaggio che avesse un fine personalmente emotivo, sono direttamente consequenziali e coincidenti.
L'immagine pura è sempre il fine di Richter, che confessa « ho seguito la mia natura, talvolta ho seguito la voce dell'ordine e della coscienza, delle pianificazioni strutturali e della forma geometrica, ma pure la voce del caso e del disordine, della più libera improvvisazione, del momento ».
Basta scorrere la sua biografia per accertarsi che è stato l'inventore del film astratto, il fondatore della rivista G di tendenza costruttivista, che raccoglie tutti gli scritti (o quasi) dei dadaisti, nonché l'interprete riflessivo e stimolatore della rivoluzione linguistica Dada.
Ma è dal ‘10 al '18 che avviene la formazione di Richter, ed è, cioè dall'epoca del suo primo tirocinio nelle correnti e nel clima dell'avanguardia fino a immediatamente dopo il suo ingresso ufficiale nel movimento Dada che è da rintracciare il perno risolutore della maturazione espressiva ulteriore, che procedendo per diverse tipologie d'immagine consegue i risultati più propri e più sicuri, a tutt'oggi indicativamente attuali (e ce ne si accorgerà quando la cronaca artistica diverrà storia) fino alle prove ed esperienze relativamente recenti, dal dopoguerra a tempi presenti, in cui l'incisività delle soluzioni trova un preciso riscontro nei motivi e nelle esigenze intenzionali che li hanno determinati, come in una distillata e diluita, quindi più probante, verifica comunicativa: una verifica che è comunque la verifica dell'esiguo limbo della terra di nessuno gnoseologica, della lucida tautologia e dello zero assoluto.
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Il testo di Tullio è apparso in Carte Segrete, Anno VI, ottobre-dicembre 1972, n. 20