SCORPION UND FELIX . Humoristischer Roman |
Karl Marx . Berlino 1837
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Libro Primo
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Come promesso nel capitolo precedente, dimostreremo ora che la suddetta somma di venticinque talleri appartiene al buon Dio in persona.
Essi sono senza padrone! Sublime pensiero, nessun potere umano li possiede, eppure il potere maestoso che veleggia sopra Ie nuvole abbraccia ogni cosa, quindi anche i suddetti venticinque talleri; dunque esso lambisce con Ie sue ali - che sono intessute di giorno e notte, di sole e stelle, di immense montagne e infiniti fondali di sabbia, che risuonano come armonie, come lo scroscio della cascata, fin dove la mano del terrestre non giunge piu - anche i suddetti venticinque talleri, e... ma non posso continuare, il mio intimo e agitato, getto uno sguardo su ogni cosa e in me stesso e sui suddetti venticinque talleri, quale spunto di riflessione in queste tre parole, il loro punto d'osservazione e l'infinito, risuonano come note angeliche, ricordano il giudizio finale e il fisco, poiché... era Greta, la cuoca, colei che Scorpione, eccitato dai racconti del suo amico Felice, rapito dalla sua fiammeggiante melodia, sopraffatto dal suo fresco sentimento giovanile, strinse al suo cuore, intravedendo in lei una fata. Ne concludo che Ie fate portano la barba, poiché Maddalena Greta, non la Maddalena penitente, simile a un guerriero molto onorato, sfoggiava gote e baffi, i morbidi riccioli si stringevano crespi attorno al mento ben scolpito il quale, simile a una roccia sul mare solitario che gli uomini scorgono ma da lontano, gigantesco e orgogliosamente consapevole della sua natura sublime, sporgeva dalla piatta zuppiera del viso, fendendo l'aria, commuovendo gli dei, sconvolgendo gli uomini. Pareva che la dea della fantasia avesse sognato una bellezza barbuta e che si fosse persa nelle magiche contrade del suo volto ciarliero e, quando si destò, fu Greta stessa ad aver sognato, e una cosa terribile: che lei era la grande meretrice di Babilonia [1], l'apocalisse di Giovanni e l'ira di Dio, che aveva fatto spuntare un campo di stoppie puntute sulla pelle solcata da lievi linee ondulate, affinché la sua bellezza non istigasse al peccato e la sua virtù fosse protetta, come la rosa dalle spine, affinché il mondo comprendesse e per lei non si accendesse. 12
«Un cavallo, un cavallo, un regno per un cavallo» disse Riccardo III.[2]
«Un uomo, un uomo, me stessa per un uomo» disse Greta. 16
« In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo e il Verbo si fece carne e abitò fra di noi, e noi vedemmo la Sua gloria.»[3]
Bel pensiero innocente! Eppure Ie associazioni di idee condussero Greta più lontano, ella credette che il Verbo dimorasse tra Ie cosce; come Tersite in Shakespeare, secondo cui Aiace aveva Ie viscere nella testa e il cervello nel ventre [4], lei, Greta, e non Aiace, se ne convinse e comprese il modo in cui il Verbo si era fatto carne, situò tra Ie cosce la sua espressione simbolica, vide la loro gloria e decise... di lavarle. 19
Ma lei aveva grandi occhi azzurri, e gli occhi azzurri sono banali come l'acqua della Sprea.
Emana da loro una stupida e nostalgica innocenza che compatisce se stessa, un'innocenza slavata; quando il fuoco Ie si avvcina essa si scioglie in vapore grigio, e non resta nient'altro dietro questi occhi, tutto il loro mondo è azzurro, la loro anima tinge d'azzurro ogni cosa, invece gli occhi castani, essi sono un regno ideale, in essi riposa un mondo notturno infinito e splendente, da essi divampano in alto lampi dell’anima, e i loro sguardi risuonano come Ie canzoni di Mignon [5], come un lontano e delicato paese al glutine, in cui abita un dio ricco che si bea della sua stessa profondità e, immerso nel tutto della sua esistenza, irradia d'infinito e patisce di esso. Ci sentiamo come avvinti da un incantesimo, vorremmo stringere al petto l’essenza melodiosa, profonda e piena di sentimento e suggere dai suoi occhi lo spirito e trasformare i suoi sguardi in canzoni. Amiamo il mondo rigoglioso e movimentato che ci si schiude, vediamo sullo sfondo pensieri di sole incredibilmente alti, intravediamo una sofferenza demonica, mentre figure dai movimenti leggeri — che guidano dinanzi a noi la colonna danzante — ci fanno cenno e, non appena vengono riconosciute, indietreggiano timide, come la Grazia. 21
Di certo Felice non si staccò dolcemente dagli abbracci del suo amico, poiché non coglieva la sua natura profonda e sentimentale e, in quel momento, era impegnato nella prosecuzione... delta sua digestione, alla cui grandiosa attività imponiamo ora, una volta per tutte, di porre fine, dato che ci impedisce di proseguire.
Così pensava anche Merten, poiché il colpo violento che travolse Felice era stato inferto dalla sua grande e storica mano. II nome Merten ricorda Carlo Martello, e Felice credette di essere stato davvero accarezzato da un martello, perché la scossa elettrica che sentì era legata a tale gradevole sensazione. Spalancò gli occhi, barcollò e pensò ai suoi peccati e al giudizio finale. Io invece mi lambiccavo sulla materia elettrica, sul galvanismo, sulle dotte lettere di Franklin alla sua geometrica amica e su Merten, poiché la mia curiosità è tesa oltremodo a scoprire cosa può nascondere questo nome. Che il nome stesso derivi in linea diretta da Martello, non è da dubitare: il sacrestano me lo assicurò, benché a quel periodo manchi ogni armonia. La l si trasformò in una n, e poiché, come sa ogni cultore di storia, Martello è un inglese — mentre in inglese la a suona spesso come il tedesco eh, che in Merten coincide con e — allora Merten potrebbe essere davvero un'altra forma di Martel (Martello). In conclusione, poiché tra gli antichi tedeschi il nome — come risulta da parecchi epiteti quali Krug, il Cavaliere; Raupach, il Consigliere di Corte; Hegel, il Nano — esprime il carattere del suo portatore, Merten sembra essere un uomo ricco e onesto, benché egli sia di professione un sarto e in questa storia sia il padre di Scorpione. Quest'ultima cosa giustifica una nuova ipotesi: poiché in parte è sarto e in parte suo figlio si chiama Scorpione, e molto probabile che discenda da Mars, il dio della guerra, genitivo Martis, accusative greco Martin, Mertin, Merten, dacché l’arte del dio della guerra è tagliare, in quanto taglia via braccia e gambe e fa a pezzi la felicità terrena. Inoltre lo scorpione è un animale velenoso, che uccide con lo sguardo e Ie cui ferite sono letali, il cui lampo d'occhi annienta — una bella allegoria dunque per la guerra, il cui sguardo uccide, Ie cui conseguenze imprimono a chi ne è colpito cicatrici che sanguinano interiormente e che non si rimargineranno più. Poiché invece Merten possedeva una natura meno pagana, anzi era di indole molto cristiana, sembra ancora più probabile che discenda da San Martin, un piccolo scambio di vocali dà Mirtan — la i suona spesso nel linguaggio popolare come e, ad esempio gib mer anziché gib mir [6] e la a in inglese, come già indicate, suona spesso come eh che, nel corso del tempo, si trasforma facilmente in e, soprattutto in una cultura che evolve; sicché il nome Merten nasce in modo del tutto naturale e significa "sarto cristiano". Benché questa derivazione sia assolutamente probabile e profondamente fondata, tuttavia non possiamo far a meno di proporne ancora un'altra, che riduce molto la nostra fede in San Martin, il quale potrebbe semmai valere solo come patrono protettore, giacché, per quanto ne sappiamo, non è mai stato coniugato, e dunque non poteva neppure avere un successore maschio. Tale dubbio sembra accresciuto da quanto segue. L'intera famiglia Merten condivideva con il Vicario di Wakefield [7] la caratteristica di sposarsi appena possibile, e quindi brillava prima del tempo, di generazione in generazione, nella corona di Myrthe [8], il che, senza far appello ai miracoli, già basta a spiegare che Merten sia nato e figuri in questa storia come padre di Scorpione. Myrthen dovrebbe perdere la h, poiché con il matrimonio spunta fuori la eh [9], quindi la he cade, per cui Myrthen divenne Myrten. La y e una v greca, e non una lettera tedesca. Poiché ora, come dimostrato, la famiglia Merten era una stirpe autenticamente tedesca e al tempo stesso una famiglia di sarti molto cristiana, allora la pagana y straniera dovette trasformarsi in una i tedesca e, posto che in quella famiglia il matrimonio [10] è l'elemento dominante — ma la i è una vocale stridula e dura, benché i matrimoni dei Merten fossero molto dolci e miti — allora fu trasformata in una eh e più tardi, affinché non ci si accorgesse dell'audace cambiamento, in una e — la cui brevità reca anche traccia della risolutezza nel contrarre i matrimoni — sicché Myrthen raggiunge l’apice del suo compimento nel tedesco e polisemico Merten. Dopo questa deduzione avremmo collegato il sarto cristiano di San Martin, il solido coraggio di Martello, la rapida risoluzione del dio della guerra Marte con l’abbondanza di matrimoni, che risuona dalle due e di Merten, ipotesi, questa, che riunisce in sé e al tempo stesso invalida tutte quelle proposte sinora. Di diversa opinione è lo scoliasta che, con grande zelo e con sforzo incessante, ha messo per iscritto i commenti al vecchio storico, da cui proviene la nostra storia. Benché noi non possiamo abbracciare la sua opinione, tuttavia essa merita un apprezzamento critico, giacché è scaturita dallo spirito di un uomo che univa a una straordinaria erudizione una grande capacità di fumare — per cui Ie sue pergamene erano avvolte dalla sacra esalazione del tabacco ed erano quindi state riempite di oracoli in un sibillino entusiasmo d'incenso. Egli crede che Merten debba derivare dal tedesco Mehren (aumentare) e da Meer (mare), perché i matrimoni dei Merten sono gemehrt (aumentati), come la sabbia del Meer (mare), perché inoltre nel concetto di sarto è nascosto il concetto di Mehrer (colui che aumenta), in quanto fa di una scimmia un uomo. Su queste ricerche scrupolose e malinconiche egli ha costruito la sua ipotesi. Quando Ie lessi, mi afferrò come un vertiginoso stupore, l’oracolo del tabacco mi rapì, ma presto si destò la ragione che discerne freddamente e che oppose Ie obiezioni che seguono. Posso concedere semmai al suddetto scoliasta che nel concetto di sarto vi sia il concetto di Mehrer, ma non deve esservi incluso in alcun modo il concetto di Minderer (colui che diminuisce), poiché questo comporterebbe una contradictio in terminis, per Ie signore, vale a dire: il buon Dio nel diavolo, un motto di spirito in un salotto da tè, e loro stesse come filosofe. Se però Mehrer fosse diventato Merten, la parola sarebbe evidentemente diminuita di una h, quindi non sarebbe aumentata, il che è stato dimostrato come sostanzialmente contraddittorio alla sua natura formale. Dunque Merten non puo derivare in alcun modo da Mehren, e a confutare che scaturisca da Meer sta il fatto che Ie famiglie Merten non sono mai cadute in acqua, e neppure sono mai state infuriate dalla tarantola, bensì sono state una devota famiglia di sarti, il che contraddice il concetto di un mare fortemente impetuoso — dall'insieme di questi motivi discende che, nonostante la sua infallibilità, il suddetto Autore ha sbagliato e che la nostra deduzione è l'unica giusta. Dopo questa vittoria sono troppo affaticato per proseguire oltre e voglio bearmi della felicita di esser soddisfatto di me, poiché un solo istante di felicità, come afFerma Winkelmann, vale più di tutte Ie lodi della posterità, benché di questo io sia convinto quanto Plinio il Giovane. 22
« Ovunque tu guardi, vedi soltanto Scorpione e Merten, quello gonfio di lacrime, questo obnubilato dall'ira ».
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Ovidio sedeva a Tomi, scaraventato lì dall’ira del dio Augusto poiché possedeva più genio che intelletto.
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« Ignoranza, sconfinata ignoranza ». 28 « Evidentemente sulla luna, sulla luna ci sono Ie pietre lunari, nel petto delle donne la falsità, nel mare sabbia e sulla terra montagne! » replicò l'uomo che bussò alla mia porta senza aspettare che io gli dicessi di entrare. 29
Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo che, affastellando pensieri su pensieri, illuminò il mio sguardo e apparve davanti ai miei occhi una configurazione luminosa.
II maggiorascato è la lisciviatrice dell’aristocrazia, poiché una lisciviatrice serve solo per lavare. Ma il lavaggio sbianca, dando così una pallida lucentezza al bucato. Allo stesso modo il maggiorascato inargenta il figlio primogenito della casa, dandogli così un pallido color argento, mentre agli altri membri imprime il pallido colore romantico della miseria. Chi fa il bagno nei fiumi, si getta contro l’elemento scrosciante, combatte la sua furia e lotta con braccia vigorose; ma chi siede nella lisciviatrice vi rimane chiuso e contempla gli angoli delle pareti. |