La domanda che mi pone nomade è la seguente: si può fare ricerca antropologica nella città?
Sarei portato a rispondere negativamente. Forse si può fare etnografia, si può descrivere, ma fare antropologia, pretendere di spiegare, questo è molto più difficile. A meno che… Direi di più (e lo dico a mio discapito): le ricerche di antropologia urbana fatte dagli antropologi rischiano di fare danno; gli antropologi per loro mestiere sanno ordinare, classificare, distinguere, sono abituati a farlo con le società più semplici e spesso lo fanno bene, ma, come annotava un antropologo molto sui generis Michail Bachtin in uno dei suoi ultimi scritti (1974), “manca all’antropologia una comprensione dell’aleatorio e dell’inatteso in quanto provvisti di valore, della ‘sorpresa’, per così dire, dell’assoluta novità, del miracolo etc..”. E se volete un’altra citazione nobile vi posso offrire quella di un grandissimo teorico della mia disciplina, Rodney Needham:
Intendiamoci gli architetti hanno fatto peggio.
Naturalmente Balzac si era ben guardato dall’attraversare l’oceano, dall’andare a vedere di persona, ma come spesso diceva immaginava per analogia: se New York non era così lo sarebbe diventata, come diceva di Parigi.
E’ dopo il 1848 che la città comincia a fare paura.
La velocità e l’acciaio segnano la seconda parte della storia della città contemporanea: almeno fino a tutti gli anni ’80.
Qualcosa di molto simile alla nozione di gioco in Wittgenstein. Ancora negli anni ’50 tutto ciò sembrava più che utopia, esercizio di maniera, parto di menti creative o peggio anticipazione del ’68, progetti politici di liberazione poco sensati. Alla fine degli anni ’50 Constant realizza i suoi modelli per una nuova Babilonia: quelle costruzioni sollevate dal suolo, attraversate per ogni verso da percorsi trasparenti, leggere, quasi eteree, pronte a prendere il volo per altri ancoraggi, ma al tempo stesso disposte in moduli che possono saldarsi in continuità e negli ordini più diversi. E Debord disegna le sue piante immaginarie, prospettive di percorsi urbani, carte geografiche dove spazi pieni si alternano al spazi bianchi, dove si incrociano direzioni impossibili e percorsi insensati. > |
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Metropolis 2007
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E’ più o meno in questo periodo che anche gli antropologi cominciano a scoprire ‘l’immagine di città’ (Image of the city, a cura di Lynch è del 1960), cominciano a fare indagini non nella città, ma nell’unico luogo dove la città esiste, nella testa della gente.
Si tratta di un passaggio decisivo per avviare un percorso antropologico, ben distinto da quello dei sociologi: dallo studio della città allo studio dell’immagine di città. E, come spesso accade, proprio a partire dalla testa della gente si scoprono prospettive nuove: le mental maps non solo ridisegnano la città, ma ridisegnandola riconducono anche a scoprire quegli spazi della vita urbana che le carte geografiche non possono segnalare: come quell’aiola della fermata del tram dove il Marcovaldo di Calvino, scopre funghi, belli grassi, per una buona frittura. Quel che è successo nell’ultimo mezzo secolo è sotto gli occhi di tutti. La città è diventata nomade e molto più di quanto potessero immaginare i situazionisti, nei loro progetti folli e nelle loro mappe urbane insensate. Altro che i gruppi di zingari che osservava Constant: nella città si incrociano identità, lingue, religioni, storie di vita fra loro lontanissime, spesso forse incomprensibili l’una all’altra. Prendete una di quelle mappe urbane della New Babylon e confrontatela i disegni di città dei diversi gruppi di emigrati (mental maps): vi ritrovate lo stesso alternarsi di addensamenti e spazi bianchi, frecce che corrono nel vuoto, nodi del sistema di trasporto, mense Caritas. Fate lo stesso esperimento per i più poveri e scoprirete una città invisibile, che ha forme e nomi segreti. Il nomadismo penetra attraverso le strade più impensate: attraverso la strada etnica, religiosa, commerciale, attraverso la strada degli amori e dei piaceri, quella del lavoro e della miseria, ma principalmente lungo le strade della comunicazione, dei percorsi e delle immagini virtuali. Il nomadismo è l’ultima grande minaccia alla città. Il senso del vagare sta nel vagare stesso, e alla fine del percorso non c’è più il centro, ma la distruzione di ogni centro, di ogni unità linguistica, di ogni verità. Nella Trilogia di New York Paul Auster, o chi per lui, insegue un uomo, un potenziale assassino che lo trascina per le strade della città. Ogni giorno per percorsi diversi, ma a segnarli su una carta ogni giorno quei percorsi formano una lettera, nell’insieme una parola: una parola inizialmente incomprensibile OWEROFBAB, ma presto chiarissima. Mancava una T iniziale e una EL finale… “Poi offrendo un’ultima resistenza al sonno, si disse che in antico ebraico EL era il nome di Dio”. Tutte le grandi città sono in lotta contro il nomadismo: ovunque nascono le nuove garden cities; sono state chiamate in vario modo: città fortificate, città chiuse, città murate: l’importante questa volta è che ci sia un muro di cinta e un servizio di polizia privata. Il fenomeno è cominciato negli Usa, ma si è esteso presto in America latina, e poi in Europa, in Asia e in Africa. Intorno a Buenos Aires o a Rio ne sono sorte a decine, in qualche caso con migliaia di abitanti, scuole, cinema, teatri, posti di cura, supermercati. A volte e sempre più di frequente sono grandi condomini, decine di piani, di scale e di corridoi interni, centinaia di famiglie, e anche qui cinema e supermercato, spazi sociali e servizi. In America e in Asia sono numerosi. Ora sembra abbiano progettato il più grande: un mega condominio per mille e duecento famiglie a Mosca, con alberghi e piscine, giardini pensili e quant’altro. L’ultima città! Consiglierei all’architetto di farsi una passeggiata al serpentone e di leggersi un paio di volte Il Condominio di Ballard, per evitare quei piccoli inconvenienti che scatenarono alla fine del libro la guerra di tutti i piani contro tutti i piani. Ma il nomadismo è ancora un momento intermedio, o, se si vuole, solo l’aspetto più tangibile ed evidente di un altro fenomeno ben più radicale: la dissoluzione stessa della città. E prima di essa del cittadino. Balzac per primo e dopo di lui tanti, fino a Georg Simmel (La metropoli e la vita dello spirito) e a Luis Wirth (L’urbanesimo come modo di vita) hanno sottolineato quel che sembra evidente, ma spesso non lo è: il fatto elementare che perché vi sia la città devono esservi i cittadini. I cittadini: quegli individui che alla mattina si alzano tutti più o meno alla stessa ora, che vanno in ufficio, che hanno una famiglia regolare, con genitori e figli al posto giusto, e delle case regolari, con la stanza piccola per gli ospiti di passaggio, che hanno uno stipendio regolare, che avranno una pensione regolare. Che danno senso insomma alle regole della città e che in particolare regolano lo spazio e il tempo. La città a partire dalla Parigi capitale studiata da Benjamin era stata costruita per loro. E Benjamin studia quelle regole: i cittadini diventano cittadini quando per la prima volta si comincia a prendere l’omnibus per andare regolarmente a lavoro, quando l’omnibus fa almeno due fermate in città, invece di conoscere solo la strada per la campagna, quando accanto al laboratorio artigianale appaiono le prime vetrine con esposta la merce e con il cartello ‘guardare e non toccare’, quando nasce qualcosa di simile al nostro bar, e l’uso di comprare il giornale quotidiano, perché non bastano più le voci che corrono, quando fra i ricchi e i poveri cresce una classe intermedia che costruisce case intermedie, partecipa di piaceri intermedi, usufruisce degli spazi intermedi, vive una vita intermedia. Il trionfo della città si celebra con la televisione (Benjamin parlava del cinema): ora si può sapere cosa fanno e guardano i cittadini anche dietro le loro porte e finestre. La città è fatta principalmente per loro e attraverso loro. Ma se spariscono questi cittadini che senso hanno più le regole della città? E il fatto è che questi cittadini stanno sparendo. Non per qualche rivoluzione di classe come previsto da Carlo Marx, ma per altro genere di rivoluzione. Qualcosa che ha molto a che vedere con quei fenomeni che a seconda dei punti di vista chiamiamo la liberazione dal lavoro, diminuzione del tempo lavoro, lavoro flessibile, lavoro precario, telelavoro, riduzione progressiva della differenza fra tempo libero e tempo lavorativo, ma anche passaggio dalla televisione, dalla biblioteca, dal museo, dalla chiesta e dall’ufficio postale, dal mercato rionale e dall’appuntamento in piazza, a tutto quello che accade e che si può fare accadere e che accadrà attraverso la rete. Al cittadino lavoratore si sostituisce progressivamente quello che Constant chiama homo ludens: nel senso di Huizinga, un uomo che possiede solo regole generalissime, ma che all’interno di queste deve inventarsi continuamente, “che interrompe, cambia, intensifica, che insegue i percorsi e nel passaggio lascia tracce delle sue attività. Più che strumento di lavoro lo spazio per lui si trasforma in un oggetto di gioco. Siccome non necessita di spostamenti rapidi, può intensificare e complicare l’uso dello spazio, che per lui è principalmente un terreno di gioco, di avventura e di esplorazione. Il suo modo di vita verrà favorito dal disorientamento, che farà in modo che l’uso del tempo e dello spazio sia più dinamico”. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che un’altra fetta di medioevo è finita. Sarà questione di due, tre generazioni, diciamo un secolo, ma la città dei nostri piani regolatori non avrà più senso e nessuno ha veramente idea di quale sarà lo stato della scienza e del mondo fra un secolo. Di certo possiamo solo intravedere che le metafore possibili per descriverlo non saranno neanche più quelle del labirinto o della foresta, forme comunque statiche, ma piuttosto quelle che in modi diversi rimanderanno al movimento, alla trasformazione, al transito, alla navigazione nella rete, all’opposizione fra ciò che risiede e ciò che attraversa. Ripropongo allora la domanda di nomade: è possibile fare ricerca antropologica su un mondo che cambia ad una velocità che gli strumenti tradizionali dell’antropologia non sono in grado di registrare? Forse sì.. a patto di usare categorie adeguate, categorie che non pretendano di spiegare, ma che si dispongano piuttosto sul versante della descrizione. Se qualcosa si può chiedere all’antropologia urbana è semplicemente di mettere la propria esperienza descrittiva al servizio del cambiamento, facendo quello che sa fare: operare per smontare gli apparati di idee, di immagini e ancora prima di ‘parole’ che lavorano in senso contrario. Non per amore del progresso, che non sappiamo bene cosa sia, né per sete di generica giustizia e uguaglianza, condizioni che da sempre ognuno definisce a modo proprio, ma semplicemente perché (ancora una volta tocca dirlo con Voltaire)
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