|
||||||||
§ Nota 5 - “La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o sé stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale. Questo, in linea generale, è il significato positivo della parola parresia nella maggior parte dei testi greci in cui essa ricorre, dal V secolo a.C. al V secolo d.C.” [Michel Foucault, Discorso e verità, ed. Donzelli, Roma 1996,2005, p.9-10]. § Nota 7 - “Quando sono venuto a Parigi, pochi giorni fa, vi ho detto che prima di avere duecento dipinti non potevo fare nulla. Quello che ad alcuni sembrerebbe un lavorare di fretta è lo stato normale di una produzione regolare, considerando che un pittore deve lavorare veramente tanto quanto un calzolaio, per esempio.” [Vincent a Theo, Saint-Rémy 12 febbraio 1890 (n. 854-626)]
§ Nota 2 - “La proprietà sul bene di consumo al momento del suo impiego, sarebbe bene non chiamarla col termine di proprietà, sia pure seguito dagli aggettivi: personale, individuale. Essa consiste nel rapporto per cui chi sta per sfamarsi tiene in mano il cibo e nessuno vieta che lo porti alla bocca. Anche nelle scienze legali tale rapporto non si definisce bene come proprietà, ma come possesso. Il possesso può essere di fatto e materiale, ovvero anche di diritto e legale, ma implica sempre il “tenere nel pugno”, la fisica disposizione della cosa. La proprietà è il rapporto per cui si dispone di una cosa, senza che si debba tenerla nelle mani, per effetto titolare di un pezzo di carta e di una norma sociale. La proprietà sta al possesso come in fisica l’actio in distans di Newton sta all'azione di contatto, alla diretta pressione.” [Elementi dell’economia marxista, testo di partito (Programma Comunista)] § Nota 5 - « Ti dico che si desidera essere attivi non bisogna aver timore di fallire né di sbagliare. Molti ritengono di diventare buoni evitando di fare del male! È una menzogna e tu stesso dicevi che era una menzogna. Non porta che al ristagno e alla mediocrità. Non c’è che da buttar giù qualcosa quando si vede una tela vuota che ci sta a guardare in faccia con una sorta di imbecillità. Non hai idea di quanto possa paralizzare lo stare a fissare una tela vuota: è come se dicesse al pittore Non sai far nulla. La tela ti sta a guardare come un idiota ed ipnotizza alcuni pittori, a tal punto da farli diventare degli idioti essi stessi. Molti pittori hanno paura della tela vuota, ma la tela vuota a sua volta ha paura di un pittore appassionato che sia anche audace – che una volta per tutte abbia rotto l’incantesimo del “non sai fare” ». [Vincent a Theo, Nuenen 2 ottobre 1884 (n. 464-378.79)]
§ Nota 6 - “Al mercato delle pulci (Vincent) aveva comprato un paio di vecchie scarpe pesanti, massicce, da carrettiere, ma pulite e tirate a lucido. Erano dei grossi scarponi che mancavano di fantasia. Li indossò un pomeriggio che pioveva e partì per una passeggiata lungo i bastioni. Sporche di fango, le scarpe divennero interessanti…. Vincent copiò fedelmente il suo paio di carpe.” [Francois Gauzi, condiscepolo di van Gogh nell’atelier Cormon nel 1886-1887] § Nota 10 - “Ritroviamo questa visione delle scarpe dell’artista come oggetto intimo e privato, in una litografia di Daumier che rappresenta un pittore triste e infelice davanti all’ingresso del Salon annuale, nell’atto di mostrare ai passanti un dipinto raffigurante un paio di scarpe, evidentemente le sue. L’etichetta di protesta dice: “Lo hanno rifiutato, quegli stupidi!” [M. Schapiro, Ulteriori annotazioni (1994) a L’oggetto personale… in Semiotiche della pittura, cit. p. 202]. Nella lettera del 21 marzo 1884 (n.436-362) Vincent manifesta una vibrante irritazione nei confronti del fratello, riguardante diverse questioni; tra le altre scrive: “Quel che mi dici del mio lavoro sono sciocchezze – dico che è sciocco dirmi come giudicherebbe il mio lavoro un giudice del Salon quando non ho mai detto una sola parola che potesse indicare una mia intenzione di mandarlo al Salon, penso sia cosa sciocca e priva di senno… oh, ci sono altre cose che ritengo sciocche e prive di senno e poi nel resto della lettera c’è un simpatico complimentino di questo genere – che se facessi questa o quell’altra cosa, sarei la persona adatta a farti sentire più in pace con questo o quell’altro”. § Nota 2. 37 - “Il volto di profilo è distaccato dall’osservatore e appartiene, assieme al corpo in azione (o in uno stato intransitivo), ad uno spazio condiviso con altri profili posto sulla superficie dell’immagine. Per dirla nelle grandi linee, è come la forma grammaticale della terza persona, l’impersonale “egli” o “ella” con la forma verbale concordata e appropriata; mentre il viso rivolto all’esterno viene accreditata un’attenzione, uno sguardo latentemente e potenzialmente rivolto all’osservatore e corrisponde al ruolo dell’”io” nel discorso, con il suo complementare “tu”; sembra esistere per noi e per sé in uno spazio virtualmente contiguo al nostro ed è pertanto appropriato ad una figura simbolica o che porta un messaggio. Che una figura di Cristo che regge un libro con la scritta Ego sum lux mundi debba essere disegnata in piena frontalità è ovvio e naturale, dato che si rivolge allo spettatore, eppure perfino quando raffigura un individuo particolare, sia divino oppure umano, la forma della frontalità piena può ben essere propria dell’uomo in generale, astratto, al di fuori di ogni contesto e senza la soggettività implicita nello sguardo, e ciò vale specialmente nel caso della scultura isolata, a tutto tondo, e dell’immagine dipinta o a rilievo che sia ben al di sopra dello sguardo dello spettatore. In tali figure gli occhi sono privi di pupilla…. Eppure siamo inclini a vedere qualsiasi cosa ci fronteggi come se ci guardasse, particolarmente se si tratta di un’immagine isolata o al centro del campo, benché gli occhi non presentino segni di iride o pupilla.” [M. Schapiro, Frontalità e profilo come forme simboliche, in Words, Script and Pictures, NY 1996, trad. Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi editore, Roma 2002, pag. 163.] § Nota 6, pag. 37 - V. van Gogh, varie lettere: § Nota 7, pag. 37 - varie lettere di Vincent a Theo da L’Aia:
§ Nota 4, pag. 41 - “Bärbele”, è uno dei due frammenti superstiti dei busti che adornavano il portale della Cancelleria di Strasburgo (vittima di incendi nel 1686 e nel 1870), eseguiti tra il 1463 e il 1464 dal maggior scultore d’origine olandese della seconda metà del XV secolo, Nicola da Leida (Niclaus Gerhaerts van Leyden, Leida ca. 1430 – Vienna 1473), il quale esercitò una rilevante influenza nei territori di lingua tedesca e fu attivo principalmente tra il 1462 e il 1473 (in particolare a Treviri, Baden-Baden, Strasburgo, Costanza e Vienna), con realizzazioni sia in pietra che in legno. Nonostante il soggetto della commissione fosse di carattere religioso (ma l’indagine storiografica ha fornito nel tempo letture divergenti), nella coppia di busti raffiguranti probabilmente un profeta e una sibilla la popolazione strasburghese dovette riconoscere le fattezze di una coppia di illustri concittadini (il conte alchimista Giacomo di Lichtenberg, balivo della città, e la bella consorte Barbarina di Ottenheim, donde il soprannome della scultura, impostosi già verso la fine del XVI secolo insieme a una pittoresca aneddotica che culminava con l’imprigionamento della donna per motivi passionali). I tratti del volto, estremamente vividi e mobili proprio nel loro rimando alla declinazione delle passioni, esemplificano con grande incisività la transizione e la commistione tardo-gotica tra universo religioso e universo profano. A giudicare dalla ricezione novellistica del tema in Germania (cfr. ad esempio l’opera del romanziare nazionalsocialista di origini alsaziane O. Flake, Schön-Bärbel von Ottenheim, Rembrandt, Berlin 1937 e quella della poetessa e scrittrice H. Maierheuser, Bärbel von Ottenheim. Ein Roman vom Oberrhein, Steuben, Berlin 1939), nonché, soprattutto, dal rilievo assunto dall’artista e dalla sua opera nella storiografia artistica tedesca degli anni ’30, è lecito presumere che il riferimento heideggeriano, presente ancora nella versione della conferenza friburghese del ’35, risultasse relativamente familiare ai suoi uditori… Per quale motivo, unico tra tutti i riferimenti ad opere d’arte, nel testo definitivo delle conferenze Heidegger abbia lasciato cadere proprio questo, si lascia spiegare soltanto per via di congetture. A prescindere dall’eventualità di una minore perspicuità del rimando rispetto alle altre esemplificazioni (da Sofocle a Hölderlin, da Egina e Paestum a Bamberga, cui si aggiungeranno, nella versione definitiva, un dipinto di Van Gogh e una breve poesia di Meyer), tra le supposizioni più verosimili potrebbe figurare l’inopportunità del richiamo alla città di Strasburgo nel quadro del secondo dopoguerra (in contrapposizione, invece, alla sua valenza politica, plausibilmente messa in conto da Heidegger nel clima delle rivendicazioni annessionistiche degli anni ’30), per via cioè della sua drammatica vicenda storica. Restituita dalla Germania alla Francia nel 1918 con il trattato di Versailles, Strasburgo fu rioccupata nel 1940 al termine di numerose tensioni e andò infine soggetta ai devastanti bombardamenti americani in occasione della liberazione del 1944. – Villa Liebig (1896) di Francoforte sul Meno fu trasformata in museo comunale tra il 1907 e il 1909. Da allora l’attuale Liebighaus/Museum alter Plastik ospita una delle più importanti collezioni di sculture a livello internazionale, che si estende dall’antichità egizia e greco-romana fino al periodo barocco e neoclassico.” [Da una nota di Adriano Ardovino, curatore di Martin Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, cit.]
§ Nota 3, pag. 44 - Ossia “quello di credere che sia stata la nostra descrizione con procedimento soggettivo, che abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto” – dice Heidegger. Commenta Schapiro: “Sfortunatamente il filosofo ha ingannato sé stesso. Dal suo incontro con il quadro di van Gogh ha tratto una toccante serie di immagini, associando il contadino alla terra; tuttavia, è evidente che queste immagini non esprimono assolutamente il sentimento intrinseco del quadro, ma provengono piuttosto dalla sua visione della società, che rivela una sensibilità per ciò che è primordiale e terreno. In realtà è dunque il filosofo che ha immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Quello che ha esperito dal dipinto è nel contempo troppo e insufficiente” (e su questo troppo e insufficiente ci sarebbe ancora molto da ragionare…). § Nota 5, pag. 44 - Dopo il suo saggio del 1968 (e senza mai citare la conferenza del 1978 di Derrida, dopo la quale sembra aver partecipato alla discussione) Schapiro riprenderà la questione ancora in due occasioni; nel 1981 con un postscriptum; nel 1994, con Ulteriori annotazioni su Heidegger e van Gogh. Nel Postscriptum Schapiro intende segnalare che tra il ’60 e il ’76, sul proprio esemplare dell’Origine il filosofo tedesco aveva posto una glossa autografa in corrispondenza della constatazione che “nel quadro di van Gogh, non potremmo mai stabilire dove si trovino (le scarpe)”, alla quale aggiunge: “né a chi appartengano”. Perché - si chiede Schapiro, quel “né a chi appartengono”? “Dato che l’argomentazione di Heidegger si riferisce alle scarpe di una classe di persone e non a quelle di un individuo particolare, e dato che afferma più di una volta che quelle sono le scarpe di un contadino, non si riesce bene a capire come quella notazione possa risultare indispensabile per far luce sul testo. Il filosofo ha voluto forse riaffermare che, nonostante alcuni dubbi, l’interpretazione era valida anche nel caso in cui le scarpe fossero appartenute a van Gogh? - conclude Schapiro (rivolgendosi piuttosto a Derrida?).
§ Nota 3, pag. 49 - “Dalla foresta nera del Baden giunge la notizia che il principe von Fürstenberg compera a dozzine i terreni e le cascine dei contadini, per poi far distruggere o mandare in rovina le coltivazioni e trasformare tutto il terreno in bosco. La stessa attività viene praticata in Sassonia dal conte von Waldenburg, e, più in generale, da tutti i proprietari fondiari dell’intera Germania. Ad Abnaundorf, un villaggio nelle vicinanze di Lipsia, il dottor von Frege, ex candidato conservatore al Reichstag, si è preoccupato con tanta solerzia della “salvezza dei contadini” che, delle parecchie dozzine di piccoli possedimenti che una volta costituivano il patrimonio di Abnaundorf, oggi ne rimangono soltanto due; tutti gli altri terreni sono stati comperati dal dottor von Frege allo scopo di arrotondare i suoi propri possedimenti”. [August Bebel, Socialdemocrazia e antisemitismo, in Il marxismo e la questione ebraica, Edizioni del Calendario, Milano 1972, pag. 297] § Nota 5, pag. 49 - “Un ente si stima indipendente solo appena sta sui suoi piedi, e sta sui suoi piedi appena deve la propria esistenza e sé stesso. Un uomo che vive per grazia di un altro si considera un essere dipendente. Ma io vivo completamente per grazia di un altro quando non solo gli sono debitore del mantenimento della mia vita, bensì anche quando è esso che ha creato la mia vita, quando esso è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé quando essa non è mia propria creazione. La creazione è quindi una rappresentazione molto difficile da scacciare dalla coscienza popolare. La sussistenza per opera propria della natura e dell’uomo le è inconcepibile, perché contraddice a tutte le evidenze della vita pratica… …Ora è facile, in verità, dire al singolo individuo ciò che dice già Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da tua madre, dunque l’accoppiamento di due esseri umani, un atto generatore di uomini, ha prodotto l’uomo in te. Vedi dunque che l’uomo è debitore, anche fisicamente, della sua esistenza all’uomo. Tu non devi, perciò, tenere d’occhio soltanto uno dei due aspetti, il progresso all’infinito, per cui poi chiedi chi abbia generato mio padre, e chi suo nonno eccetera. Tu devi anche ritenere il movimento circolare ch’è visibile in quel progresso, e secondo cui l’uomo nella generazione ripete se stesso, e dunque l’uomo resta sempre il soggetto. Ma tu mi risponderai: concessoti questo movimento circolare, concedimi il progresso che mi porta più oltre, fino a che mi domando: chi ha generato il primo uomo e la natura in genere? Io posso soltanto risponderti: che la tua domanda stessa è un prodotto dell’astrazione. Domanda a te stesso come tu sia giunto a quella domanda; domandati se la tua domanda non provenga da un punto di vista a cui non posso rispondere perché assurdo. Domandati se quel progresso come tale sussista per un pensiero razionale. Quando tu t’interroghi sulla creazione della natura e dell’uomo, tu fai astrazione, dunque, dall’uomo e dalla natura. Tu li poni come non-esistenti, e tuttavia esigi ch’io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione, e rinuncia così alla tua domanda; oppure, se vuoi mantenere la tua astrazione, sii conseguente, e se pensando l’uomo e la natura come non-esistenti, pensi, pensa anche te stesso come non-esistente, ché anche tu sei tuttavia natura e uomo.* Non pensare, non chiedermi, giacché, appena tu pensi e chiedi, il tuo astrarre dall’esistenza della natura e dell’uomo non ha più senso. O sei tu un tale egoista da ridurre tutto a nulla e volere tu parimenti essere? Tu puoi replicare: io non voglio l’annullamento della natura etc.; io t’interrogo circa il suo atto d’origine, come interrogo l’anatomico sulla formazione delle ossa etc. Ma poiché, per l’uomo socialista, tutta la cosiddetta storia universale non è che la generazione dell’uomo dal lavoro umano, il divenire della natura per l’uomo, così esso ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita da se stesso, del suo processo di origine. Poiché è divenuta praticamente sensibile e visibile l’essenzialità dell’uomo e della natura, ed è divenuto praticamente sensibile e visibile l’uomo per l’uomo come esistenza naturale e la natura per l’uomo come esistenza umana, risulta praticamente impossibile la questione di un ente estraneo, di un ente al di sopra della natura e dell’uomo; questione che implica l’ammissione dell’inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, come negazione di questa inessenzialità, non ha più senso, perché esso è una negazione di Dio e pone l’esistenza dell’uomo mediante questa negazione. Ma il socialismo come tale non abbisogna più di questa mediazione: esso parte dalla coscienza sensibile teorica e pratica dell’uomo e della natura come l’essenziale. Esso è la positiva coscienza di sé, non più mediata dalla soppressione della religione, che ha l’uomo; come la vita reale è la positiva realtà dell’uomo, non più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal comunismo. Il comunismo è la posizione come negazione della negazione, e perciò il momento reale – e necessario per il prossimo sviluppo storico – dell’umana emancipazione e restaurazione. Il comunismo è la forma necessaria e l’energico principio del prossimo avvenire; ma esso non è come tale il termine dell’evoluzione umana – la forma dell’umana società” [Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 – Terzo manoscritto, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, maggio 1969, pag. 234-235] - *A questo punto mi “scappa” nuovamente uno sviluppo parafrastico del passo di Marx: “Quando tu t’interroghi sulla creazione dell’arte e dell’opera d’arte, tu fai astrazione, dunque, dall’arte e dall’opera d’arte. Tu li poni come non-esistenti, e tuttavia esigi ch’io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione, e rinuncia così alla tua domanda; oppure, se vuoi mantenere la tua astrazione, sii conseguente, e se pensando l’arte e l’opera d’arte come non-esistenti, pensi all’arte, pensa anche il tuo pensiero stesso come non-esistente…”. Non regge? Peccato.
§ Nota 3, pag. 52 – Confronti tra le edizioni Nuova Italia e Bompiani:
§ Nota 4, pag. 57 - “Il valore non è il risultato dell'utilità e della scarsità combinate astrattamente, ma il risultato di un sentimento che si sviluppa intorno alle cose che, attraverso il soddisfacimento dei bisogni umani, sono capaci di evocare emozioni. II valore degli oggetti d'uso prodotti deve essere spiegato anche esso mediante la natura emotiva dell'uomo e non riferendosi alla sua attività logica che costruisce obbiettivi utilitaristici. Qui, tuttavia, credo che se si vuole dare una spiegazione si deve prendere in considerazione non tanto colui che usa questi oggetti quanto l'artigiano che li produce. Questi indigeni [delle isole Trobiand] sono lavoratori industriosi e accaniti, che non lavorano sotto lo stimolo della necessità o per guadagnarsi da vivere, ma sotto l'ispirazione del talento e della fantasia, che hanno un alto senso della loro attività, concepita spesso come il risultato di un'influenza magica, e da cui traggono piacere. Ciò vale specialmente per coloro che producono oggetti di grande valore e che sono sempre dei valenti artigiani, appassionati del loro lavoro. Adesso, questi artisti indigeni apprezzano altamente i materiali buoni e la perfezione tecnica e quando trovano un pezzo di materiale particolarmente buono, è per loro un invito a prodigarvi una sovrabbondanza di lavoro e a produrre così delle cose troppo belle per essere usate, ma che appunto per questo si desidera sopra ogni cosa possedere. La maniera accurata di lavorare, la perfetta padronanza della tecnica, la scelta del materiale, l'inesauribile pazienza nel dare gli ultimi tocchi sono state spesso notate da coloro che hanno visto gli indigeni all'opera. Queste osservazioni hanno attirato l'attenzione di alcuni economisti teorici, ma è necessario vedere questi fatti in relazione alla teoria del valore. Cioè, questo atteggiamento affettuoso verso il materiale e il lavoro produrrà un sentimento di attaccamento ai materiali rari e agli oggetti ben lavorati e ciò avrà come risultato che verrà loro attribuito un valore. II valore sarà annesso ai tipi rari di quei materiali che gli artigiani usano di solito:quelle specie di conchiglie che sono scarse e che si prestano in modo particolare ad essere modellate e levigate, i tipi di legno che sono anch'essi rari, come l'ebano, e piu specialmente delle varietà particolari di quella pietra con cui si fabbricano gli arnesi (n.d.a.: Nello spiegare il valore non voglio tracciarne le possibili origini ma cercare semplicemente di mostrare quali sono gli elementi reali e ascrivibili in cui può essere scomposto l'atteggiamento degli indigeni verso gli oggetti). Possiamo adesso confrontare i nostri risultati con le opinioni erronee sull'uomo economico primitivo che abbiamo esposto sommariamente all'inizio di questo paragrafo. Vediamo che il valore e la ricchezza esistono nonostante le cose siano abbondanti e che questa abbondanza è apprezzata di per se. Gli oggetti vengono prodotti in grandi quantità al di là di ogni loro possibile utilità, come semplice risultato dell'amore per l'accumulazione fine a se stessa; il cibo è lasciato imputridire e, sebbene gli indigeni abbiano tutto ciò che di necessario potrebbero desiderare, pure vogliono sempre di piu, per usarne come ricchezza. Inoltre, per gli oggetti di tipo vaygu'a (cap. 3, parag. 3), non è la scarsità connessa all'utilità che crea il valore, ma una rarità scovata dall'abilita dell'uomo all'interno dei materiali da lavorare. In altre parole, non si dà un valore a quelle cose che sono utili o anche indispensabili, ma difficili da trovare, poiché tutti i beni indispensabili alla vita possono essere raggiunti facilmente dagli isolani delle Trobriand. Viene invece attribuito un valore a quell'oggetto al quale l'artigiano,avendo trovato un materiale particolarmente bello o fuori del comune, è stato indotto a dedicare una quantità di lavoro sproporzionata. Così facendo, egli crea un oggetto che è una specie di mostro economico, troppo bello, troppo grande, troppo fragile o troppo sovraccarico di decorazioni per essere usato e proprio perciò altamente apprezzato.” [Bronisław Malinowski: Argonauti del Pacifico Occidentale (1922), ed. Newton Compton, Roma, 1978, p. ]
§ Nota 3, p. 66 - “Caro fratello, Sento che papà e mamma pensano a me per istinto (non dico per intelligenza). Hanno lo stesso timore di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. Quello magari si metterebbe a correre per le stanze con le zampe bagnate – sarebbe tanto rozzo. Darebbe fastidio a tutti. Ed abbaierebbe tanto forte. In breve, una bestiaccia. Va bene – ma la bestiaccia ha un storia umana ed anche se è soltanto un cane, ha un’anima umana, e molto sensibili anche, che gli fa sentire quel che pensa di lui la gente, cosa che un cane normale non può fare. Io, dato che ammetto di essere una sorta di cane, li lascio stare. Inoltre questa casa è troppo bella per me e Papà e Mamma e la famiglia son tanto raffinati (sebbene poco sensibili intimamente) e – e – e sono dei preti – tanti preti. Il cane capisce che se lo terranno vorrà dire soltanto che lo si tollererà “in questa casa”, di modo che cercherà di trovarsi un altro canile. Il cane è in effetti figlio di Papà e lo si è lasciato troppo per la strada, dove non ha potuto fare a meno di diventare sempre più rozzo; ma questo Papà già da tempo lo ha dimenticato ed in effetti non ha mai meditato profondamente al legame tra padre e figlio, neppure è il caso di dirlo. E poi – un cane può mordere – può ammalarsi di rabbia ed allora la polizia dovrebbe venire ad abbatterlo. Sì, tutto questo è verissimo. D’altro canto, i cani fanno la guardia. Ciò è superfluo dirlo, essi dicono che c’è la pace, non ci sono pericoli. Quindi non ne parlo. Il cane rimpiange soltanto di non essere restato lontano, perché era meno solo sulla brughiera che in questa casa, malgrado ogni gentilezza. La visita di questo cane è stata una debolezza che spero verrà dimenticata e che il cane eviterà di commettere in futuro.” [Vincent a Theo, Nuenen 15 dicembre 1883; n. 413-346] “Caro Theo, Mauve una volta mi disse: troverai te stesso se ti metterai a dipingere, se penetrerai nell’arte più profondamente di quanto tu non abbia fatto fino ad ora. Questo lo disse due anni fa. Ultimamente penso spesso a queste sue parole. Ho trovato me stesso – sono quel cane. Quest’idea può parerti piuttosto esagerata – la realtà può essere meno netta nei suoi contrasti, meno crudamente drammatica, ma credo che il profilo generico della situazione sia vero, in fondo. Quel cane da pastore arruffato che cercai di descriverti nella mia lettera di ieri è il mio vero carattere e la vita di quella bestia è la mia vita, per così dire, saltando i dettagli e badando solo ai fatti essenziali… Ti dico, ho scelta con piena coscienza la vita del cane; resterò un cane, sarò povero, sarò pittore, voglio restare un essere umano. [Vincent a Theo, Nuenen 16 dicembre 1883; n. 414-347]
§ Nota 2, pag. 70 - Nel 1934 Golo Mann descriveva in questi termini il “cadreghinismo” dei professori tedeschi: - “Il professore destinato dallo stato a un particolare compito riconoscenva senza esitazioni le autorità, l’Obrickeit, i ‘superiori’ di Lutero. Un professore di filosofia, all’epoca assai noto, ebbe ad affermare in mia presenza che egli non aveva nulla da spartire con la politica. – ma, gli chiesi, lei non muoverebbe un dito se la casa andasse a fuoco? No, rispose tutto serio: se la casa fosse andata a fuoco avrebbe chiamato i pompieri. Lottare col fuoco, vedersela con una crisi politica o economica, ai suoi occhi era un mestiere per il quale occorreva una preparazione, un mestiere che bisognava apprendere. E lui, il professore, non l’aveva appreso; egli aveva imparato soltanto a filosofare… Ma se mai si verificava il caso di un professore che si immischiasse nella politica, ciò accadeva evidentemente perché egli, facendolo, faceva gli interessi dello stato, nel senso che offriva a questo il sostegno di argomenti storici, quello a esempio della missione tedesca in Prussia, se per caso di trattava di uno che insegnasse in una università prussiana.” [Golo Mann, Die deutschen Intellektuellen (Gli intellettuali tedeschi) in Texte und Zeichen, fascicolo n.4, Berlino –Neuwiend, 1955, pag 488 – Riportato in F. Schonauer, La letteratura… cit. pag. 198]
§ Nota 5, pag. 72 – Brano da Relatività e determinismo, quindicinale “Programma comunista N.9, 1955:
§ Nota 6, pag. 74 - Al proposito della genialità e della tecnica (categorie trattate nel testo di Heidegger) leggiamo cosa ne dice il “calzolaio” olandese: - “Come la gente non crede più nei miracoli impressionanti, ne più crede ad un Dio che capricciosamente e dispoticamente vola da una cosa all’altra, ma incomincia a sentire un maggiore rispetto, una più grande ammirazione e fede nella natura. In modo analogo, e per gli stessi motivi, penso che nell’arte le antiquate idee del genio innato, dell’ispirazione e così via, non dico si debbano scartare del tutto, ma devono venire vagliate e valutate di nuovo – e grandemente modificate. Non nego tuttavia l’esistenza del genio né che sia innato. Indubbiamente però nego che l’apporto della teoria e della scuola debba sempre, di necessità, essere inutile.” [Vincent a Theo, Nuenen 15 giugno 1884; n. 450-371] - “La strada per arrivare a molte cose è una conoscenza completa del corpo umano, ma imparare a conoscerlo costa denaro. Inoltre, sono sicurissimo che il colore, il chiaroscuro, la prospettiva, il tono, ed il disegno, in breve, tutto abbia delle leggi fisse che si possono e si debbono studiare, come succede per la chimica e per l’algebra. Questa è tutt’altro che una concezione facile delle cose mentre chi dice: “Si deve sapere tutto per istinto”, invece se la prende molto alla leggera. Come se bastasse! Ma non basta, perché per quanto si sappia per istinto, questo non è che un motivo ancor più valido per passare dall’istinto alla ragione. E’ così che la penso.” [Vincent a Theo, Nuenen 9 ottobre 1884; n.465-381]
§ Nota 4, pag. 85 - Varie lettere di Vincent a Theo: § Nota 2, pag. 86 - M. Schapiro, L’impressionismo, riflessi e percezioni, ed. Einaudi, Torino 2008. “La scelta di Manet di rappresentare commedianti e figure bohémiennes era stata anticipata dal gusto dei pittori realisti degli anno ’40 e ’50 del secolo per la raffigurazione – talvolta curiosa e divertita, talvolta partigiana e compassionevole – delle classi inferiori. La grande esplosione di letteratura giornalistica sui vari ruoli, lavori e tipi umani delle città nelle cosiddette physiologies del tempo, con le loro brillanti e umoristiche xilografie, dimostra che la scelta di Manet non era frutto né di stravaganza né del casuale ricorso a modelli facilmente disponibili allo scopo di esercitare il pennello. Ma nell’elevare tale interesse dalla mera cronaca di semplici xilografie all’imponenza e alla formalità delle grandi tele del Salon, Manet sposta l’attenzione dall’ampio ventaglio sociale di tale arte miniaturizzata col suo amabile e spesso aneddotico rispecchiamento della vita parigina alla provocatoria realtà dell’anomala classe degli artisti indipendenti e dei personaggi della bohéme in quanto figure ribelli.” (Ivi, p. 152)
§ Nota 6, pag. 103 - “Millet cerca essenzialmente lo stile; non lo nasconde, ne fa mostra e se ne gloria. Ma una parte del ridicolo che troviamo negli allievi di In gres, cade anche su di lui. Lo stile gli porta sfortuna. I suoi contadini sono dei pedanti che hanno un’opinione troppo alta di sé. Ostentano una sorta d’abbrutimento cupo e fatale che m’invoglia ad odiarli. Mietano o seminino, facciano pascolare le vacche o tosino animali, hanno sempre l’aria di dire: ‘Poveri diseredati di questo mondo, eppure siamo noi che lo fecondiamo! Adempiamo una missione, esercitiamo un sacerdozio!’. Invece di mettere semplicemente in luce la poesia propria del suo soggetto, Millet vuole ad ogni costo aggiungervi qualcosa. Nella loro monotona bruttezza tutti quei piccoli paria hanno una pretesa filosofica, malinconica e raffaellesca. Questo difetto guasta, nella pittura di Millet, tutte le belle qualità che da principio attirano lo sguardo” [Charles Baudelaire, Esposizione del 1859, in Scritti di estetica, a cura di Giovanni Macchia, Santoni Editore, Firenze 1948, p. 133-134]
§ Nota 6, pag. 110 “Van Gogh sente il bisogno di un’oggettività umile e ovvia, come altri potrebbero sentire il bisogno di angeli o di Dio o di forme pure; facce amiche, le cose non problematiche che vede attorno a sé, i fiori, le strade e i campi, le sue scarpe, la sua sedia, il suo cappello e la sua pipa, gli arnesi sulla sua tavola sono i suoi oggetti personali che gli vengono incontro e gli parlano. Potremmo citare quello che egli scrisse in un altro contesto: ‘Sembra un po’ rozzo, ma è proprio vero: il sentimento per le cose stesse, per la realtà, è molto più importante che il sentimento per i quadri, se non altro è più fertile e vitale’.” (ivi, p. 29).
§ Nota 1, pag. 126
§ Nota 1, pag. 127 - “Sapete, ciò che mi dispiace molto di non aver visto all’Esposizione, sono una serie di abitazioni di tutti i popoli… Ebbene! Potreste voi che l’vete vista, darmene un’idea e soprattutto uno schizzo col colore della casa egizia primitiva. Dovrebbe essere molto semplice, un blocco quadrato, credo, su una terrazza – ma vorrei conoscere anche la colorazione . In un articolo ho letto che era azzurra, rossa e gialla… In un’Illustration ho visto uno schizzo di antiche abitazioni messicane, sembrano anch’esse primitive e bellissime… Ah! Se si conoscessero le cose di allora e si potessero dipingere le persone di allora, che hanno vissuto là dentro, sarebbe bello…” (lettera di Vincent a Bernard, n. 809 -B20, 8 ottobre 1889). Il 20 novembre 1889 (822-B21), nel p.s. alla lettera in cui manifesta la sua disapprovazione per le sacre rappresentazioni di Gauguin e Bernard, scrive: “Grazie comunque della descrizione della casa egizia. Avrei voluto sapere ancora se era più grande o più piccola di una casa contadina delle nostre parti; insomma le sue proporzioni in rapporto a una figura umana. E’ soprattutto per il colore che chiedo informazione” … A Vincent interessa la casa dell’uomo…
§ Nota 1, pag. 132: “Ogni forma di commercio artistico che aveva a che fare con l’arte vera iniziò a fiorire entro pochi anni. Divenne però un’impresa troppo largamente speculativa – ed è così anche ora – non dico proprio così – dico semplicemente troppo; ed essendo una speculazione, perché non dovrebbe avere lo stesso andamento del commercio dei bulbi? Mi dirai che un quadro non è un tulipano. Naturalmente c’è una enorme differenza e naturalmente io che amo i quadri, ed i tulipani per nulla, me ne rendo conto benissimo… Potrei dilungarmi all’infinito sull’argomento, ma senza insistervi ulteriormente penso che sarai d’accordo con me nel ritenere che nel mestiere del mercante d’arte ci sono molte cose che in futuro potranno ben dimostrasi bolle di sapone. [Vincent a Theo, Nuenen 6 dicembre 1883 , n. 409-344].
|
|
|||||||
|
||||||||
CREDITORI E DEBITORI
|
||||||||
MATERIALI APPENDICI ALLEGATI e altre restituzioni |
parte quinta H.D.S. MAROQUINERIES
|
||