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  • § [ coppie e paia ]

§ Nota 5 - “La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o sé stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale. Questo, in linea generale, è il significato positivo della parola parresia nella maggior parte dei testi greci in cui essa ricorre, dal V secolo a.C. al V secolo d.C.” [Michel Foucault, Discorso e verità, ed. Donzelli, Roma 1996,2005, p.9-10].

§ Nota 7 - “Quando sono venuto a Parigi, pochi giorni fa, vi ho detto che prima di avere duecento dipinti non potevo fare nulla. Quello che ad alcuni sembrerebbe un lavorare di fretta è lo stato normale di una produzione regolare, considerando che un pittore deve lavorare veramente tanto quanto un calzolaio, per esempio.” [Vincent a Theo, Saint-Rémy 12 febbraio 1890 (n. 854-626)]

  • § [ creditori e debitori ]

§ Nota 2 - “La proprietà sul bene di consumo al momento del suo impiego, sarebbe bene non chiamarla col termine di proprietà, sia pure seguito dagli aggettivi: personale, individuale. Essa consiste nel rapporto per cui chi sta per sfamarsi tiene in mano il cibo e nessuno vieta che lo porti alla bocca. Anche nelle scienze legali tale rapporto non si definisce bene come proprietà, ma come possesso. Il possesso può essere di fatto e materiale, ovvero anche di diritto e legale, ma implica sempre il “tenere nel pugno”, la fisica disposizione della cosa. La proprietà è il rapporto per cui si dispone di una cosa, senza che si debba tenerla nelle mani, per effetto titolare di un pezzo di carta e di una norma sociale.  La proprietà sta al possesso come in fisica l’actio in distans di Newton sta all'azione di contatto, alla diretta pressione.” [Elementi dell’economia marxista, testo di partito (Programma Comunista)]

§ Nota 5 - « Ti dico che si desidera essere attivi non bisogna aver timore di fallire né di sbagliare. Molti ritengono di diventare buoni evitando di fare del male! È una menzogna e tu stesso dicevi che era una menzogna. Non porta che al ristagno e alla mediocrità. Non c’è che da buttar giù qualcosa quando si vede una tela vuota che ci sta a guardare in faccia con una sorta di imbecillità. Non hai idea di quanto possa paralizzare lo stare a fissare una tela vuota: è come se dicesse al pittore Non sai far nulla. La tela ti sta a guardare come un idiota ed ipnotizza alcuni pittori, a tal punto da farli diventare degli idioti essi stessi. Molti pittori hanno paura della tela vuota, ma la tela vuota a sua volta ha paura di un pittore appassionato che sia anche audace – che una volta per tutte abbia rotto l’incantesimo del “non sai fare” ». [Vincent a Theo, Nuenen 2 ottobre 1884 (n. 464-378.79)]

  • § [ autoritratto del pittore come vecchia scarpa ]

§ Nota 6 - “Al mercato delle pulci (Vincent) aveva comprato un paio di vecchie scarpe pesanti, massicce, da carrettiere, ma pulite e tirate a lucido. Erano dei grossi scarponi che mancavano di fantasia. Li indossò un pomeriggio che pioveva e partì per una passeggiata lungo i bastioni. Sporche di fango, le scarpe divennero interessanti….  Vincent copiò fedelmente il suo paio di carpe.” [Francois Gauzi, condiscepolo di van Gogh nell’atelier Cormon nel 1886-1887]

“Nello studio c’era un paio di grosse scarpe chiodate, tutte usurate e sporche di fango; van Gogh ne fece una straordinaria natura morta”. - “Nella mia stanza gialla una piccola natura morta: violetta, questa. Due enormi scarponi, usati, sformati. Erano le scarpe di Vincent. Quelle che egli prese, allora nuove, una mattina presto per cominciare il suo viaggio a piedi dall’Olanda al Belgio”. [testimonianza di Gauguin, 1894]

§ Nota 10 - “Ritroviamo questa visione delle scarpe dell’artista come oggetto intimo e privato, in una litografia di Daumier che rappresenta un pittore triste e infelice davanti all’ingresso del Salon annuale, nell’atto di mostrare ai passanti un dipinto raffigurante un paio di scarpe, evidentemente le sue. L’etichetta di protesta dice: “Lo hanno rifiutato, quegli stupidi!” [M. Schapiro, Ulteriori annotazioni (1994) a L’oggetto personale… in Semiotiche della pittura, cit. p. 202]. Nella lettera del 21 marzo 1884 (n.436-362) Vincent manifesta una vibrante irritazione nei confronti del fratello, riguardante diverse questioni; tra le altre scrive: “Quel che mi dici del mio lavoro sono sciocchezze – dico che è sciocco dirmi come giudicherebbe il mio lavoro un giudice del Salon quando non ho mai detto una sola parola che potesse indicare una mia intenzione di mandarlo al Salon, penso sia cosa sciocca e priva di senno… oh, ci sono altre cose che ritengo sciocche e prive di senno e poi nel resto della lettera c’è un simpatico complimentino di questo genere – che se facessi questa o quell’altra cosa, sarei la persona adatta a farti sentire più in pace con questo o quell’altro”.

§ Nota 2. 37 -  “Il volto di profilo è distaccato dall’osservatore e appartiene, assieme al corpo in azione (o in uno stato intransitivo), ad uno spazio condiviso con altri profili posto sulla superficie dell’immagine. Per dirla nelle grandi linee, è come la forma grammaticale della terza persona, l’impersonale “egli” o “ella” con la forma verbale concordata e appropriata; mentre il viso rivolto all’esterno viene accreditata un’attenzione, uno sguardo latentemente e potenzialmente rivolto all’osservatore e corrisponde al ruolo dell’”io” nel discorso, con il suo complementare “tu”; sembra esistere per noi e per sé in uno spazio virtualmente contiguo al nostro ed è pertanto appropriato ad una figura simbolica o che porta un messaggio.  Che una figura di Cristo che regge un libro con la scritta Ego sum lux mundi debba essere disegnata in piena frontalità  è ovvio e naturale, dato che si rivolge allo spettatore, eppure perfino quando raffigura un individuo particolare, sia divino oppure umano, la forma della frontalità piena può ben essere propria dell’uomo in generale, astratto, al di fuori di ogni contesto e senza la soggettività implicita nello sguardo, e ciò vale specialmente nel caso della scultura isolata, a tutto tondo, e dell’immagine dipinta o a rilievo che sia ben al di sopra dello sguardo dello spettatore. In tali figure gli occhi sono privi di pupilla…. Eppure siamo inclini a vedere qualsiasi cosa ci fronteggi come se ci guardasse, particolarmente se si tratta di un’immagine isolata o al centro del campo, benché gli occhi non presentino segni di iride o pupilla.” [M. Schapiro, Frontalità e profilo come forme simboliche,  in Words, Script and Pictures, NY 1996,  trad. Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi editore, Roma 2002, pag. 163.]

§ Nota 6, pag. 37  - V. van Gogh, varie lettere:
- “Quanto ad una vita completamente agreste – amo la natura, ma ci sono molte cose che mi legano alla città, particolarmente le riviste e la possibilità di fare delle riproduzioni. Non vedere locomotive non mi sarebbe gravoso, ma lo sarebbe moltissimo il non vedere mai una macchina da stampa.” [Vincent a Theo, L’Aia 2 luglio 1883, n. 358-297] 
- “Negli ultimi giorni però ho pensato a qualcosa che è forse ancor meglio. Anzitutto ora voglio un po’ di vita cittadina, in ogni caso qualche cambiamento di ambiente, dopo essere stato per un anno intero o nel Drenthe o a Nuenen”. [Vincent a Theo, Nuenen 9 ottobre 1884, n. 465-381]
- “Parigi è Parigi, amico mio, di Parigi ce n’è una sola, e per quanto possa essere dura vivere qui, e per quanto possa diventare anche più difficile e più duro – l’aria di Francia schiarisce le idee e fa bene – un mondo di bene”. [Lettera di Vincent all’artista inglese Horace Man Livens, Parigi settembre-ottobre 1886 (n. 569-459a)]

§ Nota 7, pag. 37 - varie lettere di Vincent a Theo da L’Aia:
- “Nel frattempo sto facendo degli schizzi per il disegno della montagna di rifiuti” [lettera n. 353-293, 15 giugno 1883]
- “Da quando ti ho scritto ho lavorato molto duramente a quel disegno del cumulo dei rifiuti: una scena magnifica” [lettera n. 351-291, 5 giugno 1883 ]
- “Caro Theo, ricordi che qualche tempo fa ti scrissi: ‘Me ne sto seduto di fronte a due fogli intonsi e non so come farò a metterci su qualcosa? Da allora sai che su di uno ho fatto un cumulo di rifiuti, ma in questi ultimi giorni ho anche fatto progressi col secondo, che rappresenta un deposito di carbone sul terreno della stazione ferroviaria del Reno, come lo si vede dalla mia finestra” [lettera n. 292, 11 giugno 1883]
§ Nota 9, pag. 37 - “La rovina del piccolo coltivatore, fattasi inevitabile dal momento in cui il lavoro industriale domestico, destinato ai consumi personali, fu annientato dal prodotto a buon mercato di confezione e di fattura meccanica, e il suo patrimonio zootecnico, e quindi la sua produzione di concime, lo furono dalla distruzione dell'ordinamento delle marche, della marca comune e dell'obbligo del sistema unitario di coltura. Questa rovina spinge con forza irresistibile verso l'industria domestica moderna i piccoli contadini caduti preda dell'usuraio. Come in Irlanda la rendita fondiaria del proprietario terriero, così in Germania gli interessi dello strozzino ipotecario li si può pagare non coi proventi del terreno, ma solo col salario del contadino industriale…. Ma l'annientamento dell'industria domestica e della manifattura rurale, da parte delle macchine e delle aziende industriali, significa, in Germania, l'annientamento dell'esistenza di milioni di produttori rurali, l'espropriazione di quasi la metà dei piccoli coltivatori tedeschi, la trasformazione non solo dell'industria domestica in aziende industriali, ma altresì dell'economia contadina in una grande agricoltura capitalistica e della piccola proprietà fondiaria in gran latifondo: una rivoluzione industriale e agraria a favore del capitale e della grande proprietà fondiaria a spese dei contadini…” [Friedrich Engels, prefazione della seconda edizione riveduta de La Questione delle Abitazioni (Londra, gennaio 1887), ed. Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 27,28]

  • § [ scarpe, scarponi, calzini e calzerotti]

§  Nota 4, pag. 41  - “Bärbele”, è uno dei due frammenti superstiti dei busti che adornavano il portale della Cancelleria di Strasburgo (vittima di incendi nel 1686 e nel 1870), eseguiti tra il 1463 e il 1464 dal maggior scultore d’origine olandese della seconda metà del XV secolo, Nicola da Leida (Niclaus Gerhaerts van Leyden, Leida ca. 1430 – Vienna 1473), il quale esercitò una rilevante influenza nei territori di lingua tedesca e fu attivo principalmente tra il 1462 e il 1473 (in particolare a Treviri, Baden-Baden, Strasburgo, Costanza e Vienna), con realizzazioni sia in pietra che in legno. Nonostante il soggetto della commissione fosse di carattere religioso (ma l’indagine storiografica ha fornito nel tempo letture divergenti), nella coppia di busti raffiguranti probabilmente un profeta e una sibilla la popolazione strasburghese dovette riconoscere le fattezze di una coppia di illustri concittadini (il conte alchimista Giacomo di Lichtenberg, balivo della città, e la bella consorte Barbarina di Ottenheim, donde il soprannome della scultura, impostosi già verso la fine del XVI secolo insieme a una pittoresca aneddotica che culminava con l’imprigionamento della donna per motivi passionali). I tratti del volto, estremamente vividi e mobili proprio nel loro rimando alla declinazione delle passioni, esemplificano con grande incisività la transizione e la commistione tardo-gotica tra universo religioso e universo profano. A giudicare dalla ricezione novellistica del tema in Germania (cfr. ad esempio l’opera del romanziare nazionalsocialista di origini alsaziane O. Flake, Schön-Bärbel von Ottenheim, Rembrandt, Berlin 1937 e quella della poetessa e scrittrice H. Maierheuser, Bärbel von Ottenheim. Ein Roman vom Oberrhein, Steuben, Berlin 1939), nonché, soprattutto, dal rilievo assunto dall’artista e dalla sua opera nella storiografia artistica tedesca degli anni ’30, è lecito presumere che il riferimento heideggeriano, presente ancora nella versione della conferenza friburghese del ’35, risultasse relativamente familiare ai suoi uditori… Per quale motivo, unico tra tutti i riferimenti ad opere d’arte, nel testo definitivo delle conferenze Heidegger abbia lasciato cadere proprio questo, si lascia spiegare soltanto per via di congetture. A prescindere dall’eventualità di una minore perspicuità del rimando rispetto alle altre esemplificazioni (da Sofocle a Hölderlin, da Egina e Paestum a Bamberga, cui si aggiungeranno, nella versione definitiva, un dipinto di Van Gogh e una breve poesia di Meyer), tra le supposizioni più verosimili potrebbe figurare l’inopportunità del richiamo alla città di Strasburgo nel quadro del secondo dopoguerra (in contrapposizione, invece, alla sua valenza politica, plausibilmente messa in conto da Heidegger nel clima delle rivendicazioni annessionistiche degli anni ’30), per via cioè della sua drammatica vicenda storica. Restituita dalla Germania alla Francia nel 1918 con il trattato di Versailles, Strasburgo fu rioccupata nel 1940 al termine di numerose tensioni e andò infine soggetta ai devastanti bombardamenti americani in occasione della liberazione del 1944. – Villa Liebig (1896) di Francoforte sul Meno fu trasformata in museo comunale tra il 1907 e il 1909. Da allora l’attuale Liebighaus/Museum alter Plastik ospita una delle più importanti collezioni di sculture a livello internazionale, che si estende dall’antichità egizia e greco-romana fino al periodo barocco e neoclassico.” [Da una nota di Adriano Ardovino, curatore di Martin Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, cit.]

  • § [ uomini e cappelli ]

§ Nota 3, pag. 44 - Ossia “quello di credere che sia stata la nostra descrizione con procedimento soggettivo, che abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto” – dice Heidegger. Commenta Schapiro: “Sfortunatamente il filosofo ha ingannato sé stesso. Dal suo incontro con il quadro di van Gogh ha tratto una toccante serie di immagini, associando il contadino alla terra; tuttavia, è evidente che queste immagini non esprimono assolutamente il sentimento intrinseco del quadro, ma provengono piuttosto dalla sua visione della società, che rivela una sensibilità per ciò che è primordiale e terreno. In realtà è dunque il filosofo che ha immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Quello che ha esperito dal dipinto è nel contempo troppo e insufficiente” (e su questo troppo e insufficiente ci sarebbe ancora molto da ragionare…).

§ Nota 5, pag. 44 - Dopo il suo saggio del 1968 (e senza mai citare la conferenza del 1978 di Derrida, dopo la quale sembra aver partecipato alla discussione) Schapiro riprenderà la questione ancora in due occasioni; nel 1981 con un postscriptum; nel 1994, con Ulteriori annotazioni su Heidegger e van Gogh. Nel Postscriptum Schapiro intende segnalare che tra il ’60 e il ’76, sul proprio esemplare dell’Origine il filosofo tedesco aveva posto una glossa autografa in corrispondenza della constatazione che “nel quadro di van Gogh, non potremmo mai stabilire dove si trovino (le scarpe)”, alla quale aggiunge: “né a chi appartengano”. Perché - si chiede Schapiro, quel “né a chi appartengono”? “Dato che l’argomentazione di Heidegger si riferisce alle scarpe di una classe di persone e non a quelle di un individuo particolare, e dato che afferma più di una volta che quelle sono le scarpe di un contadino, non si riesce bene a capire come quella notazione possa risultare indispensabile per far luce sul testo. Il filosofo ha voluto forse riaffermare che, nonostante alcuni dubbi, l’interpretazione era valida anche nel caso in cui le scarpe fossero appartenute a van Gogh? -  conclude Schapiro (rivolgendosi piuttosto a Derrida?).

  • § [ il mulino di Hermann ]

§ Nota 3, pag. 49 -  “Dalla foresta nera del Baden giunge la notizia che il principe von Fürstenberg compera a dozzine i terreni e le cascine dei contadini, per poi far distruggere o mandare in rovina le coltivazioni e trasformare tutto il terreno in bosco. La stessa attività viene praticata in Sassonia dal conte von Waldenburg, e, più in generale, da tutti i proprietari fondiari dell’intera Germania. Ad Abnaundorf, un villaggio nelle vicinanze di Lipsia, il dottor von Frege, ex candidato conservatore al Reichstag, si è preoccupato con tanta solerzia della “salvezza dei contadini” che, delle parecchie dozzine di piccoli possedimenti che una volta costituivano il patrimonio di Abnaundorf, oggi ne rimangono soltanto due; tutti gli altri terreni sono stati comperati dal dottor von Frege allo scopo di arrotondare i suoi propri possedimenti”. [August Bebel, Socialdemocrazia e antisemitismo, in Il marxismo e la questione ebraica, Edizioni del Calendario, Milano 1972, pag. 297]

§ Nota 5,  pag. 49 - “Un ente si stima indipendente solo appena sta sui suoi piedi, e sta sui suoi piedi appena deve la propria esistenza e sé stesso. Un uomo che vive per grazia di un altro si considera un essere dipendente. Ma io vivo completamente per grazia di un altro quando non solo gli sono debitore del mantenimento della mia vita, bensì anche quando è esso che ha creato la mia vita, quando esso è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé quando essa non è mia propria creazione. La creazione è quindi una rappresentazione molto difficile da scacciare dalla coscienza popolare. La sussistenza per opera propria della natura e dell’uomo le è inconcepibile, perché contraddice a tutte le evidenze della vita pratica… …Ora è facile, in verità, dire al singolo individuo ciò che dice già Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da tua madre, dunque l’accoppiamento di due esseri umani, un atto generatore di uomini, ha prodotto l’uomo in te. Vedi dunque che l’uomo è debitore, anche fisicamente, della sua esistenza all’uomo. Tu non devi, perciò, tenere d’occhio soltanto uno dei due aspetti, il progresso all’infinito, per cui poi chiedi chi abbia generato mio padre, e chi suo nonno eccetera. Tu devi anche ritenere il movimento circolare ch’è visibile in quel progresso, e secondo cui l’uomo nella generazione ripete se stesso, e dunque l’uomo resta sempre il soggetto. Ma tu mi risponderai: concessoti questo movimento circolare, concedimi il progresso che mi porta più oltre, fino a che mi domando: chi ha generato il primo uomo e la natura in genere? Io posso soltanto risponderti: che la tua domanda stessa è un prodotto dell’astrazione. Domanda a te stesso come tu sia giunto a quella domanda; domandati se la tua domanda non provenga da un punto di vista a cui non posso rispondere perché assurdo. Domandati se quel progresso come tale sussista per un pensiero razionale. Quando tu t’interroghi sulla creazione della natura e dell’uomo, tu fai astrazione, dunque, dall’uomo e dalla natura. Tu li poni come non-esistenti, e tuttavia esigi ch’io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione, e rinuncia così alla tua domanda; oppure, se vuoi mantenere la tua astrazione, sii conseguente, e se pensando l’uomo e la natura come non-esistenti, pensi, pensa anche te stesso come non-esistente, ché anche tu sei tuttavia natura e uomo.* Non pensare, non chiedermi, giacché, appena tu pensi e chiedi, il tuo astrarre dall’esistenza della natura e dell’uomo non ha più senso. O sei tu un tale egoista da ridurre tutto a nulla e volere tu parimenti essere? Tu puoi replicare: io non voglio l’annullamento della natura etc.; io t’interrogo circa il suo atto d’origine, come interrogo l’anatomico sulla formazione delle ossa etc. Ma poiché, per l’uomo socialista, tutta la cosiddetta storia universale non è che la generazione dell’uomo dal lavoro umano, il divenire della natura per l’uomo, così esso ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita da se stesso, del suo processo di origine. Poiché è divenuta praticamente sensibile e visibile l’essenzialità dell’uomo e della natura, ed è divenuto praticamente sensibile e visibile l’uomo per l’uomo come esistenza naturale e la natura per l’uomo come esistenza umana, risulta praticamente impossibile la questione di un ente estraneo, di un ente al di sopra della natura e dell’uomo; questione che implica l’ammissione dell’inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, come negazione di questa inessenzialità, non ha più senso, perché esso è una negazione di Dio e pone l’esistenza dell’uomo mediante questa negazione. Ma il socialismo come tale non abbisogna più di questa mediazione: esso parte dalla coscienza sensibile teorica e pratica dell’uomo e della natura come l’essenziale. Esso è la positiva coscienza di sé, non più mediata dalla soppressione della religione, che ha l’uomo; come la vita reale è la positiva realtà dell’uomo, non più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal comunismo. Il comunismo è la posizione come negazione della negazione, e perciò il momento reale – e necessario per il prossimo sviluppo storico – dell’umana emancipazione e restaurazione. Il comunismo è la forma necessaria e l’energico principio del prossimo avvenire; ma esso non è come tale il termine dell’evoluzione umana – la forma dell’umana società” [Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 – Terzo manoscritto, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, maggio 1969, pag. 234-235] - *A questo punto mi “scappa” nuovamente uno sviluppo parafrastico del passo di Marx: “Quando tu t’interroghi sulla creazione dell’arte e dell’opera d’arte, tu fai astrazione, dunque, dall’arte e dall’opera d’arte. Tu li poni come non-esistenti, e tuttavia esigi ch’io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione, e rinuncia così alla tua domanda; oppure, se vuoi mantenere la tua astrazione, sii conseguente, e se pensando l’arte e l’opera d’arte come non-esistenti, pensi all’arte, pensa anche il tuo pensiero stesso come non-esistente…”. Non regge? Peccato.

  • § [ sorvegliare e custodire ]

§ Nota 3, pag. 52 – Confronti tra le edizioni Nuova Italia e  Bompiani:

- Come è impossibile che un’opera ci sia senza essere stata fatta (cioè: come l’opera richiede in linea essenziale chi l’ha fatta) così, quale fattura, essa non può sussistere senza chi la salvaguardi. Il fatto che un’opera non trovi i suoi salvaguardanti, o non li trovi immediatamente conformi alla verità che si storicizza nell’opera, non significa affatto che l’opera resti opera anche senza i salvaguardanti. In quanto opera essa resta sempre riferita ai salvaguardanti., anche quando e proprio quando essa è semplicemente in attesa, cattivandosi e attendendo il loro ingresso nella verità.” [Ni068,p. 51]

 

 

- Così come non può esserci un’opera che non sia stata creata – tanto essenzialmente le occorre qualcuno che la crei -, tanto meno lo stesso esprodotto della creazione può divenire essente senza qualcuno che lo vereconda. Se però un’opera non trova i suoi verecondenti, se non trova immediatamente dei verecondenti in grado di corrispondere colloquialmente alla verità che accade nell’opera, ciò non significa affatto che l’opera sia opera anche senza i verecondenti. Essa, se è davvero un’opera, resta pur sempre riferita ai verecondenti, anche quando e proprio quando essa, stando semplicemente in attesa dei verecondenti, persegue e infine consegue che costoro soggiornino coinvolgendosi nella sua verità.” [Bo06, p. 66]
- All’esser-opera dell’opera appartengono coes-senzialmente tanto coloro che la fanno quanto coloro che la salvaguardano. Ma è l’opera stessa a rendere possibili coloro che la fanno e a richiedere, quanto alla sua stessa essenza, coloro che la salvaguardano. Che l’arte sia l’origine dell’opera significa che essa fa sorgere nella loro essenza quelli che sono ad essa coessenziali: i facenti e i salvaguardanti.” [Ni068, p. 55] - Alla createzza dell’opera pertengono coes-senzialmente tanto i creanti quanto i verecondenti. È però l’opera stessa a rendere possibili nella loro essenza i creanti, e ad aver bisogno, sulla base della sua propria essenza, dei verecondenti. Se l’arte è l’origine dell’opera, allora ciò sognifica che essa lascia scaturire nella loro essenza quelli che coappartengono essenzialmente all’opera, creanti e verecondenti.” [Bo06, p. 71]
  • § [ bivacchi ]

§ Nota 4, pag. 57 - “Il valore non è il risultato dell'utilità e della scarsità combinate astrattamente, ma il risultato di un sentimento che si sviluppa intorno alle cose che, attraverso il soddisfacimento dei bisogni umani, sono capaci di evocare emozioni. II valore degli oggetti d'uso prodotti deve essere spiegato anche esso mediante la natura emotiva dell'uomo e non riferendosi alla sua attività logica che costruisce obbiettivi utilitaristici. Qui, tuttavia, credo che se si vuole dare una spiegazione si deve prendere in considerazione non tanto colui che usa questi oggetti quanto l'artigiano che li produce. Questi indigeni [delle isole Trobiand] sono lavoratori industriosi e accaniti, che non lavorano sotto lo stimolo della necessità o per guadagnarsi da vivere, ma sotto l'ispirazione del talento e della fantasia, che hanno un alto senso della loro attività, concepita spesso come il risultato di un'influenza magica, e da cui traggono piacere. Ciò vale specialmente per coloro che producono oggetti di grande valore e che sono sempre dei valenti artigiani, appassionati del loro lavoro. Adesso, questi artisti indigeni apprezzano altamente i materiali buoni e la perfezione tecnica e quando trovano un pezzo di materiale particolarmente buono, è per loro un invito a prodigarvi una sovrabbondanza di lavoro e a produrre così delle cose troppo belle per essere usate, ma che appunto per questo si desidera sopra ogni cosa possedere. La maniera accurata di lavorare, la perfetta padronanza della tecnica, la scelta del materiale, l'inesauribile pazienza nel dare gli ultimi tocchi sono state spesso notate da coloro che hanno visto gli indigeni all'opera. Queste osservazioni hanno attirato l'attenzione di alcuni economisti teorici, ma è necessario vedere questi fatti in relazione alla teoria del valore. Cioè, questo atteggiamento affettuoso verso il materiale e il lavoro produrrà un sentimento di attaccamento ai materiali rari e agli oggetti ben lavorati e ciò avrà come risultato che verrà loro attribuito un valore. II valore sarà annesso ai tipi rari di quei materiali che gli artigiani usano di solito:quelle specie di conchiglie che sono scarse e che si prestano in modo particolare ad essere modellate e levigate, i tipi di legno che sono anch'essi rari, come l'ebano, e piu specialmente delle varietà particolari di quella pietra con cui si fabbricano gli arnesi (n.d.a.: Nello spiegare il valore non voglio tracciarne le possibili origini ma cercare semplicemente di mostrare quali sono gli elementi reali e ascrivibili in cui può essere scomposto l'atteggiamento degli indigeni verso gli oggetti). Possiamo adesso confrontare i nostri risultati con le opinioni erronee sull'uomo economico primitivo che abbiamo esposto sommariamente all'inizio di questo paragrafo. Vediamo che il valore e la ricchezza esistono nonostante le cose siano abbondanti e che questa abbondanza è apprezzata di per se. Gli oggetti vengono prodotti in grandi quantità al di là di ogni loro possibile utilità, come semplice risultato dell'amore per l'accumulazione fine a se stessa; il cibo è lasciato imputridire e, sebbene gli indigeni abbiano tutto ciò che di necessario potrebbero desiderare, pure vogliono sempre di piu, per usarne come ricchezza. Inoltre, per gli oggetti di tipo vaygu'a (cap. 3, parag. 3), non è la scarsità connessa all'utilità che crea il valore, ma una rarità scovata dall'abilita dell'uomo all'interno dei materiali da lavorare. In altre parole, non si dà un valore a quelle cose che sono utili o anche indispensabili, ma difficili da trovare, poiché  tutti i beni indispensabili alla vita possono essere raggiunti facilmente dagli isolani delle Trobriand. Viene invece attribuito un valore a quell'oggetto al quale l'artigiano,avendo trovato un materiale particolarmente bello o fuori del comune, è stato indotto a dedicare una quantità di lavoro sproporzionata. Così facendo, egli crea un oggetto che è una specie di mostro economico, troppo bello, troppo grande, troppo fragile o troppo sovraccarico di decorazioni per essere usato e proprio perciò altamente apprezzato.” [Bronisław Malinowski: Argonauti del Pacifico Occidentale (1922), ed. Newton Compton, Roma, 1978, p. ]

  • § [ un esercito di fantasmi ]

§ Nota 3, p. 66 - “Caro fratello, Sento che papà e mamma pensano a me per istinto (non dico per intelligenza). Hanno lo stesso timore di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. Quello magari si metterebbe a correre per le stanze con le zampe bagnate – sarebbe tanto rozzo. Darebbe fastidio a tutti. Ed abbaierebbe tanto forte. In breve, una bestiaccia. Va bene – ma la bestiaccia ha un storia umana ed anche se è soltanto un cane, ha un’anima umana, e molto sensibili anche, che gli fa sentire quel che pensa di lui la gente, cosa che un cane normale non può fare. Io, dato che ammetto di essere una sorta di cane, li lascio stare. Inoltre questa casa è troppo bella per me e Papà e Mamma e la famiglia son tanto raffinati (sebbene poco sensibili intimamente) e – e – e sono dei preti – tanti preti. Il cane capisce che se lo terranno vorrà dire soltanto che lo si tollererà “in questa casa”, di modo che cercherà di trovarsi un altro canile. Il cane è in effetti figlio di Papà e lo si è lasciato troppo per la strada, dove non ha potuto fare a meno di diventare sempre più rozzo; ma questo Papà già da tempo lo ha dimenticato ed in effetti non ha mai meditato profondamente al legame tra padre e figlio, neppure è il caso di dirlo. E poi – un cane può mordere – può ammalarsi di rabbia ed allora la polizia dovrebbe venire ad abbatterlo. Sì, tutto questo è verissimo. D’altro canto, i cani fanno la guardia. Ciò è superfluo dirlo, essi dicono che c’è la pace, non ci sono pericoli. Quindi non ne parlo. Il cane rimpiange soltanto di non essere restato lontano, perché era meno solo sulla brughiera che in questa casa, malgrado ogni gentilezza. La visita di questo cane è stata una debolezza che spero verrà dimenticata e che il cane eviterà di commettere in futuro.” [Vincent a Theo, Nuenen 15 dicembre 1883;  n. 413-346]

“Caro Theo, Mauve una volta mi disse: troverai te stesso se ti metterai a dipingere, se penetrerai nell’arte più profondamente di quanto tu non abbia fatto fino ad ora. Questo lo disse due anni fa. Ultimamente penso spesso a queste sue parole. Ho trovato me stesso – sono quel cane. Quest’idea può parerti piuttosto esagerata – la realtà può essere meno netta nei suoi contrasti, meno crudamente drammatica, ma credo che il profilo generico della situazione sia vero, in fondo. Quel cane da pastore arruffato che cercai di descriverti nella mia lettera di ieri è il mio vero carattere e la vita di quella bestia è la mia vita, per così dire, saltando i dettagli e badando solo ai fatti essenziali… Ti dico, ho scelta con piena coscienza la vita del cane; resterò un cane, sarò povero, sarò pittore, voglio restare un essere umano. [Vincent a Theo, Nuenen 16 dicembre 1883; n. 414-347]

  • § [ paesaggio con bosco e due figure (spaiate)]

§ Nota 2, pag. 70 - Nel 1934 Golo Mann descriveva in questi termini il “cadreghinismo” dei professori tedeschi: - “Il professore destinato dallo stato a un particolare compito riconoscenva senza esitazioni le autorità, l’Obrickeit, i ‘superiori’ di Lutero. Un professore di filosofia, all’epoca assai noto, ebbe ad affermare in mia presenza che egli non aveva nulla da spartire con la politica. – ma, gli chiesi, lei non muoverebbe un dito se la casa andasse a fuoco? No, rispose tutto serio: se la casa fosse andata a fuoco avrebbe chiamato i pompieri. Lottare col fuoco, vedersela con una crisi politica o economica, ai suoi occhi era un mestiere per il quale occorreva una preparazione, un mestiere che bisognava apprendere. E lui, il professore, non l’aveva appreso; egli aveva imparato soltanto a filosofare… Ma se mai si verificava il caso di un professore che si immischiasse nella politica, ciò accadeva evidentemente perché egli, facendolo, faceva gli interessi dello stato, nel senso che offriva a questo il sostegno di argomenti storici, quello a esempio della missione tedesca in Prussia, se per caso di trattava di uno che insegnasse in una università prussiana.” [Golo Mann, Die deutschen Intellektuellen (Gli intellettuali tedeschi) in Texte und Zeichen, fascicolo n.4, Berlino –Neuwiend, 1955, pag 488 – Riportato in F. Schonauer, La letteratura… cit. pag. 198]

  • § [ fummo tutti avvelenati ]

§ Nota 5, pag. 72 – Brano da Relatività e determinismo,  quindicinale “Programma comunista N.9, 1955: 
Opinione… materia plastica -  “…Questo piace all'Opinione. Nel tempo in cui si vuole tentare da tutti i lati di rivendicarla come macchina motrice del mondo, e governatrice della società e della natura fisica, essa si mostra plastica e cedevole come la pappa, e le restano dentro tutte le sapienti ditate dell'imbonimento. Nulla è più manipolabile e frollo che il modo di atteggiarsi del mondo libero vantato da ovest, della popolare democrazia “dal basso" esaltata da est. Essa si schiera bene tra le materie prime della moderna produzione, serva al capitale. Non ha fibra, non ha innervatura; non ha spine dorsali come i materiali da costruzione classici, la si fa cedere o irrigidire a volontà in qualunque direzione; è “isotropa", passiva e imbelle a tutte le temperature, sotto tutte le latitudini. La sua virtù di adattamento e la sua pecorile ignavia, nella svolta che il mondo traversa, hanno superato i massimi concepibili, ed oscurato le vecchie fiabe retoriche sulla ignoranza generale e l'oscurantismo di epoche trascorse. Come politico il povero vecchio Einstein non poté farci paura. Ma come esponente eccelso di una fase storica di conoscenze scientifiche, è egli un nemico?” [ristampato in Supplemento al n.4 di Aut.Trib 17139, dicembre 1979, a cura di L. Trina  e C. Romeo]

  • § [ Signora mia, cos’è mai la filosofia ]

§ Nota 6, pag. 74 - Al proposito della genialità e della tecnica (categorie trattate nel testo di  Heidegger)  leggiamo cosa ne dice il “calzolaio” olandese:

- “Come la gente non crede più nei miracoli impressionanti, ne più crede ad un Dio che capricciosamente e dispoticamente vola da una cosa all’altra, ma incomincia a sentire un maggiore rispetto, una più grande ammirazione e fede nella natura. In modo analogo, e per gli stessi motivi, penso che nell’arte le antiquate idee del genio innato, dell’ispirazione e così via, non dico si debbano scartare del tutto, ma devono venire vagliate e valutate di nuovo – e grandemente modificate. Non nego tuttavia l’esistenza del genio né che sia innato. Indubbiamente però nego che l’apporto della teoria e della scuola debba sempre, di necessità, essere inutile.” [Vincent a Theo, Nuenen 15 giugno 1884; n. 450-371]

- “La strada per arrivare a molte cose è una conoscenza completa del corpo umano, ma imparare a conoscerlo costa denaro. Inoltre, sono sicurissimo che il colore, il chiaroscuro, la prospettiva, il tono, ed il disegno, in breve, tutto abbia delle leggi fisse che si possono e si debbono studiare, come succede per la chimica e per l’algebra. Questa è tutt’altro che una concezione facile delle cose mentre chi dice: “Si deve sapere tutto per istinto”, invece se la prende molto alla leggera. Come se bastasse! Ma non basta, perché per quanto si sappia per istinto, questo non è che un motivo ancor più valido per passare dall’istinto alla ragione. E’ così che la penso.” [Vincent a Theo, Nuenen 9 ottobre 1884; n.465-381]

  • § [ il gallo, il mulino e il vento ]

§ Nota 4, pag. 85 - Varie lettere di Vincent a Theo:
- “Non faccio che rimpiangere, Theo, di essere da un lato di una determinata barricata, e che tu sia dell’altra, e che mentre la barricata non la si vede più per le strade, essa esiste indubbiamente dal punto di vista sociale e continuerà ad esistere… Quanto a me so bene che in futuro non sarò mai quel che la gente definisce un benestante.” [Vincent a Theo, Nuenen 30 settembre 1884: n. 463-380]
- “Se si vivesse in tempo di guerra, si dovrebbe fare il possibile per combattere, ci si lamenterebbe di non poter vivere in tempo di pace, ma vista la necessità ci si batterebbe. E ugualmente si ha il diritto di desiderare uno stato di cose nel quale il denaro non sia indispensabile per vivere. Eppure, poichè oggi si fa tutto con il denaro, bisogna pur preoccuparsi di produrlo dato che lo si spende…” [Vincent a Theo, Arles 23 settembre 1888 (n. 686-542)]
- “Fortunatamente Gauguin, io e altri pittori non siamo ancora armati di mitragliatrici e di altri nocivi ordigni di guerra. Per conto mio sono deciso a restare armato solo del mio pennello e della mia penna… Gauguin non di meno ha reclamato con grandi strepiti nella sua ultima lettera “le sue maschere e i suoi guanti di scherma” nascosti in un piccolo armadio nella mia casetta gialla. Mi affretterò a fargli pervenire per pacco postale quelle stupidaggini. Sperando che non si servirà di armi più gravi.” [Vincent a Theo, Arles 17 gennaio 1889 (n. 736-571)]
- “Ma il problema dei soldi, qualunque cosa facciamo, rimane sempre lì come il nemico davanti all’esercito, e non si può negarlo o dimenticarlo.” [Vincent a Theo, Saint-Rémy 23 maggio 1889 (n. 776-592)] - “Ecco ciò che mi edifica… mentre quello che mi da fastidio è di vedere in ogni momento quelle brave donne che credono alla Vergine di Lourdes e che inventano delle cose del genere, oppure di sapersi prigioniero di una amministrazione come questa, che favorisce molto volentieri queste aberrazioni religiose, mentre sarebbe necessario guarirne. E allora mi ripeto ancora una volta che sarebbe forse meglio andare, se non all’ergastolo, almeno sotto le armi. E mi rimprovero la mia viltà; avrei dovuto difendere meglio il mio studio, avrei dovuto battermi con le guardie e con i miei vicini: Altri al mio posto si sarebbero serviti di un revolver, e se come artista avessi anche ucciso degli imbecilli come quelli, sarei stato assolto. Ecco, sarebbe stato meglio se lo avessi fatto, invece sono stato vigliacco e ubriaco. Anche malato, ma non sono stato coraggioso. E ora, davanti alla sofferenza che mi danno queste crisi, mi sento pieno di timore, e non so se il mio zelo dipenda da qualcosa di diverso da quello che dico, e cioè come colui che, volendosi suicidare e trovando l’acqua troppo fredda, lotta per riguadagnare la riva.” [Vincent a Theo, Saint-Rémy 10 settembre 1889 (n. 801-605)]

§ Nota 2, pag. 86 - M. Schapiro, L’impressionismo, riflessi e percezioni, ed. Einaudi, Torino 2008.
“Manet non fu il primo o il solo a raffigurare questi tipi marginali. Il mendicante cittadino, o clochard, era una figura congeniale e familiare dell’arte degli anni ’40 e ’50 del XIX secolo grazie alle stampe di Paul Gavarni. In un libro collettivo sulle strade parigine, Les Rues de Paris, pubblicato nel 1844, illustrato da artisti come Daumier, Gavarni e Céléstin Nanteuil, una bella incisione di Piero Zaccone mostra uno stracciaiolo in piedi accanto a un manifesto che pubblicizza il libro. Un testo esplicativo di Louis Berger celebra per esteso l’orgogliosa libertá interiore dello stracciaiolo, e le abitudini che ne hanno fatto una figura parigina: “ Lo stracciaiolo è il filosofo delle strade di Parigi. Nella rinuncia a ogni vanità sociale, nelle perpetue camminate notturne, in quella professione esercitata sotto il cielo stellato, c’è una certa curiosa mescolanza di donchisciottesca indipendenza e di umiltà spensierata, qualcosa di intermedio tra la dignità dell’uomo libero e l’avvilimento del reietto: vi è infine in questi contrasti qualcosa che ci interessa, che  ci attrae, e che ci fa pensare; nulla è più caratteristico ed eccezionale di questa professione… Lo stracciaiolo ha un posto davvero unico nella gerarchia socile: è sui generis, non vi è nessuno come lui; e rimane eternamente sospeso tra l’alto e il basso, tra le stelle e il marciapiede, tra la fogna e il sogno. ” (ivi, p. 149)

“La scelta di Manet di rappresentare commedianti e figure bohémiennes era stata anticipata dal gusto dei pittori realisti degli anno ’40 e ’50 del secolo per la raffigurazione – talvolta curiosa e divertita, talvolta partigiana e compassionevole – delle classi inferiori. La grande esplosione di letteratura giornalistica sui vari ruoli, lavori e tipi umani delle città nelle cosiddette physiologies del tempo, con le loro brillanti e umoristiche xilografie, dimostra che la scelta di Manet non era frutto né di stravaganza né del casuale ricorso a modelli facilmente disponibili allo scopo di esercitare il pennello. Ma nell’elevare tale interesse dalla mera cronaca di semplici xilografie all’imponenza e alla formalità delle grandi tele del Salon, Manet sposta l’attenzione dall’ampio ventaglio sociale di tale arte miniaturizzata col suo amabile e spesso aneddotico rispecchiamento della vita parigina alla provocatoria realtà dell’anomala classe degli artisti indipendenti e dei personaggi della bohéme in quanto figure ribelli.” (Ivi, p. 152) 

  • § [ un paio di libri ]

§ Nota 6, pag. 103 - “Millet cerca essenzialmente lo stile; non lo nasconde, ne fa mostra e se ne gloria.  Ma una parte del ridicolo che troviamo negli allievi di In gres, cade anche su di lui. Lo stile gli porta sfortuna. I suoi contadini sono dei pedanti che hanno un’opinione troppo alta di sé. Ostentano una sorta d’abbrutimento cupo e fatale che m’invoglia ad odiarli. Mietano o seminino, facciano pascolare le vacche o tosino animali, hanno sempre l’aria di dire: ‘Poveri diseredati di questo mondo, eppure siamo noi che lo fecondiamo! Adempiamo una missione, esercitiamo un sacerdozio!’. Invece di mettere semplicemente in luce la poesia propria del suo soggetto, Millet vuole ad ogni costo aggiungervi qualcosa. Nella loro monotona bruttezza tutti quei piccoli paria hanno una pretesa filosofica, malinconica e raffaellesca. Questo difetto guasta, nella pittura di Millet, tutte le belle qualità che da principio attirano lo sguardo” [Charles Baudelaire, Esposizione del 1859, in Scritti di estetica, a cura di Giovanni Macchia, Santoni Editore, Firenze 1948, p. 133-134]

  • § [ seduto tra le sue orecchie ]

§ Nota 6, pag. 110
- “Le sue nature morte sono spesso oggetti personali, piccoli frammenti dell’io presentati con cose meno personali ma sempre significative.” M. Schapiro, Van Gogh, cit. p. 88.

“Van Gogh sente il bisogno di un’oggettività umile e ovvia, come altri potrebbero sentire il bisogno di angeli o di Dio o di forme pure; facce amiche, le cose non problematiche che vede attorno a sé, i fiori, le strade e i campi, le sue scarpe, la sua sedia, il suo cappello e la sua pipa, gli arnesi sulla sua tavola sono i suoi oggetti personali che gli vengono incontro e gli parlano. Potremmo citare quello che egli scrisse in un altro contesto: ‘Sembra un po’ rozzo, ma è proprio vero: il sentimento per le cose stesse, per la realtà, è molto più importante che il sentimento per i quadri, se non altro è più fertile e vitale’.” (ivi, p. 29).

  • § [ caprioli in scatola ]

§ Nota 1, pag. 126
- “Si troverà che le consuetudini comuni a tutta la classe povera sanno cogliere con sicuro istinto il lato dubbio della proprietà; si troverà non solo che questa classe sente l’impulso di soddisfare un bisogno naturale, ma altresì che sente il bisogno di soddisfare un impulso legittimo. La legna caduta ci serve da esempio. Essa è tanto poco in rapporto organico con l’albero vivente, quanto la pelle caduta col serpente. La natura stessa rappresenta nei rami e nelle fronde secchi e caduti, separati dalla vita organica, in contrapposto agli alberi e tronchi ben radicati, ricchi di linfa, che assimilano organicamente aria, luce, acqua e terra per mantenere la propria forma e vita individuale, il contrasto fra ricchi e poveri: ne è una immagine fisica. La povertà umana sente questa affinità e su tale sentimento costruisce il proprio diritto di proprietà: e perciò, mentre riconosce la ricchezza degli organismi fisici al proprietario legittimo, rivendica la miseria fisica al bisogno e alla sorte che gli è concessa. In questa attività delle forze elementari riconosce una forza amica, più umana degli uomini. In luogo all’arbitrio casuale dei privilegiati è subentrata la casualità degli elementi, che strappano alla proprietà privata quanto essa non concede volontariamente. Le elemosine gettate per la via, non spettano ai ricchi più di queste elemosine della natura. Ma già nella propria attività i poveri trovano il proprio diritto. Col raccogliere, la classe elementare si pone sul piano della società umana, che ordina i prodotti delle forze elementari della natura. Analogamente si comporta coi prodotti che crescono allo stato selvaggio e rappresentano un possesso del tutto accidentale, e inoltre, per il loro scarso valore, non costituiscono oggetto di attività per il vero proprietario. Analogamente si comporta col racimolare, con lo spigolare e coll’esercitare simili diritti consuetudinari. Vive dunque in queste consuetudini  della classe povera un senso del diritto istintivo, la cui radice è positiva e legittima. E la forma del diritto consuetudinario è in questo caso altrettanto conforme a natura, quanto l’esistenza della classe povera stessa costituisce finora una mera consuetudine della società borghese, che non ha ancora trovato un posto adatto fra le membra coscienti dello Stato.” [Marx, Scritti politici giovanili, cit. p. 190-191]

  • § [ scarpe e mutande ]

§ Nota 1, pag. 127 - “Sapete, ciò che mi dispiace molto di non aver visto all’Esposizione, sono una serie di abitazioni di tutti i popoli… Ebbene! Potreste voi che l’vete vista, darmene un’idea e soprattutto uno schizzo col colore della casa egizia primitiva. Dovrebbe essere molto semplice, un blocco quadrato, credo, su una terrazza – ma vorrei conoscere anche la colorazione . In un articolo ho letto che era azzurra, rossa e gialla… In un’Illustration ho visto uno schizzo di antiche abitazioni messicane, sembrano anch’esse primitive e bellissime… Ah! Se si conoscessero le cose di allora e si potessero dipingere le persone di allora, che hanno vissuto là dentro, sarebbe bello…” (lettera di Vincent a Bernard, n. 809 -B20, 8 ottobre 1889). Il 20 novembre 1889 (822-B21), nel p.s. alla lettera in cui manifesta la sua disapprovazione per le sacre rappresentazioni di Gauguin e Bernard, scrive: “Grazie comunque della descrizione della casa egizia. Avrei voluto sapere ancora se era più grande o più piccola di una casa contadina delle nostre parti; insomma le sue proporzioni in rapporto a una figura umana. E’ soprattutto per il colore che chiedo informazione” … A Vincent interessa la casa dell’uomo…

  • § [ figure inesistenti ]

§ Nota 1, pag. 132: “Ogni forma di commercio artistico che aveva a che fare con l’arte vera iniziò a fiorire entro pochi anni. Divenne però un’impresa troppo largamente speculativa – ed è così anche ora – non dico proprio così – dico semplicemente troppo; ed essendo una speculazione, perché non dovrebbe avere lo stesso andamento del commercio dei bulbi? Mi dirai che un quadro non è un tulipano. Naturalmente c’è una enorme differenza  e naturalmente io che amo i quadri, ed i tulipani per nulla, me ne rendo conto benissimo… Potrei dilungarmi all’infinito sull’argomento, ma senza insistervi ulteriormente penso che sarai d’accordo con me nel ritenere che nel mestiere del mercante d’arte ci sono molte cose che in futuro potranno ben dimostrasi bolle di sapone. [Vincent a Theo, Nuenen 6 dicembre 1883 , n. 409-344].

  • “I prezzi elevati di cui si sente parlare, pagati per il lavoro di pittori che sono morti e non sono stati compensati così nella vita, è una sorta di tulipanomania da cui i pittori in vita traggono più svantaggi che vantaggi. E potrà anche passare come la mania dei tulipani. Si può ragionare, però, che sebbene la tulipanomania è ormai lontana e dimenticata, i produttori di fiori sono rimasti e rimarranno. E questo riguarda anche la pittura, che rimarrà una sorta di fiore che cresce. E quanto a me ritengo di avere la fortuna di esserci dentro. Ma il resto! Questo per dimostrarvi che non bisogna farsi illusioni.” [Vincent alla madre, Anna van Gogh-Carbentus, Saint-Rémy-de-Provence 21 ottobre 1889, n. 811-612].
    • § [ figure inesistenti ] VIa figura
  • § Nota 2, pag. 137 - “Il significato filosofico del denaro consiste nel fatto che all’interno del mondo pratico esso costituisce l’immagine più chiara e la realizzazione più definitiva della formula dell’essere in generale, in base alla quale le cose trovano il loro senso l’una rispetto all’altra e la reciprocità dei rapporti, in cui sono sospese, determina il loro essere e essere così. Costituisce un aspetto fondamentale del mondo spirituale il fatto che noi incorporiamo in particolari formazioni i rapporti tra più elementi dell’essere; queste formazioni costituiscono evidentemente anche essenze di per s sostanziali, ma la loro rilevanza per noi consiste soltanto nel fatto che esse permettono di visualizzare un rapporto, che è legato a loro in modo ora più aperto, ora più stretto. Così, la fede di matrimonio, come anche una lettera, un pegno, un’uniforme, è simbolo o portatore di un rapporto tradizionale o intellettuale, giuridico o politico tra uomini, così ogni oggetto sacro rappresenta il rapporto materializzato tra l’uomo e il suo Dio. […] Soltanto la ricerca metafisica, che persegue la conoscenza nella sua direzione empirica ma al di là dei confini empirici, può a sua volta risolvere questo dualismo non lasciando più sussistere alcun elemento sostanziale, ma dissolvendolo in interazioni e processi i cui portatori sono soggetti allo stesso destino. La coscienza pratica ha però trovato una forma con cui unire i processi di rapporto e di interazione, nei quali scorre la realtà, con l’esistenza sostanziale con la quale la prassi deve rivestire i rapporti astratti in quanto tali. Tale proiezione di puri rapporti in oggetti particolari costituisce una delle più grandi realizzazioni dello spirito. In essi viene sì incorporato lo spirito, ma soltanto per rendere ciò che è corporeo recipiente di ciò che è spirituale, dando a questo un’efficacia più piena e più vitale. La facoltà di produrre tali oggetti simbolici festeggia nel denaro il suo maggior trionfo.” [Georg Simmel, Filosofia del denaro, ed. UTET, Torino 1984, p. 192-193]

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    parte quinta H.D.S. MAROQUINERIES