HITLER ARTISTA FRUSTRATO? NO, PIENAMENTE REALIZZATO
“Vedo New York consumata da un uragano di fuoco, i suoi grattacieli trasformati in colossali torce fi ammeggianti che si abbattono l’uno sull’altro, il cielo scuro illuminato dal bagliore della città che esplode”. “Quei grattacieli sono una massiccia brutalità, il simbolo del commercialismo. A Manhattan, e in particolare a quella brutta opera chiamata Rockefeller Center, io penso come al simbolo di un calcolo glaciale, di spesa e profi tto, espresso in settanta piani di acciaio, e cemento e vetro”.
Sessant’anni anni prima dell’11 settembre 2001, questo diceva Adolf Hitler ad Albert Speer. Albert Speer, I Diari Segreti di Spandau, Mondadori 1976
“Quanto più è ridotta l’attenzione che un popolo dedica alla cultura, tanto più basso è il suo tenore di vita generale…” Adolf Hitler al Congresso del Partito, Norimberga 1935
VIENNA
Hiedler o Hüttler oppure Schicklgruber, le origini del futuro Führer della Germania si perdono nel buio della povertà, del bigottismo rurale dell’Austria del XIX Secolo. Hitler non conosceva l’identità del nonno. L’oscura vicenda del nome d’origine complicherà la vita di Adolf Hitler il quale, filotedesco convinto, non solo è un illegittimo, cosa che lo preoccupa poco, ma soprattutto non è tedesco e, peggio ancora, quel Hiedler o Hüttler dalle ascendenze ceche lo connoteranno per sempre come “boemo”. La rimozione e la trasfigurazione delle origini divenne, condensato nel Mein Kampf, il progetto ossessivo e melodrammatico mirato alla realizzazione di un autoritratto idealizzato “d’artista redento e redentore”. Dopo aver lasciato il paese d’origine, Braunau am Inn, la sua famiglia si trasferisce a Linz da dove Hitler, nel febbraio del 1908, lancia la sua prima, disastrosa sfida: “Signor Tutore, io vado a Vienna !”. Ha diciotto anni e arriva nella capitale entusiasta di sogni d’arte e di gloria, animato dalla certezza di essere ammesso all’Accademia delle Belle Arti (certezza e non speranza poiché il radicalismo caratteriale di Hitler ha sempre pencolato tra certezze assolute e lamentose aut commiserazioni). “Cinque anni di miseria e disperazione sono impliciti, per me, nel nome di quella città di Feaci dove ho dovuto guadagnarmi il pane dapprima come manovale poi come pittore misconosciuto”. La Männerheim, la “casa per uomini”, l’ospizio per senzatetto nel quale dormiva, è una penosa realtà, ma la realtà, per quanto dura e triste possa essere, in lui risulterà sempre trasfigurata nell’ideale, in un mondo immaginario: “nella mia fantasia io vivevo in ricchi palazzi”. Passata, presente o futura che sia, la realtà, per volere suo e del destino, dovrà piegarsi alle idee che egli trae dalla sua immaginazione. A Vienna la sua domanda di ammissione all’Accademia di Belle Arti verrà respinta per due volte. “Un fulmine a ciel sereno, una catastrofe” che troverà però una giustificazione lapidaria in puro stile hitleriano: “Stando alle normali valutazioni umane, dunque, la realizzazione del mio sogno d’artista non era più possibile…”. Come sappiamo, le “normali valutazioni umane” non avevano per lui alcun significato, lo riguardano talmente poco che uno dei due soli amici del periodo, August Kubizek, al quale lo univa la passione per la musica, in occasione di un compleanno si vide regalare da Adolf una casa immaginaria, in stile rinascimentale italiano, proveniente dall’inventario del mondo chimerico del futuro Führer. Lo stesso Kubizek dirà che “Per Adolf non faceva nessuna differenza parlare di qualcosa di reale o di qualcosa di immaginario”. Se si considera che tutto ciò che il Führer farà in seguito sarà improntato a questa ossessiva volontà di sostituire la realtà con le sue idee, si comprenderanno i successi, che lui stesso considerava “miracolosi”, nella conquista del potere e, al contempo, la prevedibile catastrofe alla quale andò incontro portando con sè la Germania e l’Europa. Intanto, anche per lui l’arte aveva prodotto il consueto beneficio economico. Modesto beneficio, non sufficiente a trarlo dalla povertà. Ma dalla miseria nera, e soprattutto dagli odiati lavori manuali, sì. Non era più manovale edile ma, come lui stesso precisava — con la solita imprecisione decorativa — era finalmente “pittore accademico”. Il suo vicino di branda all’ospizio, Hanisch, vendeva ai turisti, corniciai e tappezzieri gli acquerelli di Adolf; il prezzo variava dalle 9 alle 50 corone (secondo un calcolo approssimativo da 30 a 170 euro), cifre modestissime, ma i due sodali vendevano molto. In seguito Hitler costruirà il suo panegirico di martire dell’arte amplificando il suo stato miserabile, scrivendo e parlando dei “geloni ai piedi e alle mani”, della “fame sua unica compagna”, ecc. Molto spesso i suoi discorsi pubblici (le sue “grandi orazioni”) cominciavano proprio da questi “eroici” ricordi. Hitler, in tal modo, recitava la sua Passione, la sua Via Crucis di povero artista misconosciuto ma predestinato. Eppure perfettamente lucido capisce che: “per giorni e giorni pensavo a quello che potevo fare, solo che la conclusione era sempre la triste constatazione che, immerso com’ero nell’anonimato, non possedevo il minimo presupposto per qualsivoglia attività fruttuosa”. La pittura lo ha liberato dai lavori manuali e lui comincia con il far niente, soltanto l’artista. Si iscrive a tre biblioteche, passa le giornate nei caffè a leggere giornali e inizia a farsi una cultura. Una cultura da autodidatta famelico e disordinato che, alla fine,lo porterà a costituire una biblioteca personale di sedicimila volumi sparsi nelle diverse residenze. Recuperati dagli americani, i primi milletrecento di questi volumi sono stati di recente resi pubblici. Tutti risultano commentati, sottolineati e segnati da note sui margini. Quella del Führer è una biblioteca confusionaria ma non decorativa. Il ragazzo che a Vienna scrive lettere che denotano una scarsa conoscenza dell’ ortografia e del tedesco, da autodidatta maniacale finirà per configurarsi come intellettuale, strampalato e volgare fin che si vuole, ma certamente non sprovveduto. Il giovane Hitler di Vienna, potendo finalmente dedicarsi alla cultura, ne morde anche il frutto avvelenato: l’antisemitismo. Il ragazzo di provincia, che all’inizio della sua permanenza nella capitale, ancora scriveva a Eduard Bloch, il medico ebreo della famiglia Hitler, tutta la sua “infinita riconoscenza” (a lui regalerà anche un proprio dipinto) e scrive di esser riconoscente al corniciaio ebreo Morgenstern che lo aveva incoraggiato acquistandogli ripetutamente gli acquerelli, in qualche anno, scivolando sulla china delle sue umiliazioni, arriverà a una allucinata ostilità antisemita.
L’ambiente apocalittico prebellico dell’Impero multietnico Asburgico, eccitato dalle pubblicazioni estremiste di esaltati, fornì alle sue frustrazioni d’escluso, di disoccupato senza prospettive, l’immagine chiara e definita dei responsabili delle sue miserie: gli ebrei. Dopo aver scoperto l’antisemitismo Hitler dirà che quella fu “una lotta interiore” durata a lungo, la sua più “difficile metamorfosi”. Il giovane solitario, scontroso e isolato che a Linz (come dirà anni dopo) aveva provato “disgusto per le affermazioni ingiuste fatte nei confronti degli ebrei” finalmente aveva trovato un’identità e un’appartenenza: era diventato antisemita. Una certezza che, come le altre, diventerà assoluta. Artista incompreso, pangermanico e antisemita. Ma l’arte oppone ancora resistenza. Per lui l’arte è, e resterà, “qualcosa di superiore”.
RICHARD WAGNER
Arrivato per essere pittore, con già qualche interesse per l’architettura, a Vienna Hitler scopre la musica, soprattutto l’Opera e con essa le suggestioni scenografiche. Ascolta Wagner e sarà un incontro fatale. Goebbels, nel 1935 annoterà: “Il Führer parla di Vienna: là ha gustato la musica per la prima volta, ed è sempre la stessa storia”. Qualche tempo dopo Hitler scriverà: “Non ho avuto alcun predecessore fatta eccezione per Richard Wagner, la massima figura di profeta che il popolo tedesco abbia mai avuto” giungendo ad ammettere che l’idea della profonda parentela tra lui e il grand’uomo gli procurava “un’eccitazione addirittura isterica”. Anche in questo caso Hitler si costruisce una genealogia e una parentela del tutto immaginarie con le quali sostituire una realtà che, in seguito, il Führer non sopporterà “Non so nulla della mia storia di famiglia. Un tempo non sapevo di avere dei parenti […] io appartengo solo alla mia collettività nazionale”. La pretestuosità di questa parentela che si appropria di Wagner non può far dimenticare che Hitler non inventa mai di sana pianta ma produce sempre delle mezze verità più sostenibili della menzogna pura e semplice. Come sempre Hitler estremizza il pensiero del maestro arrivando a definire l’artista come “educatore” e “guida” del popolo, attribuendo così all’artista un fantastico dominio sociale, infatti, proprio con Wagner si manifesta per la prima volta la volontà dell’artista di esercitare un potere incantatorio sulle masse. Anche questa, pericolosissima, esaltazione (è questa la matrice della “Guida”, del Führer che nascerà qualche anno dopo) non è l’invenzione di uno stravagante. Queste visioni, che affermano il potere dell’arte, Hitler le deve alla cultura, ai celebri libri di Julius Langbehn che, quando era appena ventenne, erano già alla 47ma edizione: Dürer als Fürher e Rembrandt als Erzieher (Dürer come guida, Rembrandt come educatore). In ogni caso la teatralizzazione della vita pubblica durante il Terzo Reich, la passione scenografica del regime e la sua prassi politica intesa come drammaturgia derivano dal musicista che Hitler, ancora ragazzo, scopre a Vienna. Lo stile delle manifestazioni del Terzo Reich sarebbe impensabile senza questa lezione operistica, senza l’arte seduttiva di Wagner. In attesa di poter mescolare il Walhalla degli eroi wagneriani con le grandi cerimonie religiose, il giovane Adolf, a Vienna, si deve accontentare di eseguire i bozzetti per i manifesti pubblicitari di una brillantina, una marca di saponette e una polvere antisudore per i piedi, la polvere “Teddy” (quest’ ultimo manifesto, debitamente firmato “Hitler”, è stato ritrovato). Avendo però, grazie all’arte, acquisito la padronanza del proprio tempo, Adolf prenderà le abitudini del bohémien non alzandosi prima di mezzogiorno e stando in piedi fino a tarda notte. Durante la notte, a suo modo, lavorava. Disegnava progetti per rinnovare gli edifici di Berlino, per modificare la Heldenplatz di Vienna; programmava un’immaginaria collezione pubblica per il Museo di Linz che lui avrebbe costruito, studiava una bevanda analcolica e finte sigarette per togliere il vizio del fumo al popolo del quale già si sentiva educatore e guida, scriveva testi drammaturgici e, ancora a disagio con la lingua tedesca, il giovane Adolf, dopo qualche lezione di pianoforte, scrive musiga (!), avventurandosi in improbabili tentativi di composizione musicale.
MONACO
Presentandosi alla Polizia di Monaco per notificare la propria presenza, si dichiara apolide. Il futuro Führer tedesco si presenta alla Germania come apolide; non è un debutto glorioso, ma Adolf, ventiquattrenne senza prospettive, pensava solo a sopravvivere come artista e architetto. Non appena trova una stanza in affitto dal sarto Popp, al 34 della Schleissheimer Strasse, la Polizia lo aspetta, lo arresta e lo consegna al consolato austriaco che da mesi lo ricercava poiché in Austria si era sottratto al servizio militare. Si giustificherà scrivendo una lettera la quale, oltre a provare che Hitler aveva ancora una conoscenza lacunosa del tedesco e dell’ortografia, dimostra quanto fossero granitiche (patologiche o meno) le sue convinzioni e l’astuzia necessaria per difenderle “Nella citazione vengo indicato come pittore. Se questo titolo mi spetta di diritto […] indubbiamente io mi guadagno da vivere come pittore indipendente […] essendo del tutto privo di mezzi […] ragion per qui (!) i miei introiti sono assai modesti […] in questo momento sono anzi scarsissimi perché nel momento attuale il mercato artistico di Monaco si trova, per così dire, in letargo”. Viene riformato e, liberato dai suoi compatrioti, il pittore indipendente ritorna a Monaco continuando a vivere come prima, in una sfera vuota, senza prospettiva alcuna. Su di lui incomberà sempre, fino alla vigilia del trionfo, la minaccia di espulsione. Gli errori di grammatica, dei quali sarà poi consapevole, saranno liquidati alla sua maniera “Non sono mai riuscito a imparare il gergo di Vienna”. Il ragazzo di provincia erigeva così il suo linguaggio rurale a norma, declassando il tedesco parlato nella capitale austriaca a gergo. Nel tragico dopoguerra della Germania sconfitta prende forma l’ossessione espressiva più vera di Hitler: la teatralità e quell’idea wagneriana di Arte Totale che gli si era rivelata a Vienna. Nella società tedesca in sfacelo inizia la metamorfosi pubblica di Hitler. La Sterneckerbräu e la Hofbräuhaus sono i luoghi dove comincia a esibirsi, poi sotto la tenda del Circo Krone. Una decina d’anni dopo arriverà a Berlino dove, teatralizzata l’intera vita pubblica tedesca, potrà esibirsi al mondo. Testi, scene e costumi, regia e interpretazione di Adolf Hitler. Infatti, non appena gli sarà possibile, “firmerà” letteralmente tutto, con scrupolo maniacale. Cominciando da se stesso, dai suoi “costumi di scena”, vestirà abiti d’accatto, tra l’obsoleto di una marsina e la volgarità plebea dei calzoni corti di cuoio, vecchie uniformi e scarpe gialle, uno zaino sulle spalle con impermeabile e frustino, suscitando a volte l’ironia dei suoi stessi sodali. Disegnerà le uniformi dei suoi sostenitori che, come comparse, dovranno presenziare ai comizi vestiti in quel modo, disegna per loro i gagliardetti e le insegne (saranno le stesse che vedremo poi nelle grandi parate degli anni del trionfo), pretende di essere considerato l’autore della Croce Uncinata seppure non sia vero, stabilisce le musiche con le quali aprire e chiudere i discorsi, perlustra in anticipo i luoghi dove terrà il comizio, architetto — per ora d’interni di birrerie — predispone la scena studiando la posizione delle sedie per il pubblico, il corridoio dal quale egli raggiungerà la tribuna, la posizione e l’altezza esatta della sua pedana; verifica di persona, provandola, l’acustica di questa o quella sala e le luci. Non appena ne avrà le possibilità farà annunciare i suoi comizi da vistosi manifesti di colore rosso vivo con la scritta “Oratore: Signor Adolf Hitler” nello stile col quale, a quei tempi, venivano presentati i cantanti nei manifesti d’Opera. Mescolando gli effetti spettacolari del Grand Opera, del Circo e il cerimoniale della liturgia ecclesiastica, voleva cortei con bandiere, marce a suon di musica e canzoni. Questo è ancora l’Hitler di Monaco, l’oscuro “agitatore da birreria” che, all’inizio, pochi presero sul serio. “Propaganda, propaganda […] tanto e così a lungo da far nascere una fede e che più non si sappia distinguere tra invenzione e verità […] si tratti del cielo o di una pomata per capelli”. Per il momento è ancora l’escluso capace solo di rimuginare ostilità, frustrazioni e sogni disperati. Continua a dipingere acquerelli e a starsene seduto in birreria. In realtà, questo Hitler si lascia trascinare dagli eventi e, come prima, si dichiara a volte studente, a volte pittore, scrittore o architetto. Hitler, sostanzialmente apolitico, non ha e respingerà sempre una qualsiasi idea politica classicamente intesa “Chi pensa che il Nazionalsocialismo sia soltanto un’idea politica, non ha capito nulla del nostro movimento”. La politica per lui altro non è che arte del mascheramento al fine di suscitare “emozioni favorevoli”. Monaco, in quel momento, è l’ultimo rifugio della tolleranza tedesca dove, con cordialità, socievolezza e retorica, possono convivere le più disparate tendenze radicali di Sinistra e gli innumerevoli gruppi della Destra nazionalista. Riuniti nel sobborgo di Schwabing, convergono anarchici, bohémien ed ex soldati sconfitti, artisti d’ogni genere e apostoli del mondo nuovo da creare sulle ceneri della decadenza. Qui abitavano Thomas Mann e Wedekind, sulla stessa Schleissheimer Strasse dove Hitler alloggiava, aveva abitato Lenin. Monaco era incline ad apprezzare i Sonderling, gli originali, gli stravaganti, ai quali riconosceva volentieri la presunzione di genialità e la “maniera di vivere del pittore” era considerata del tutto legittima. Le birrerie sono il luogo dove, senza distinzioni di censo, tutti sono ammessi alla pari. Eppure, ai tavoli delle birrerie, sviluppa un concetto che diverrà per lui una fissazione: il denaro pubblico, speso per l’arte, non è mai troppo “In momenti in cui attorno a noi si stendono povertà, miseria e afflizione, siamo oggi nelle condizioni di sostenere sacrifici per l’arte ? L’arte non è, in fondo, un lusso per pochi, mentre occorre distribuire il necessario a tutti? Ritengo opportuno replicare una volta per sempre a queste obiezioni. L’arte non costituisce un fenomeno dell’esistenza umana che, a seconda delle necessità, si possa assumere a piacere oppure licenziare e mandare in pensione. Lo sviluppo delle potenzialità dell’arte segue la medesima legge di sviluppo e di espansione che ritma ogni altra attività umana”. Per lui la “magia dell’arte deve restituire il mito al popolo”, trasformare il quotidiano in possibilità di farsi mito, “il presente inteso come Modern (in tedesco anche “alla moda”) domani, logicamente, sarà Unmodern, non moderno, fuori moda, ma grazie all’arte il presente può e deve farsi duraturo, eterno…”. Nel difendere le pesanti spese sostenute dalla Baviera per tradurre in realtà i sogni di Wagner, non solo sembra parlare di se stesso ma, per la prima volta, l’individuo scontroso, abituato a starsene in disparte scopre di avere un pubblico. Le sue torrenziali interpretazioni, i suoi monologhi non si fermeranno più. Gli sfaccendati si raggruppano sempre più numerosi al tavolo dello stravagante che beve latte, non fuma e rifiuta i piatti di carne. Si tratta di ex soldati in cerca di fortuna, autisti, un macellaio, borghesi rovinati, artistoidi e vagabondi politici. Sarà il codazzo variopinto che lo seguirà in tutti gli anni di Monaco. Viene notato e invitato ad alcune riunioni politiche di un piccolo gruppo nazional-tedesco, ascolta con attenzione e intuisce che la politica, da lui intimamente disprezzata, può costituire la drammaturgia capace di offrirgli finalmente un pubblico.
Comincia ora il vero Mein Kampf, la lotta decennale per il potere all’interno della costellazione di gruppi, movimenti e partiti della Destra nazionalista. Alla prima riunione pubblica del piccolo partito al quale ormai aveva aderito (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, fondato dall’ingegnere ferroviario Rudolf Jung) alla presenza di centoundici persone, Hitler finalmente prese la parola come secondo oratore e per una trentina di minuti liberò se stesso dagli impacci, dalle ritrosie che lo avevano fin a quel momento isolato e privato di contatti. Lasciò prorompere le immagini deliranti, la protesta, le emozioni, l’odio e i sogni che lo abitavano. Terminò madido di sudore tra gli applausi e, ricordando la felicità di quella scoperta, più tardi scriverà: “Sapevo parlare!”. Il grande interprete era nato. Poco dopo si occuperà degli scenari e della regia. Gli scenari saranno le architetture (“Se non ci fosse stata la guerra sarei probabilmente diventato il primo architetto della Germania”) elabora i piani per rifare da cima a fondo Berlino che, così com’ è, non gli piace, per farne “una capitale mondiale paragonabile soltanto all’Egitto, Babilonia o Roma” (più tardi Speer ne realizzerà il plastico che conosciamo) con al centro della città un edificio a cupola alto trecento metri, capace di accogliere centottantamila persone, all’interno il podio, posto ai piedi di un’aquila dorata di ottanta metri, ecc. Finalmente il suo teatro, il suo palcoscenico. E progetti simili per le maggiori città tedesche. Come regista, per le sue stesse performance, fin da Monaco Hitler fissa uno stile dogmatico: l’effetto notte. Deluso per la propria mediocre prestazione e l’assenza di transfert nel pubblico registrata nel corso dell’unico comizio mattutino tenuto agli inizi, deciderà che mai più si sarebbe esibito di giorno. E saranno le fiaccole, i fari puntati, i giochi di luce che, d’ora in poi, sedurranno le masse coinvolte nel duplice, inedito ruolo di spettatori, integrati però come comparse nello spettacolo. Se nei grandiosi progetti di rifacimento architettonico si attua l’ideale di Hitler del politico inteso come artista (o viceversa) con la notte, le fiaccole e l’uso emozionale delle luci ritroviamo il ragazzo che a Vienna chiede di collaborare con lo scenografo di Mahler negli allestimenti delle Opere di Wagner. Mai di giorno e, men che mai il mattino, questa è la regola aurea dello spettacolo hitleriano. A Monaco mette in scena comizi nei quali, come drammaturgo dei propri testi, fonde gli argomenti teorici più disparati all’insegna però di un innegabile “talento combinatorio”. Parlerà fino allo sfinimento, a volte in preda a sintomi convulsivi, dalla sua bocca usciranno deliri alati, intuizioni sorprendenti, oscenità e abiezioni, mai però l’ombra di un progetto politico comunemente inteso, punti precisi di un programma vincolante. Libera scariche d’odio nei confronti della borghesia tedesca che continua a definirlo pittore boemo, politico da birreria. “Quella gente si sbaglia. Mi sottovalutano. Solo per il fatto che vengo dal basso, dalla feccia del popolo, solo perché non ho una cultura, perché non so comportarmi secondo quello che, nei loro cervelli di gallina, considerano giusto […] e, per finire, minacciano di cacciarmi dalla Germania con una frusta da cani. Se io fossi uno di loro, allora sì che sarei un grand’uomo, ma io ho altre carte in mano […]”. Quando vuole predicare contro il fumo non esita a trasformare il suo gesto di ragazzo, quando gettò il pacchetto di sigarette nel Danubio, in un gesto salvifico per la Germania perché “se io avessi continuato a fumare, oggi, probabilmente, non sarei con voi”. Quando predica ai tedeschi le sue virtù di astemio e vegetariano non esita a inventarsi un’invincibilità delle Legioni Romane dovuta al fatto che i Legionari, secondo lui, erano vegetariani. Vere o false che siano le sue astuzie retoriche, ecco l’artista-Guida, l’artista educatore del popolo. Hitler non è più quello di prima, ormai ha capito che, nelle condizioni in cui versava la Germania, poteva forzare la mano, giocare d’azzardo e mettersi contro tutti, comunisti e destra conservatrice, per raggiungere finalmente il dominio assoluto realizzando il Führerstaat totalitario, governato wagnerianamente da un artista. Hitler si serve della politica per portare sulla scena pubblica la sua drammaturgia. Una drammaturgia teatrale con un solo protagonista: il Führer e milioni di figuranti. Infatti, al culmine della gloria Hitler, che continua demagogicamente a utilizzare il popolo tedesco come giustificazione del proprio assolutismo estetico, viziato dai suoi incredibili successi, non esiterà a regolare i conti culturali (che lui intende come spirituali ) con gli stessi tedeschi. “Sparta, lo stato razziale più limpido della storia, l’Impero romano, Cesare, Augusto, non gli analfabeti delle foreste germaniche dobbiamo annoverare tra gli spiriti illuminati dell’Olimpo […] in cui io sarò accolto […] nello stesso periodo in cui i nostri progenitori costruivano boccali d’argilla, in Grecia si era già costruita l’Acropoli […] il nostro era un paese di porcari […] quando ci viene chiesta notizia dei nostri antenati dovremmo sempre rispondere additando i greci”.
Il “capo cameriere con le stigmate”, come lo definiscono gli avversari, utilizza sempre più gli accenti profetici “Guai a chi non crede!” trasfigurando lotta, assassinio e “sacrificio cruento” in atti di umile attuazione di un volere divino “in quanto io mi difendo dall’ebreo, lotto in nome del Signore” ed è questo lo stesso, tragico delirio messianico che, circa vent’anni dopo, nel pieno della guerra e del genocidio, gli consente di assicurare soddisfatto “Io ho sempre avuto la coscienza pulita”. A Monaco hanno luogo le prove generali. Ecco il programma scritto per la Regia: “[…] adunate di massa capaci di far nascere nel piccolo, miserabile individuo, la fiera convinzione di essere, lui, minuscolo verme, la parte di un grande drago sotto il cui fiato ardente l’odiato mondo borghese prima o poi sparirà in fuoco e fiamme […]”. In pratica questo programma si applicava così: mentre i ritmi musicali, lo sfilare delle bandiere e l’impazienza ponevano le masse in attesa in una situazione di insostenibile tensione, Hitler se ne sta in una stanza d’albergo, nervoso, bevendo acqua minerale, informandosi sullo stato d’animo della folla. Impartendo disposizioni dell’ultimo minuto. Soltanto quando avverte che la temperatura delle masse è al culmine, fa la sua apparizione. Avanza lentamente entrando dal fondo, la Badenweiler Marsch era la sigla musicale riservata esclusivamente a lui, accompagnato da un fascio di luce, procede tra due ali di folla urlante, in “una via triumphalis di corpi umani viventi”. Raggiunto il podio resta immobile, prolunga una pausa di raccoglimento che dura minuti, chiuso in se stesso, distaccato, vaga con sguardi erratici prima di un inizio che, quasi sempre, è lo stesso, monotono, riferimento alla leggenda da lui costruita sulle sue origini. Parole sommesse che cadono in un silenzio di morte. Con questa formula iniziale prolungava la tensione dell’attesa dentro il discorso stesso. Precedendone l’epoca, Hitler concepiva razionalmente la regia delle sue esibizioni emozionali come una rockstar. Ma questo talento registico non avrebbe potuto conferire alle sue performance un tale potere orgiastico e incantatorio se “Hitler non avesse condiviso i più segreti impulsi delle folle, diventando il compendio di tutte le psicosi collettive. In uno scambio di patologie, mentre Hitler parlava, le masse celebravano, idolatravano se stesse”.
BERLINO
Dopo inenarrabili peripezie, azzardi spericolati e insperati colpi di fortuna, dopo esser stato a un passo dall’espulsione, l’inarrestabile disfacimento della Repubblica di Weimar costringerà il vecchio e rimbambito Presidente von Hindenburg ad affidare la Cancelleria al Führer bavarese nel tentativo di mettergli il guinzaglio parlamentare. In effetti, a rigor di termini non era successo null’altro che un cambio di governo, Hitler guida un governo di coalizione dove i nazionalsocialisti sono solo tre. Ancora una volta “quella gente si sbaglia” e sottovaluta il “il politico da birreria”. Hitler, in previsione della “notte del grande miracolo”, aveva meticolosamente programmato, facendolo eseguire da Goebbels, uno spettacolo mai visto a Berlino. Trentamila seguaci, convocati da tutti i Länder, diedero luogo a un’enorme fiaccolata notturna. Sfilarono con le uniformi portate da casa fino alle prime ore del mattino. Marciando sul passo scandito dalle bande musicali, passarono tra due ali di folla eccitata. Un fiammeggiante corteo le cui ombre in movimento si stagliavano sulle pareti delle case. All’interno della Cancelleria, dov’era in corso la prima riunione del Governo, Hitler fa aprire le finestre, i capi dei partiti della coalizione, ampiamente maggioritari al Reichstag, si trovano di colpo ridotti al rango di comprimari di un solo, vero protagonista. L’incredibile spettacolo che si svolge nelle strade di Berlino contiene, implicita, un’evidente minaccia di violenza fisica, tanto più inquietante quanto più è racchiusa in una cupa e perfetta forma estetica. Non è una folla di scalmanati urlanti che disperde l’energia, ma un’impressionante coreografia teatrale la cui geometrica potenza concentrava ed esaltava tutte le emozioni e le minacce. Rientrando in albergo alle sei del mattino Hitler confiderà “…li ho giocati… sono in trappola…”. Non aveva intrappolato i partiti maggiori della coalizione con i mezzi e il linguaggio della politica, li aveva giocati e soggiogati a regola d’arte, con gli “effetti speciali” dell’Opera wagneriana. Poco tempo dopo entrerà in scena l’attore performativo. E sarà ancora qualcosa di mai visto prima: il Cancelliere del Reich tiene un comizio notturno in un quartiere operaio di Berlino. Illuminato dai fari delle automobili e da un proiettore militare, parlerà per più di un’ora facendo esplodere quella miscela di intuizioni drammatiche e teppismo, idee universali e trivialità che portava in sé: “Non mi si dovrà mai vedere sotto l’aspetto del borghese […] nessuna classe sociale è più imbecille di questa borghesia morente che son venuto a togliere di mezzo […] ”. Non avendo alcuna identità politica, essendo nessuno, Hitler può essere tutto e chiunque, cioè il perfetto paradosso dell’attore. Concluderà però ritornando a se stesso, andando, in quel contesto, genialmente fuori tema “in quanto popolo di cantori, poeti e pensatori il tedesco, soltanto quando il disastro e la miseria lo avessero reso disumano, forse, dall’arte, sarebbe sorto un nuovo risorgimento, un nuovo Reich e quindi una nuova vita.” Non dal lavoro (sta parlando ad operai) ma dall’arte viene la salvezza. In definitiva, è rimasto il ragazzo di Vienna. L’idealista pezzente non cambierà mai. La realtà non può insegnare nulla a Hitler poiché la realtà si confonde con i suoi risentimenti, le sue visioni fantastiche, teatrali ed estetiche. Gli stendardi diventeranno foreste, i fari illumineranno a giorno solo quel che la sua regia prevede, la musica stordirà la Germania. I deliri del performer (a volte stupefacenti, a volte osceni) concluderanno l’opera d’incantamento delle masse. Non rinuncerà all’arte propriamente detta (per lui la pittura) e dipingerà anche durante la guerra ma, quel che più conta, Hitler diventa l’artista di tutte le arti, la guida di tutti gli artisti, sarà il curatore, il critico e l’organizzatore, parteciperà alle giurie o interverrà modificandone gli esiti all’ultimo momento. sorbita dalle dimensioni dell’acquerello per realizzare la sua “opera totale”. Metterà il naso nel montaggio dei film di Leni Riefenstahl qualora coinvolgano lui e il Nazionalsocialismo, disegnerà o suggerirà le opere degli architetti, darà indicazioni per i programmi d’Opera, ecc. Impossibile dunque definire Hitler un “artista fallito”, Hitler è un artista maniacale, tragicamente esploso. Nelle vesti di curatore, allestirà a Monaco, nel 1937, la celebre: “Entartete Kunst” (arte degenerata). Visitata da 2.500.000 persone in pochi mesi, la mostra espone le opere degli illustri maestri del XX Secolo (tra gli altri, Grosz, Kokoschka, Klee, Mondrian, Picasso, ecc.) accanto alle quali Hitler collocò — per assonanza — lavori realizzati da pazienti di ospedali psichiatrici.
A fianco delle opere dei maestri si trovavano le notizie didattiche: il prezzo in milioni di marchi pagato dai proprietari. La mostra non fu — come spesso si dice — un luogo comune antisemita, l’attacco non era portato agli artisti ebrei ma al “Modernismo” tutto. Infatti l’artista più colpito, con mille opere confiscate, fu Emile Nolde, “razzialmente puro”, ex membro del Partito Nazista il quale protestò invano con Goebbels, così come suscitò disagio l’inclusione di Franz Marc tra i degenerati. Marc era morto a Verdun combattendo da volontario per la Germania. Ma per Hitler “l’ arte è un’altra cosa, qualcosa di superiore”. Il Führer aveva ormai iniziato il suo “Kampf um die Kunst”, la sua Lotta per l’Arte contro il qualificativo Modern. La continuerà fino agli ultimi giorni di vita. Già nel 1933, appena giunto al potere, nel corso di un gigantesco spettacolo, aveva istituito il Giorno dell’Arte Tedesca. La Germania è ancora alle prese con la miseria ma il primo intervento pubblico del Führer sarà quello di metter mano, con l’architetto Troost, a un edificio monumentale: la Casa dell’Arte Tedesca di Monaco. Gli impianti tecnici sono avveniristici (comprendono anche un rifugio antiaereo per le opere) ma, come a teatro, accuratamente nascosti “[…] questa non è una fabbrica, né una centrale di riscaldamento. Non abbiamo a che fare con un luogo per lo smercio di dipinti, questo è un Tempio dell’arte […]” dirà nel discorso inaugurale. Nei sei anni che precedono la guerra si occuperà sostanzialmente d’arte, dei suoi grandiosi spettacoli e, nelle vesti di “artista educatore”, della salute e dello spirito del popolo tedesco. A ogni problema pratico risponderà infastidito: “di questo si occupa il Ministero competente”. Per sua fortuna alcuni suoi ministri sono realmente competenti. Crea un solo nuovo Ministero affidato a Goebbels, principalmente incaricato dell’organizzazione pratica delle sue apparizioni edella diffusione della Führerwort, la parola del Führer. Le Leggi elaborate da lui personalmente sono solo tre: La normativa contro il fumo (la cosiddetta “Guerra di Hitler contro il cancro”), la “Lotta per l’Arte e la Cultura” e la prima, severissima Legge promulgata al mondo per la Protezione degli Animali. Una Legge che vietava non solo la vivisezione, ma persino l’alimentazione forzata del pollame. Il fumo, “masturbazione polmonare”, venne vietato nei luoghi di lavoro, negli uffici e luoghi pubblici e ne fu vietata la pubblicità. Nel 1941 venne creato “l’Istituto per la ricerca sui rischi del tabacco” che diffonderà il concetto di “fumo passivo”. Nel contempo andava avanti la campagna contro le bevande alcoliche. Hitler realizzava così, ostinatamente, quei fantastici progetti che, diciottenne, rimuginava a Vienna. La lotta per il potere si era ormai conclusa trionfalmente, eppure il Cancelliere non riesce a star fermo a Berlino. Ormai preda della “malattia dell’attore”, non poteva più fare a meno degli incontri orgiastici con il suo pubblico e, come lui stesso confesserà, dell’“intensa emozione che questo gli procurava”. Fino all’apertura dell’ultima, tragica scena di Teatro, il Teatro di Guerra (nel linguaggio militare “Teatro delle Operazioni”) il suo tempo fu scandito dalle apparizioni teatrali. Nella sola giornata del 26 luglio del 1933 parla a Monaco poi, alle quattordici dello stesso giorno, pronuncia a Berlino l’orazione funebre ai funerali dell’Ammiraglio von Schroeder, alle diciassette parla di Wagner a Bayreuth, ecc. Solo la tragedia maggiore, la guerra, potrà fermarlo, offrendogli la droga pesante di ben altro palcoscenico. Un palcoscenico sul quale si muoverà come un regista demenziale, tra intuizioni geniali, cantonate spaventose e assurde ostinazioni infantili. Patologicamente indifferente alle sorti dell’intera umanità, indifferente alla fine della Germania, alla tragedia dei tedeschi e alla morte dei suoi soldati Hitler, poco prima del suicidio, si farà portare nel Bunker la realizzazione in plastico dei suoi progetti per la nuova Linz che voleva costruire, restando assorto per ore davanti a quel sogno di gioventù. Nel 1944, mentre la guerra volge al disastro, il Führer, nonostante la rovina economica, spende centocinquanta milioni di marchi dell’epoca per acquistare tremila dipinti destinati al futuro Museo di Linz. Alle preoccupazioni di Goebbels e dei Generali replicò lamentando di essere stato sospinto verso la politica, a lui sostanzialmente estranea, solo dalla minaccia mortale che pesava sulla sua razza, mentre lui “avrebbe preferito girovagare per l’Italia come pittore sconosciuto”. Il “genio del dilettantismo”, come ebbe a definirlo Albert Speer, Re Mida al contrario, finì per distruggere tutto ciò che toccava. Nel 1938, in un pamphlet antinazista (Ritratto del fratello Hitler) Thomas Mann con amarezza aveva scritto: “Non si deve forse vedere nel fenomeno, lo si voglia o meno, una delle forme in cui si manifesta l’artisticità.?[…] Sì, si tratta di una parentela quanto mai penosa. E tuttavia, non intendo chiudere gli occhi di fronte alla sua evidenza…”